giovedì 20 marzo 2014

Considerazioni sui fatti di Pontelandolfo e Casalduni

Pontelandolfo - veduta panoramica 
I fatti di Pontelandolfo e Casalduni avvenuti nell’agosto del 1861 sono fra i più noti della lotta al brigantaggio e sono stati sovente sfruttati da certi propagandisti e pubblicisti con intenti politici di critica all’Unità d’Italia. 
Come insegnava fra gli altri il grande Max Weber, le scienze umane devono escludere ogni considerazione ideologica, estetica, etica ecc., limitandosi a fornire un’analisi obiettiva dell’oggetto esaminato. Il sottoscritto pertanto non si prefigge d’esprimere qui un giudizio morale o politico sugli accadimenti suddetti, ma solo e più modestamente di provare a riportarne una sintesi con meri fini divulgativi, essendo già stati trattati esaurientemente da alcuni studiosi.


Si può premettere che queste vicende, contrariamente a ciò che sostengono taluni, non sono per nulla rimaste “nascoste” ossia “occultate”. Al contrario, dei fatti di Pontelandolfo e Casalduni parlarono già nel secolo XIX studi sul brigantaggio, come ad esempio quello celebre di Marc Monnier, nostalgici del regno borbonico quale Giacinto De Sivo, memorie autobiografiche, articoli di giornale d’ogni tendenza ecc. L’onorevole Giuseppe Ferrari ne discusse in Parlamento, nella seduta alla Camera del 2 dicembre 1861, dopo aver visitato personalmente Pontelandolfo il 1 novembre dello stesso anno. Praticamente in contemporanea a questi accadimenti e negli anni immediatamente posteriori, mentre la lotta al brigantaggio continuava, questi fatti erano conosciuti, liberamente divulgati, discussi in prospettive differenti. Naturalmente, anche la storiografia scientifica del Novecento li ha affrontati. Ad esempio, lo storico Franco Molfese li riferisce nella sua opera “Storia del brigantaggio dopo l’Unità”, pubblicata a Milano nel 1964 e che viene ritenuta tutt’ora, per quantità delle fonti esaminate e per bravura e capacità nel comporre un quadro complessivo ed equilibrato, il miglior saggio mai scritto sulla repressione del fenomeno brigantesco dopo il 1860. È sufficiente conoscere le fonti primarie ottocentesche, oppure la storiografica accademica novecentesca, per sapere che di quel che accadde in questi due paesi del Beneventano si è sempre scritto pubblicamente e liberamente. Non ci si trova dinanzi ad un evento tenuto segreto ed infine smascherato in anni recenti, ma di un avvenimento conosciuto e studiato praticamente dal momento in cui si compì fino ad oggi. Ciò premesso, si può passare ora a fornire una rapida sintesi delle vicende. 

Il 7 agosto del 1861 un gruppo di briganti, aventi per capobanda Cosimo Giordano, fece irruzione a Pontelandolfo, approfittando dell’allontanamento di volontari della Guardia nazionale. Secondo alcune fonti, sarebbero stati invitati dall’arciprete Epifanio De Gregorio e da un gruppo di canonici. In ogni caso, dopo il loro ingresso in paese si diedero al saccheggio, incendiarono abitazioni e pubblici registri e devastarono uffici ed edifici dell’amministrazione. Furono bruciati gli archivi comunali e la biblioteca e venne gravemente danneggiata la grande collezione d’arte del giudice Giosuè De Agostini, ospitata nel suo palazzo signorile. Fu assalita la corriera postale e vennero derubati i suoi passeggeri. Si ebbero anche diversi assassini d’abitanti. Fra la cittadinanza, parte simpatizzò con i briganti, parte fuggì o fu vittima delle violenze, parte ancora rimase neutrale ovvero non ebbe alcun ruolo attivo. 

