domenica 23 novembre 2014

1799. Lo zar al Borbone: "Non puoi uccidere il fiore della cultura napoletana" Stampa


Paolo I di RussiaGerardo Marotta, Presidente dell' Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, nella prefazione al saggio di Camillo Albanese "Cronache di una rivoluzione. Napoli 1799", ha sottolineato che con il massacro di Piazza Mercato "furono spenti nel sangue filosofi, scienziati, statisti, tutta la più illustre nobiltà napoletana e l'alto clero che si erano schierati per la filosofia, per la libertà e per un vero Stato fondato sulla ragione e sulla giustizia”.L'Italia e l'Europa avevano assistito alla distruzione di tutto un governo legale, legittimo perché fondato dai patrioti dopo la fuga del re in Sicilia e riconosciuto a tutti gli effetti dal trattato di armistizio firmato dal governo della Repubblica napoletana, dal viceammiraglio della flotta inglese, dal comandante delle truppe turche, dal comandante delle truppe russe e dallo stesso cardinale Ruffo, plenipotenziario del re e comandante supremo dell'armata della Santa Fede.
Giustino Fortunato, nel raccogliere le memorie dei martiri della Repubblica, così iniziava nel 1882 il suo scritto I Napoletani del 1799:
 " [...] i Borboni mandarono al patibolo i più dotti e generosi uomini, che avevano preso parte per la Repubblica, e il mondo sa i nomi di questi uomini ... ".
Luigi Settembrini, parlando dei giustiziati di Napoli del 1799: 
"Consacrati dalla gratitudine e dalla riverenza de' posteri, richiamati a vita nuova dall'arte, oggi quei nomi, divenuti sacro patrimonio della nazione redenta, hanno l'aureola della gloria e il culto della memoria. È storia e già pare epopea. Il martirio di quegli uomini è agli occhi nostri come una leggenda, come un vivo sprazzo di luce, che redime tutto un passato d'obbrobrio, e che è primo inizio delle rivoluzioni del secolo; ed oggi ancora, monumento d'eroismo, i nomi di quegli uomini danno fede e sentimento alle giovani generazioni, che hanno la fortuna, dopo tante aspettative, di vedere attuata e benedetta l'unità della patria. Né altro, in tutto il martirologio italiano, è paragonabile a questo primo e generoso tributo di sangue, offerto dai Napoletani del 1799".
Tuttavia ciò che desta davvero massima riprovazione e senso di sgomento sono le parole dello stesso zar Paolo I, che come ricorda il filosofo napoletano, scrisse al cugino Ferdinando di Borbone: - "Cugino Ferdinando, ti ho inviato i miei battaglioni per aiutarti a riconquistare il regno perduto, ma tu non puoi mandare a morte il fiore della cultura napoletana".
Lo zar, scrivendo al Borbone, sapeva benissimo che si trattava di patrioti i quali, quando i francesi erano partiti, lasciandoli soli, avevano esultato in quanto volevano compiutamente dimostrare che la loro causa per la libertà, l’uguaglianza non aveva bisogno di protettori, a differenza dei Borbone per la cui riconquista del trono si erano attivate le armate sanfediste, turche, inglesi, russe e svizzere, ossia tutta la forza prepotente di un antico regime di assolutismo, di privilegi e di oppressione di uomini sugli altri uomini.

Lo zar Paolo I, figlio della grande Caterina, aveva ricordato al cugino Ferdinando in maniera diretta la verità di quanto successo: grazie ai suoi battaglioni e a quelli delle altre Nazioni monarchico-assolutiste dell’Antico Regime aveva riottenuto il regno, ma non poteva uccidere il fior fiore della cultura napoletana.
D'altronde lo stesso zar era ben a conoscenza del trattato internazionale di resa firmato dai patrioti repubblicani, ai quali si avrebbe dovuto, all'uscita dai forti, rendere gli onori militari, come dalla III clausola del trattato internazionale che recitava: “ Le guarnigioni usciranno cogli onori di guerra, armi , bagagli, tamburo battente, bandiere spiegate, miccia accesa, e ciascuna con due pezzi di artiglieria; esse deporranno le armi sul lido”.
Per lo zar Paolo I era stato Baillie a porre la firma all'accordo, come avevano fatto Ruffo e Micheroux per il Borbone, Bonieu per la Turchia, Foote per l’Inghilterra, Méjèan per i Francesi, e Massa per la Repubblica Napoletana.
Scrivendo : "Cugino Ferdinando, ti ho inviato i miei battaglioni per aiutarti a riconquistare il regno perduto, ma tu non puoi mandare a morte il fiore della cultura napoletana", lo zar di Russia voleva anche ricordare ad un monarca borbone che non si poteva disattendere un trattato internazionale, oltre a rimarcare che alla Repubblica del 1799 avevano aderito i maggiori intellettuali del Sud.

