di Rodolfo de Mattei
Il Mezzogiorno, dunque, non presentò per lungo tempo distinti caratteri politici, anche perché non ne presentò di economici. Il proletariato agricolo che sorse in Sicilia dopo la liquidazione dell'asse ecclesiastico avrebbe potuto entrare in lotta politica e, denunziando nuove esigenze economiche, impostare e risolvere da sé e sul posto il problema terriero. Ma questo proletariato non riuscì a diventare un partito: nato e vissuto alle costole della borghesia, ne assunse come poté l'abito e la vocazione; e anziché differenziarsi da essa cercò di sostituirla; ove non poté, cercò di venire a patti, che furono i noti patti agrari.
L'atteggiamento che le classi povere assunsero dinanzi alle ricche fu perfettamente analogo a quello che la regione e il Mezzogiorno tutto assunse dinanzi allo Stato; atteggiamento di reverenza mistica e di aspettazione passiva. Le classi umili non cercarono di risolvere per conto proprio il problema particolare,
come il Mezzogiorno non cercò di risolvere per conto suo il problema generale. Così non si ebbe un vero partito proletario, come non si ebbe un partito meridionale: non si ebbe, insomma, una franca impostazione di volontà. Restano da spiegare i Fasci siciliani del 1893, interessante e caratteristico momento della vita meridionale.
Ma i Fasci dei lavoratori, su cui specularono minoranze desiderose di conquistare sotto nuova etichetta i municipi, non seppero sufficientemente interessare il proletariato agricolo, che in alcune province non partecipò affatto al movimento, lasciandolo ai ferrovieri e agli zolfatai, sicché la questione del latifondo non fu seriamente posta: né i Fasci disdegnarono, ma carezzarono, l'amicizia dei radicali e d'ogni sorta di democratici. Fatto sta che i risultati delle elezioni politiche del marzo 1897 (cioè dopo l'incendio), segnarono in tutte le regioni d'Italia un aumento dei voti raccolti dai socialisti del doppio e del triplo (di fronte a quelli del '95) mentre in Sicilia i voti da 4.420 si ridussero a 2.378. Insomma, e in genere, durante il quindicennio anteriore alla guerra europea, le correnti politiche meridionali furono essenzialmente statali e costituzionali, per quanto a base democratica, e appunto per opera dei pubblicisti meridionali (Arcoleo, Majorana, Orlando, Salandra, Mosca, Chimienti, Villari, ecc.), l'idea di Stato, come supremo ente superindividuale, trovava la sua dottrina. Negli anni successivi alla pace europea, le formazioni politiche siciliane (insistiamo a considerare in ispecie la Sicilia, significativo esponente della vita meridionale) assumono un particolare interesse. In questi anni densi, che ancora è impossibile guardare con la distanza occorrente a un'obiettiva raccolta di somme. Il problema meridionale è nettamente e successivamente proposto da tre partiti, il popolare, il socialista, il fascista, e da correnti caratteristicamente locali: il partito separatista e le varie leghe economiche.
Assume senza dubbio un interesse storico l'appello del Partito Popolare, coi suoi decisi programmi di decentramento, da cui le regioni meridionali avrebbero tratto largo beneficio. Non è possibile né giusto dimenticare che questo partito esce dalle mani di un siciliano ed ha per patria d'origine la Sicilia. È con la visione prima e diretta delle possibilità e necessita meridionali che il prof. Sturzo, fin dal 1919, propugna il decentramento a base regionale. Egli si rende conto che solo da uno sviluppo della vita e iniziativa locale (lavori pubblici, porti, scuole, beneficenza, igiene, lavoro, agricoltura, ecc., regionali) il Mezzogiorno può risorgere. Importante è, a tal proposito, l'ordine del giorno deliberato nel luglio 1920 dai depurati popolari del Meridione. Comprende, Don Sturzo, che dando alla regione vita propria, automaticamente sarà ottenuta la soluzione dell'eterno problema. Si può affermare che lo Sturzo ha, primo, fissato categoricamente questo punto, e così facendo ha francamente e direttamente inserito il problema meridionale nel problema nazionale.
Fine Ottava parte.
8. Continua
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