Le autorità, avvisate dell’accaduto ma ignare delle dimensioni della banda brigantesca e dell’appoggio datole da parte della popolazione, decisero d’inviare un reparto di militari in perlustrazione. L’11 agosto 1861 giunse così a Pontelandolfo il luogotenente Luigi Augusto Bracci alla testa di 40 bersaglieri del 36° reggimento, con il rinforzo di 4 carabinieri. Entrati in paese senza aver compiuto alcun gesto ostile, anzi inalberando una bandiera bianca in segno di pace e cercando solo d’acquistare viveri, furono assaliti dai briganti e da alcuni cittadini. I soldati, dinanzi ad un numero soverchiante di nemici, ripiegarono prima all’interno d’una torre medievale (il simbolo di Pontelandolfo, ultimo resto d’un castello del Trecento), poi cercarono scampo in direzione di Casalduni. Durante tale ritirata finirono però in un’imboscata e, serrati da ogni direzione da forze preponderanti, s’arresero. Cinque erano caduti in combattimento, un sesto era stato ucciso in precedenza, due erano riusciti provvisoriamente a nascondersi. Nonostante avessero alzato bandiera bianca, i militari superstiti vennero tutti trucidati, tranne un sergente che venne risparmiato perché aveva promesso che non avrebbe più combattuto contro Francesco II. Il tenente Bracci fu torturato per circa otto ore, prima di venire ucciso a colpi di pietra. La testa gli fu tagliata e venne infilzata su d’una croce, posta nella chiesa di Pontelandolfo. Una sorte analoga toccò a tutto il suo reparto, i cui soldati finirono uccisi a colpi di scure, di mazza, dilaniati dagli zoccoli di cavalli ecc. Sei militari, già gravemente feriti, furono massacrati a colpi di mazza. Un cocchiere si segnalò per il suo comportamento, facendo passare e ripassare dei cavalli al galoppo sopra i corpi dei soldati, alcuni moribondi, altri solo feriti ma impossibilitati a muoversi perché legati. 
Fu allora inviato un altro reparto militare, questa volta di ben maggiore forza, comandato dal tenente colonnello Pier Eleonoro Negri e costituito da 400 bersaglieri. Quando entrarono a Pontelandolfo, il 14 agosto del 1861, questi soldati, che già sapevano della strage dei propri commilitoni arresisi, videro che i loro stessi corpi erano stati smembrati ed appesi dai briganti come trofei in diverse parti della località, con il capo mozzo del tenente Bracci che era stato conficcato su d’una croce, come si è detto sopra. A questo punto iniziò la rappresaglia, che coinvolse certamente persone innocenti e vide l’incendio d’entrambi i paesi, Pontelandolfo e Casalduni.
Rimangono da precisare le dimensioni della rappresaglia, con il numero delle vittime e gli stessi danni materiali. Questo deve essere fatto sulla base di ciò che è possibile provare dalle fonti, altrimenti cessa d’essere storia e diventa romanzo ovvero pseudostoria. Esistono analitici studi di storia locale, dedicati proprio a queste tragiche vicende, che forniscono una stima precisa delle perdite di vite umane. 
Si può ricordare anzitutto il saggio “Storia dei fatti di Pontelandolfo”, scritto dal Gr. Uff. dottor Ferdinando Melchiorre Pulzella, (a cui è stata concessa la cittadinanza onoraria proprio da questo comune per i suoi meriti scientifici), che valuta le vittime fra i civili in numero di quindici, precisamente tredici a Pontelandolfo e due a Casalduni.

Una cifra quasi equivalente è proposta da un altro ricercatore storico, Davide Fernando Panella, autore del saggio “L'incendio di Pontelandolfo e Casalduni: 14 agosto 1861”, Questo studio si è basato su documenti parzialmente o totalmente inediti ed in più esaminando le fonti già in precedenza conosciute e la bibliografia sul tema, in modo da avere un quadro complessivo il più completo possibile attuato anche con il confronto delle diverse fonti fra loro. Panella ha analizzato i libri dei morti degli archivi parrocchiali di questi due paesi ed una memoria scritta dal parroco di Fragneto Monforte: tutti questi documenti furono redatti da sacerdoti che furono testimoni oculari dell’accaduto e sono stati scritti con grande precisione e cura dei dettagli. Panella riporta nel suo studio l’elenco dei morti dovuti alla rappresaglia, mostrando come il Registro dei defunti della parrocchia Santissimo Salvatore di Pontelandolfo li enumeri ad uno ad uno, indicandone nome, cognome, genitori, età, causa della morte (ucciso in casa, ucciso per strada, morto per le fiamme ecc.).