giovedì 23 ottobre 2014

Avigliano 1799. Un’intera comunità infervorata dalla democrazia repubblicana


AviglianoIl delegato borbonico Gaetano Lanzara, nel commentare senza nascondere un certo sdegno i momenti gioiosi che animarono i giorni della Repubblica ad Avigliano in Basilicata, nel 1799, tra l'indignato e l'incredulo scrisse: "Santo Iddio! Anche i ragazzi di Avigliano si avevano imparato e andavano pubblicamente cantando gli obbrobri alla Monarchia e alle sacre persone dei sovrani".
Ciò sta ad indicare che all'esperienza repubblicana di Avigliano del 1799 partecipò un’intera comunità infervorata degli ideali della democrazia repubblicana. La cronaca degli avvenimenti  dimostra quanto l’illuminato ceto intellettuale riuscì allora  a coinvolgere artigiani, contadini, braccianti. Tanti erano i giovani che frequentavano l’Università di Napoli e tanti avevano interiorizzato la grande conquista del pensiero moderno, partecipando in prima persona ai diversi tentativi di rinnovamento dei costumi e delle idee.
I rapporti fra Avigliano e Napoli, alla fine del 1700, erano molto intensi ed estesi.
Il clima illuministico e giusnaturalistico della città era vissuto dai giovani studenti aviglianesi appieno. Tra di essi vi erano Girolamo Gagliardi, Girolamo e Michelangelo Vaccaro, che fecero parte della municipalità repubblicana aviglianese.
Al fine di rimarcare la consistenza della partecipazione degli aviglianesi al grande dibattito di idee rivoluzionarie, mirate all’affermazione degli ideali di libertà, uguaglianza e democrazia repubblicani, bisogna ricordare che ben 248 repubblicani aviglianesi furono considerati dalla controrivoluzione borbonica “rei di stati”.
Di essi facevano parte non solo il ceto intellettuale e i giovani universitari, ma anche artigiani, braccianti e contadini, i quali, parteciparono alle manifestazioni di piazza, guidate da Girolamo Gagliardi e Girolamo Vaccaro già il 19 gennaio 1799, quando le truppe francesi non erano ancora entrate in Napoli.
Pochi giorni dopo, il 23 gennaio il prete aviglianese Nicola Palomba, che sarà uno dei martiri della Repubblica, era a Napoli con i patrioti repubblicani, investito del grado di commissario democratizzatore del dipartimento di Bradano dal Governo Provvisorio della Repubblica Napoletana.
Ad Avigliano l’Albero della Libertà fu eretto il 5 febbraio, prima della stessa Napoli. La municipalità repubblicana aviglianese fu costituita da Girolamo Vaccaro, Girolamo Gagliardi, Giustiniano Gagliardi, Nicola Francesco Maria Corbo, Francesco Corbo, Padre Tommaso Gagliardi, Diodato Sponsa, Canio Stolfi, Giustiniano Palomba, Nicola Cubelli, Gaetano Mancusi e Maria Nicola Samela.
La Repubblica ad Avigliano durò quattro mesi. Il 12 maggio il brigante Sciarpa entrò in paese per abbattere l’Albero della Libertà, mentre invano gli aviglianesi attendevano gli aiuti dei francesi, che ormai avevano lasciato al loro destino le sorti della Repubblica.
Avigliano si conquistò la gloria di essere stata la parte avanzata del movimento rivoluzionario repubblicano in terra di Lucania a tal punto che il borbonico Lanzara, sconcertato ed incredulo, di fronte alle profonde convinzioni repubblicane del popolo aviglianese, scrisse:
“Si rifletti un poco all’ostinazione del popolo aviglianese. Vide realizzato Picerno, uccisi i fratelli Girolamo e Michelangelo Vaccaro con altri del partito, sente la notizia dei paesani spediti in Altamura di essere stata presa quella città dalle truppe del Vicario del Regno, e ciò non ostante si continuano a costruire cartocci di polvere e palle a dispensare da Giustiniano Gagliardi, Nicola Maria e Francesco Corbo generalmente a tutti li paesani, per poter vincere o morire sotto il vessillo rivoluzionario”.
Gaetano Lanzara, delegato ad indagare sui rei di Stato di Avigliano, non poté fare a meno di confessare che l’indagine” non poteva non riuscire difficoltosa, sì perché, essendo tutti di indole rivoluzionaria, non li faceva animo a quei che han deposto di mordere la sua specie”.
Ancora agli inizi dell’Ottocento, vi furono segnali che riconfermavano  la presenza ad Avigliano di un’anima repubblicana che non intendeva arrendersi alla reazione borbonica, dalle “ strane” lettere piene di fiducia nel futuro che i repubblicani aviglianesi rinchiusi nelle carceri di Napoli, di Potenza e di Matera, facevano pervenire ai loro congiunti ed amici.