Questo ricercatore può così fornire un quadro esatto delle vittime immediate della rappresaglia, riportandone tutte le generalità anagrafiche, il luogo di sepoltura e naturalmente il numero totale: i morti del 14 agosto furono 13, di cui 10 vennero intenzionalmente uccisi, mentre 3 morirono bruciati. Costoro erano persone anziane, che presumibilmente non erano riuscite a sfuggire alle fiamme. Fra questi 13 morti, 11 erano uomini e 2 donne, rispettivamente di 94 e 18 anni. Non risultano adolescenti o bambini fra le vittime. 
Panella poi confronta il totale di decessi avvenuto a Pontelandolfo nell’intero 1861 (furono 291) con quelli del 1860 (furono 142) e del 1862 (furono 171). L’ipotesi di questo ricercatore è che l’aumento della mortalità sia stato condizionato dall’incendio delle case e dalle sue conseguenze indirette, tanto che nei mesi d’agosto e di settembre del 1861 dopo la rappresaglia si registrò una insolita crescita della frequenza dei trapassi. Egli però constata che, anche attribuendo all’incendio ed ai suoi effetti a posteriori questi decessi, si resterebbe comunque ben lontani dalle cifre che alcuni hanno ipotizzato. Il Panella difatti conta dal 15 agosto al 15 settembre (quindi dopo la rappresaglia) un totale di 74 morti, che sono per lo più deceduti nelle proprie case e per il resto in abitazioni di campagna, comunque non a causa d’atti di violenza. 
Il totale di vittime della rappresaglia a Pontelandolfo, quale può essere calcolato con precisione sulla base del minuziosissimo archivio parrocchiale, redatto da testimoni oculari, è pertanto di tredici persone. A questi, secondo l’ipotesi di Panella, si potrebbero aggiungere altri decessi ancora, che si ebbero nel mese d’agosto e di settembre e che potrebbero (tale è il parere di questo studioso, ma non è possibile provarlo con certezza) essere stati dovuti in parte alle conseguenze dell’incendio. Questo ricercatore può quindi concludere osservando che il totale di vittime risulta senz’altro di molto inferiore alle stime che erano state precedentemente proposte, facendo notare che i testi che presentavano questo episodio parlavano in maniera generica d’un numero ritenuto elevato di morti, ma senza fornire un computo preciso ed appunto in modo vago ed approssimativo.
Panella ha anche il merito di provare l’imprecisione con cui sovente si è scritto sui fatti di Pontelandolfo e Casalduni. Ad esempio, egli ricorda che quando si parla dell’incendio di Casalduni si riferisce frequentemente che il vecchio arciprete Giovanni Corbo sarebbe stato ucciso a fucilate dai bersaglieri. Consultando il libro dei morti di questa parrocchia Panella ha invece scoperto che questo anziano sacerdote non morì il giorno dell’incendio, tanto che questo ecclesiastico stesso iniziò a redigere personalmente pochi giorni più tardi, il 18 agosto 1861, un altro registro dei decessi, nel quale menzionava anche la rappresaglia. Don Giovanni Corbo mori nella primavera dell’anno successivo, il 27 marzo 1862, nell’abitazione in cui allora risiedeva e dopo aver ricevuto i sacramenti.
Un altro caso è stato riferito da questo studioso durante un convegno dedicato al tema “Il brigantaggio nell’Alto Tammaro”, svoltosi con presenza di molti studiosi e ricercatori. Panella ha citato due testi, il primo d’un giornalista che in anni recenti ha scritto anche su Pontelandolfo e Casalduni, il secondo tratto dall’archivio parrocchiale. Questo giornalista, Pino Aprile nel suo “Terroni”, ha affermato che una donna di Pontelandolfo, di nome Maria Izzo, per la sua bellezza sarebbe stata appetita dai bersaglieri, cosicché fu legata ad un albero nuda per essere violentata, prima d’essere uccisa con una baionetta nella pancia. L’archivio parrocchiale, redatto da testimoni oculari, riporta invece che Maria Izzo aveva 94 anni (novantaquattro anni) e che morì arsa nell’incendio della propria abitazione.
Appare evidente da questi due semplici esempi come una certa letteratura abbia offerto un quadro inesatto dei fatti di Pontelandolfo e Casalduni, giacché discorda in modo netto da quanto viene riportato e provato dalle fonti archivistiche: un arciprete morto serenamente molti mesi più tardi è stato presentato come ucciso dai bersaglieri durante la rappresaglia; una quasi centenaria di 94 anni perita nell’incendio della propria abitazione è stata spacciata per una donna bellissima violentata ed uccisa con una baionettata dai soldati. 
È possibile ora trarre alcune conclusioni da questa breve sintesi. Gli eventi dell’agosto del 1861 a Pontelandolfo e Casalduni sono stati conosciuti e studiati in pratica dal momento in cui avvennero sino ai giorni nostri: non ci si trova dinanzi ad un fatto storico ignoto, segreto o tenuto celato. La dinamica degli accadimenti è certa: dapprima vi fu un’irruzione di briganti, con saccheggi, incendi ed assassini; poi il massacro d’un reparto di militari caduto prigioniero; infine la rappresaglia dei bersaglieri, con uccisioni ed incendi.
Per ciò che concerne appunto questa rappresaglia, il totale di vittime accertate per Pontelandolfo è di tredici, cifra su cui concordano sia il Pulzella, sia il Panella. È probabile che vi siano stati anche altri decessi in conseguenza dell’azione dei militari, principalmente a causa dell’incendio. Non è però possibile dimostrare ovvero sapere quanti fra i decessi indicati nel registro dei defunti nel mese successivo ai fatti fossero dovuti a cause naturali e quanti al fuoco. In ogni caso, il totale potenziale rimane inferiore al centinaio. I due paesi non furono interamente distrutti dalle fiamme, poiché gli abitanti, in gran parte allontanatisi al momento dell’arrivo dei soldati, una volta ritornati provvidero a spegnere i fuochi. Alcune case certamente bruciarono, ma altre rimasero solo danneggiate. Si continuò a vivere ed ad abitare a Pontelandolfo e Casalduni anche dopo la rappresaglia, tanto che le fonti utilizzate dal Panella segnalano la continuità della presenza abitativa in entrambe le città.
La descrizione che taluni hanno proposto d’una distruzione intera delle due città e dello sterminio degli abitanti è quindi certamente erronea: la rappresaglia è avvenuta, ma con dimensioni di gran lunga inferiori rispetto a quelle ipotizzate senza prove da una certa pubblicistica antirisorgimentale. Il totale delle vittime si può calcolare al massimo nell’ordine delle decine, sicuramente non delle centinaia o migliaia, mentre i danni inferti all’abitato non furono uniformi e non impedirono che molti cittadini continuassero ad abitare in questi due paesi sin da subito. Non si dimentichi poi che i briganti si comportarono esattamente allo stesso modo quando fecero irruzione, uccidendo alcuni cittadini e dando fuoco ad edifici.
È altrettanto sbagliato inoltre tentare d’interpretare questi accadimenti come un contrasto fra un esercito “straniero” ed una popolazione insorta contro di esso. I reparti militari coinvolti appartenevano all’esercito italiano, che comprendeva membri d’ogni parte d’Italia: Cialdini era di Modena, Pier Eleonoro Negri era di Vicenza, Carlo Melegari di Genova, Luigi Augusto Bracci di Livorno ecc. Inoltre i cittadini locali erano divisi fra i fautori del nuovo stato ed i nostalgici del vecchio, tanto che prima i briganti, poi i soldati esercitarono le loro vendette sugli abitanti. 
Ciò che avvenne nel 1861 a Pontelandolfo ed a Casalduni deve pertanto essere considerato un cruento episodio di guerra civile, in cui una popolazione, che era a favore in parte dell’Italia, in parte del sovrano borbonico, si trovò presa in mezzo ai due contendenti armati, subendo alternativamente le violenze d’entrambi. Gli eccidi furono tre, del 7, 11 e 14 agosto, e videro come vittime rispettivamente cittadini fedeli allo stato italiano, i bersaglieri e carabinieri fatti prigionieri, infine i civili caduti nella rappresaglia. Nel totale di morti accertati la netta maggioranza, circa dei 2/3, è costituita dai militari trucidati dopo la resa.
Prof. Marco Vigna, dottore di ricerca in storia