martedì 7 ottobre 2014

Montefusco, il lager dei Borbone

«Le sue prigioni sono cadenti e squallide.» – scrisse Angelo Ruggi(er)o, nell'anno 1738 e così riporta una lapide sita in Via Seggio.


“Quello era l'elevato ed alpestre patibolo dei Normanni, già definito Spielberg–Borbonico dell'Irpinia. Al romito luogo, soventemente si giungeva in ginocchio e in catene, oppure strisciando e con le carni lacerate e sanguinanti; tutto questo avveniva, perché si era legati ai possenti cavalli dei gendarmi del Re. E persino quei muscolosi destrieri, nonostante fossero abituati a tale travaglio, assai spesso erano provati per le fatiche dovute a quelle impervie mulattiere che, per tutta l'epoca dell'ancien régime, mai videro rotolar su di esse il legno tondo e raggiato d'una qualsiasi “ruota”.

Le strade per Montefusco (AV) in realtà non c'erano, e quei pochi sentieri che fin sopra vi giungevano, erano così stretti che, i cavalli dovevano viaggiare in fila indiana. Erano mulattiere, adatte più ai buoi e alle capre che a questi agili destrieri campestri”.  
Così dunque, in un passato mai tropo lontano, si vedevano queste torbide scene di carne, sangue, sudore e dolore. E allora, strette file di guardiani, cavalli di grossa stazza e, poveri uomini striscianti e tenuti in catene, rumoreggiavano zigzagando con affanni, nitriti, colpi di frusta e imprecazioni.
Questi erano i suoni che contraddistinsero l'epoca Borbonica a Montefusco; tali suoni riecheggiavano e creavano sgomento in tutta la valle felice.
Oggi quella valle si chiama, Santa Paolina.
“Soventemente i cavalli scuotendo la testa, manifestavano l'intento di fermare quella marcia tortuosa che, gli procurava sudori e affanni; e allora il gendarme borbonico senza provare pietà, né per gli uomini e nemmeno per le bestie di cui si serviva, con possenti colpi vibrati, sferrati con la normale crudeltà di cui vivevano nel loro quotidiano, costringevano anche i cavalli doppiamente sofferenti, (sia per le fatiche e, sia per l'esser indotti) di salire, lungo tali ripidi strapiombi che circondavano il fosco Monte della Forca Borbonica.
[Dalle scritture dell'Abate Pasquale Ciampi, poi riprese da Palmerino Savoia nel XX° secolo]

Le prigioni Borboniche erano un “carnaio"