martedì 18 marzo 2014

Repubbliche classiche e Repubblica moderna nel pensiero di Francesco Mario Pagano


Francesco Mario PaganoFrancesco Mario Pagano trovò nell’interesse per il mondo antico una ragione per comprendere la natura umana e quali fossero le motivazioni del suo agire.
Nei suoi Saggi Politici, risuonava non solo l’interrogativo di Socrate riguardo a cosa fosse l’uomo, ma lo sviluppo storico dell’essere umano  in quanto essere sociale nel porsi in relazione alla politica intesa come evoluzione della civiltà.
Lo studio di Mario Pagano tendeva a dimostrare come il mondo classico, dopo aver attraversato  secoli di grande fecondità intellettuale, questa  era stata oscurata dal buio del Medio Evo e dall’affermarsi del feudalesimo.
L’illuminismo del Settecento offriva  dunque  l’opportunità di far emergere i lumi della classicità, in relazione soprattutto all’area mediterranea dell’antico territorio italico.
Era l’influenza di Aristotele che conduceva Mario Pagano  ad opporre una dottrina politica moderata rispetto alle scelte più radicali degli altri patrioti della Repubblica Napoletana.
Erano illuminanti, a tal riguardo, gli esempi in relazione alle forme di governo in cui si intravedeva  più chiaramente l’influenza di Aristotele.
Inoltre l’ideale repubblicano, che si andò progressivamente imponendo nel suo pensiero,  traeva ispirazione anche dalle Repubbliche dell’antichità in cui ritrovava l’enunciazione di alcuni principi repubblicani ben delineati.
Le qualità morali del cittadino che doveva guidare, illuminare ed istruire gli altri riportavano a quell’aristocrazia dello spirito, che rimandava il lettore  agli “ ottimi per virtù” di Aristotele e Platone, a quel concetto di “ politeia” aristotelica e platonica che sostanzialmente faceva riferimento ad un particolare tipo di istituzione politica, la Repubblica, che assumeva per tali filosofi antichi, solo l'interesse per il bene della collettività, per la polis, lo Stato.
L’illuminismo settecentesco di Genovesi e Filangieri costituiva la necessaria integrazione ed evoluzione del concetto di politeia classica nel delineare un nuovo ideale repubblicano di carattere democratico in cui avrebbero trionfato i principi irrinunciabili di libertà ed uguaglianza.
Inoltre, l’antichità classica, per Francesco Mario Pagano, offriva un ideale di purezza dei costumi nella costituzione delle Repubbliche antiche in opposizione alla “ corruzione “ dell’età sua contemporanea. Pagano lo ha evidenziato  nei Saggi Politici in termini diretti:
“L’amore dei più interni piaceri dello spirito, cioè delle cognizioni, della virtù, della libertà, del potere, forma il costume e il carattere che fa nascere per lo più le Repubbliche popolari.”
 Come i filosofi classici, tra cui Platone ed Aristotele in primis, avevano additato l’amore per la conoscenza e per la virtù, si mostrava necessario ritrovare anche in quelle idealità antiche le condizioni per l’esaltazione del governo repubblicano moderno, che aveva già trionfato in America e in Francia con uomini “ animati dalla divina espansione dello spirito, dalle nobili passioni della compassione, dall’amore degli uomini, dalla beneficenza, dal sentimento dell’ordine morale della giustizia”.
Nel momento in cui si accingeva alla redazione del Progetto Costituzionale per la Repubblica Napoletana del 1799, Pagano riteneva che la Repubblica da istituire doveva necessariamente diffondersi nella “classe media” la cui descrizione era stata ben delineata nella “ politeia” di Aristotele, ma che in età moderna avrebbe assunto carattere, oltre che diverso dall’antica polis, quello peculiare dell’età dei Lumi di fine Settecento per una proposta di elevazione sociale e morale di tutti i cittadini virtuosi e votati al bene comune.
 “ Fondare i buoni costumi è il metodo più proprio per estirpare i corrotti” scriveva Pagano nelRapporto che accompagnava il Progetto di Costituzione, aggiungendo che la proposta veniva avanzata “ ad imitazione delle antiche Repubbliche”.
di Angelo Martino

lunedì 17 marzo 2014

Il grande Risorgimento italiano, evento fondamentale dal punto di vista politico, civile, culturale, economico della millenaria storia d'Italia, fondante della sua modernità e del suo rilievo nella storia mondiale tra fine Ottocento e Novecento, riconosciuto ed apprezzato in tutti i paesi del mondo, è figlio sia del Settecento riformatore, sia degli influssi culturali europei, sia delle rivoluzione americana e francese, sia dell'età napoleonica.
Non è affatto un evento solo interno, nè è riconducibile al mito dell'espansionismo sabaudo.
Esso si appoggiò sulla millenaria idea e realtà nazionale italiana, segnalata dalla lingua, dalla religione, dalla tradizione letteraria, artistica, musicale, da tradizioni e costumi sovralocalistici, sulle grandi conquiste dell'età comunale, dell'Umanesimo e del Rinascimento
Il Risorgimento è stata un'affermazione memorabile di indipendenza nazionale contro l'oppressione e la servitù straniere (l'Austria) e la servitù civile e clericale interna, per l'affermazione della dignità di popolo, delle persone, dei cittadini.
Perciò sono divenute naturali la doverosa, impellente, inarrestabile spinta verso l'unità politica e la conquista di un regime di libertà, di diritti individuali e di garanzie costituzionali.
In particolare va sempre, sempre di più, valorizzata l'opera del triennio 1796-1799, dei Martiri e dei sopravvissuti, figli di Giannone, di Beccaria, di Genovesi, di Filangieri e insieme dell'Illuminismo europeo, della filosofia rivoluzionaria, che aveva liberato le Americhe e la Francia, durante il quale i posero le basi granitiche delle vicende successive.
In quel triennio, come osservò il grande storico Salvatorelli, si poserò tutti i problemi del Risorgimento e del Novecento: libertà, democrazia, indipendenza, repubblica, unificazione per via federale o accentrata.
I valori di libertà furono offesi dallo sprofondamento fascista novecentesco, complice la monarchia sabauda, pur benemerita di momenti fondamentali dell'evento risorgimentale.
I valori di patria e di nazione sono stati tenuti in secondo piano dalle forze egemoni dell'età repubblicana, quelle cattoliche e quelle socialcomuniste, storicamente antiliberali e antinazionali, ed hanno creato indubbiamente un clima etico-politico e civile debole, incapace di contrastare decisamente il fenomeno successivo della 'denigrazione'.
In questi ultimi tempi, dalla "emarginazione del Risorgimento"si è passati alla "denigrazione" di esso da parte di forze estranee e nemiche dei valori nazionali, patriottici, liberali, come quelle secessioniste settentrionali e meridionali (dal leghismo al neoborbonismo), da ambienti clericali e nobiliari reazionari e nostalgici di assurde, anacronistiche distinzioni e diseguaglianze.
Grandi storici come Croce, Omodeo, Salvatorelli, Romeo, Scirocco hanno difeso il Risorgimento contro impostazioni nazionalistiche e solo indigene, ora di tratta di difendere il Risorgimento contro più radicali e insidiosi attacchi da parte di quelli che vogliono negarne il significato e il valore nella storia generale d'Italia, d'Europa, del mondo.
Essi hanno introdotto, riprendendo spunti reazionari clericali e romantici, l'immagine deformante ed assurda di un mostro, che avrebbe divorato e distrutto edeniche, pacifiche, felici, anche progressive realtà locali e regionali, mito assurdo che stride da mille lati nei confronti della "effettiva realtà storica".
Questa denigrazione, ci si augura, resterà come segno caratteristico di un periodo di crisi e di sbandamento della società, del popolo italiani, in cui sono stati egemoni gli inetti, i corrotti, i vili, le anime nere, grette, livide e invidiose, piccole, chiuse in nefaste vite locali,  i clericali, i reazionari, i qualunquisti, i guicciardiniani traditori dei doveri anche elementari di sensibilità civile e e storica nei confronti dei destini della società nella quale essi vivevano, godendo poi, da ingrati approfittattori, dei benefici che un patrimonio di sacrifici e di costruzione storici inimmaginabiili, nell'asse risorgimentale-antifascista-resistenziale, intimamente connessi nel profondo, aveva loro garantito.
Ma occorre essere attenti e vigilanti, perchè gli indebolimenti o la disintegrazione degli stati nazionali unitari hanno portato nel cuore stesso dell'Europa a conflitti sanguinosi e ad arretramenti di condizioni di vita.
Questo non toglie che nella complessa, spesso dolorosa e tragica vita storica, l'affermazione e lo sviluppo dello stato unitario nazionale non sono stati vicende semplici e su di esse bisogna sempre tornare, anche riaprendo ferite, per capire e riscoprire più precisamente i termini degli scontri non ricomposti tra le linee politiche ad es. di Cavour, distinte da quelle di Mazzini, di Garibaldi, di Cattaneo. di Pisacane.
Così l'Italia unita, miracolosamente ed epocalmente repubblicana, libera, democratica, con una grande economia mondiale, che è invidiata e insieme ammirata nello scenario spesso tragico del Pianeta, potrà essere mantenuta e rinsaldata e aperta a nuove conquiste di civiltà, nelle quali è stata unica per contributi memorabili.

di Nicola Terracciano.

giovedì 13 marzo 2014

Francesco Saverio Salfi e una necessaria evoluzione rivoluzionaria e repubblicana

Francesco Saverio Salfi (Cosenza 1759 - Parigi 1832), sacerdote, nel 1787 si stabilì a Napoli dove insegnò discipline letterarie ed ebbe contatti con gli intellettuali illuministi Gaetano Filangieri, Antonio Genovesi, Mario Pagano, Antonio Jerocades, allontanandosi progressivamente dalla Chiesa.
Il suo arrivo a Napoli fu dovuto all’intolleranza del vescovo di Cosenza Gennaro Clemente Falcone che discreditò Salfi al punto di metterlo in condizione di lasciare la Calabria e trasferirsi a Napoli nel 1785.
Nella capitale del Regno Salfi continuò la sua battaglia in difesa della tolleranza ed è nota la sua posizione del 1788 allorché , in occasione del rifiuto al pagamento della Chinea al Papa  da parte del governo di Ferdinando IV di Napoli, scrisse una satira contro lo Stato Pontificio e in favore della politica napoletana.
La svolta in senso illuministico radicale di Salfi era iniziata quando  aveva pubblicato l’anno precedente il suo Saggio di fenomeni antropologici in cui denunciava la degenerazione della fede in superstizione e magia, proponendosi di “sottrarre le povere masse ignare alla nefasta influenza della vecchia scuola gesuitica, che le strumentalizzava a suo piacere nelle manifestazioni “ miracolistiche”.
Nel 1792 entrò nella Società patriottica napoletana. Per evitare il processo, nel 1794 riuscì a fuggire da Napoli e riparare dapprima a Genova, dove abbandonò l'abito ecclesiastico, e poi a Milano.
Ritornò a Napoli assieme al generale Championnet nel gennaio del 1799 e assunse l'incarico di segretario del governo provvisorio della Repubblica napoletana. Nel febbraio 1799, dopo la sostituzione di Carlo Lauberg con Ignazio Ciaia alla guida della Repubblica napoletana, andò in Francia.
Di princìpi massonici, fu consigliere di Gioacchino Murat. Nel 1815 con la Restaurazione che riportò i Borbone sul trono di Napoli, si ritirò definitivamente in Francia.
Francesco Salfi fu autore dell’opuscolo  L’Italie au dix-neuvième siècle, pubblicato nel 1821 nel quale analizzò le motivazioni che avevano spinto un gruppo di patrioti meridionali, partiti da posizioni riformiste, a passare ad inevitabili progetti, idee e valori propriamente rivoluzionari.
Lo scritto di Francesco Salfi rileva come la Rivoluzione francese avesse trovato terreno fertile nel Regno di Napoli dal momento che  vi era già ben presente e vivo un humus di idee rivoluzionarie elaborate dai discepoli di Genovesi e Filangieri.
Ma ancora prima che alla Rivoluzione Francese, essi avevano guardato alla rivoluzione Americana.
I patrioti della futura Repubblica Napoletana erano già pronti ad accogliere gli ideali rivoluzionari. Inoltre per tanti religiosi, come lo era stato anche Francesco Salfi, lo stesso messaggio evangelico aveva assunto una possibilità di riscatto per un’umanità oppressa la cui fede era indirizzata verso la paura e la superstizione.
L’appartenenza alla massoneria, inoltre, aveva svolto  un ruolo importante se non centrale nella progressione ideologica dei patrioti dal periodo riformatore a quello rivoluzionario.
Insieme a Carlo Lauberg e Antonio Jerocades, Francesco Salfi  appartenne a quegli spiriti forti che imposero le loro dottrine illuminate contro le posizioni retrograde degli ecclesiastici che difendevano l’alleanza Trono-Altare. In tale lotta contro il fanatismo e la superstizione religiosa Salfi trovò nella fratellanza massonica la maniera di propagandare gli ideali rivoluzionari e repubblicani prima in Calabria e poi a Napoli, con un’appassionata difesa dei principi illuministici e della tolleranza religiosa.
Francesco Saverio Salvi fu un autore prolifico e anche la sua vasta produzione prettamente letteraria mostra un intellettuale instancabilmente impegnato nella battaglia per la conquista di irrinunciabili diritti civili e politici e per la creazione di una società libera e democratica.
di Angelo MArtino

lunedì 10 marzo 2014

Francesco Capecelatro, il patriota antiborbonico


Stemma dei CapecelatroFrancesco Capecelatro, duca di Castelpagano, nacque nel 1784 da Michele e Marianna Momile e partecipò giovanissimo alla Repubblica Napoletana del 1799. Fu ufficiale nel periodo napoleonico-murattiano (1806-1815).
La sua opposizione antiborbonica continuò anche nell'età della Restaurazione, aderendo alla Carboneria e partecipando al moto del 1820, per cui fu costretto all'esilio prima a Malta e poi a Marsiglia, ove rimase fino al 1826, quando tornò in Italia a Roma e poi ad Ancona.
Solo nel 1831 potè tornare a Napoli, ma senza esercitare piu cariche militari o di altro tipo. E si ritirò a S.Paolo Belsito presso Nola, ma la sua casa fu aperta a personalità come Bellini e Donizetti e a spiriti liberali. Seguì con grande partecipazione le vicende e le speranze del 1848 e fino al 1860. Morì nel 1863.
Nel seno di questa nobile famiglia napoletana liberale antiborbonica,  nacque, quando era esule a Marsiglia, Alfonso, il 15 febbraio 1824.
La madre si chiamava Maddalena Sartorelli, di elevata e patriottica famiglia, che aveva avuto lo zio Antonio martire repubblicano del 1799 scannato al Ponte della Maddalena e seppe allevare i suoi nove figli "con molto amore, ma con poche carezze".
Studiò a Napoli all'oratorio di S. Filippo Neri, importante centro di studi non solo religiosi, ma culturali, tanto che esso aprì la prima biblioteca pubblica a Napoli.
Nel rapporto con personalità della tradizione neoguelfa, sia storiografica che politica, come l'abate Tosti e C.Troya, egli, nel solco dei sentimenti paterni e familiari, assunse un fondamentale orientamento cattolico-liberale, che lo portò ad avere poi sintonia e collegamenti con personalità come Gioberti, Manzoni, Tommaseo.
Ebbe contatti anche con la scuola del Puoti, di educazione linguistica, civile, patriottica, che incise sulla sua formazione e segnala la sua apertura.
Nel 1847 fu ordinato sacerdote ed avviò una intensa attività di ricerca storica specialmente presso l'Abbazia di Montecassino, legandosi a monaci di grande sensibilità culturale e civile, come il de Vera e il citato Tosti.
Mise in luce nelle sue ricerche, nelle sue opere la funzione nazionale che avevano avuto il cattolicesimo e il papato nel Medioevo, per cui l'Italia non poteva pensarsi senza il cattolicesimo, nè i cattolici potevano sentire l'Italia ad essi estranea, anzi proprio fondamentale mondo storico, da onorare e  rafforzare.
Per questa sua equilibrata e profonda posizione cattolico-nazionale e liberale, ebbe rapporti e stima anche all'estero, in Inghilterra col cardinale Newman e lo stesso primo ministro Gladstone, in Francia con Montlambert.
Era vicino naturalmente alle posizioni di conciliazione tra il nascente stato nazionale italiano liberale e costituzionale e la chiesa cattolica, ed ebbe un decisivo ruolo di equilibrio nel 1860 nello scontro tra chiesa napoletana guidata dall'intransigente e conservatore cardinale Riario Sforza e le nuove autorità italiane.
Fu l'animatore tra il 1865 e il 1886 col Cenni e padre Ludovico da Casoria del periodico napoletano"La Carità", nella quale costantemente auspicava l'abbandono di posizioni intransigenti verso il nuovo stato nazionale e liberale e l'inserimento dei cattolici nella vita politica, in modo da portare in Parlamento uomini seri e di autentica fede cattolica, capaci di dare un contributo specifico costruttivo ed evitare derive anticlericali.
Era lontano da posizioni comunque in contrasto col papato, coltivava "il sogno dorato di una Italia unita insieme civilmente, con un vincolo, però, che doveva avere le sue radici nella fede cattolica e nell'amore del papato."
Nel 1877 alla morte di Riario Sforza si pensò a lui come successore a Napoli, ma ebbe l'ostilità degli ambienti intransigenti, clericali.
Ma egli godeva di grande considerazione presso gli ambienti più avveduti della Santa Sede e così fu nominato da papa Leone XIII per i suoi meriti storico-letterari vicebibliotecario vaticano nel 1879 e arcivescovo di Capua nel 1880.
Nel 1885 fu nominato cardinale e nel 1893 bibliotecario di S. Romana Chiesa e prefetto della Biblioteca Vaticana.
Fu arcivescovo di Capua per 32 anni, lasciando un'orma straordinaria, indimenticabile dal punto di vista pastorale e anche culturale.
Nel 1881 aprì ad esempio al pubblico la biblioteca arcivescovile di Capua e quella del seminario; diede vita nel 1882 ad un periodico divenuto riferimento non solo religioso, ma civile" La Campania Sacra".
Di lui si parlò seriamente di una candidatura al soglio pontificio nel conclave del 1903, con simpatie di cardinali anche stranieri e gradimenti politici italiani ed europei.
Dell'amore per la Patria e dell'obbligo religioso e morale tal senso dei cattolici italiani in particolare, argomentò nel 1900 nello scritto uscito a Milano dal titolo "L'amore di patria e i cattolici particolarmente in Italia",
Morì a Capua il 14 novembre 1912 e, per sua disposizione testamentaria, volle essere sepolto a Montecassino.
Una nipote del cardinale arcivescovo fu Enrichetta Capecelatro, figlia del fratello Antonio, patriota del 1848, antiborbonico fino al 1860, e di Calliope Ferrigni, nata a Torino nel 1863, dove il padre lavorava nelle Poste dopo l'Unità. Fu poetessa apprezzata da Croce e traduttrice dei grandi scrittori russi come Tolstoi e Dostoevskij, Gogol, Puskin.
Nella villa alle falde del Vesuvio del nonno materno, Ferrigni, magistrato, letterato, poi senatore, che sveva sposato la sorella di Antonio Ranieri, Enrichetta, fu ospitato Leopardi durante il soggiorno napoletano e la nipote Enrichetta ne scrisse in "Storia di una casa di campagna" del 1934.
Fu accademica Pontaniana a 29 anni e scrisse una storia della sua famiglia patriottica nel ramo paterno e materno "Una famiglia napoletana dell'Ottocento".
Sen. Riccardo Carafa d'Andria Conte di RuvoSposò nel 1885 a Napoli Riccardo Carafa, conte di Ruvo, anche lui letterato e senatore del Regno d'Italia, della famiglia del grande Martire  del 1799 Ettore Carafa per la parte paterna e del Martire Gennaro Serra di Cassano per la parte materna.
Enrichetta era orgogliosa di essere entrata in una famiglia così patriottica, che aveva dato contributi memorabili nelle componenti maschili e femminili al Risorgimento meridionale e italiano.
Riccardo Carafa fu uno dei fondatori nel 1892 con Croce, Di Giacomo, Schipa, Ceci, della rivista"Napoli Nobilissima". Fu deputato e senatore e morì nel 1920.
Enrichetta è morta a Napoli nel 1941.