[...]. Le carceri del Napoletano erano e sono da considerare come la più nefanda creazione della ingiustizia e della malvagità umana, la negazione d’ogni bene, l’affermazione d’ogni male, bolge d’espiazioni crudeli, affatto prive dello scopo di migliorare i traviati, che anzi servivano viemmaggiormente a pervertirli; fosse a serragli di belve e di efferati tormenti, tali che fantasia di romanziere non giunge a inventar più nefandi, cloache di sozzura e di tristizie, scuole di vizi, d’immoralità, di viltà e prepotenza ad un tempo, dove l’umana carne si gettava ad imbrutire e a marcire, e non per altro che per imbrutire e marcire. Noi stessi, i  politici, secondo che la reazione per le sue continue vittorie addiveniva più audace e più avida di vendetta, noi stessi, ripeto, di quella brutta creazione dovemmo assaporare l’immanità sino alla feccia. [...]. «Le carceri del Napoletano non erano, né dovevano esser altro che il “carnaio” dove si perde anima, sentimento, ossa e vita» [Sigismondo Castromediano,  Carceri e galere  politiche , Lecce, 1895 Tomo I°, pagg. 39, 45]

Tuttavia dei lager del Borbone si parla veramente poco o nulla. Così tuttora, nessuno ci parla mai delle memorie degli altri compagni di cella del Castromediano, e per fare qualche esempio, tace ancora nel buio la monografia intitolata:  Raffinamento della tirannide borbonica ossia I carcerati in Montefusco. [Reggio Calabria, Tipografia Adamo D’Andrea, edizione del 1863]

Montefusco negli anni 50 del XX° secolo

L'autore, il calabrese Nicola Palermo, si sofferma parecchio sulla crudeltà borbonica esercitata in particolar modo in Irpinia e proprio in quella Montefusco. La stessa che, è stata recentemente descritta nei libri di P. Antonio Salvatore e da Eduardo Spagnuolo come un’isola felice, beata e tranquilla,  devota alla Madonna del Carmelo e fedele alla corona del Borbone. Così si sentono, persino i sospiri nostalgici di certi autori, affiancati dalle chiacchiere fuori luogo del romanzetto “filo-borbonico” di tale dottor Gerardo Figliolino intitolato: Da qua a Dio[ediz. Albatros 2012]
“Ma il regno del Borbone fu proprio la negazione di Dio!”
E queste durissime parole le troviamo in una lettera di nota memoria storica, scritta dal liberale  William Gladstone, che, fu spedita al ministro degli esteri Britannico Lord Aberdeen; quella frase era una sintesi lampante ed efficace, che descriveva l'esito della sua ispezione nelle Regie Galere Napoletane.
I fatti risalgono al 1851, in quella missiva si ravvisavano ogni sorta di violazione, e la mancanza d'ogni diritto, nonché le disumane condizioni in cui erano tenuti i prigionieri del regime Borbonico del SCarcere borbonicoud Italia.  
E così, mentre tacciono nel silenzio le carte di Nicola Palermo, vediamo alcuni «scellerati negazionisti, neo-restauratori del passato e sanguinario regime» riempire di vuoto orgoglio terrone gli ignavi lettori delle loro opere, e poi si vedono  produrre, recenti mistificazioni che non si curano affatto della serietà richiesta dall'argomento trattato. Anche perché, queste torture, venivano inflitte assai spesso, proprio agli stessi sudditi Montefuscani, unitamente agli altri dissidenti di altri luoghi che venivano lì forzosamente condotti.
La Regia Udienza fu spostata definitivamente ad Avellino nell'anno 1806, e pure il Borbone che tornò al potere dopo il Congresso di Vienna del 1815, non riportò la centralità giuridica a Montefusco, e così il carcere divenne “mandamentale” ovverosia fatto per trattenere soggetti locali e rei di piccoli reati. E questa linea fu mantenuta dal regime sabaudo, fino alle soglie del Fascismo, durante tale periodo il carcere e il Tribunale lasciarono definitivamente Montefusco, e nel 1928, quel luogo di tortura non risorgimentale, bensì pre-risorgimentale ed “esclusivamente Borbonico” divenne Monumento Nazionale, e poi sede dell'Amministrazione Comunale, che nel massimo della stranezza, preferisce tuttora dirigere il paese da dietro le sbarre del Carcere Borbonico di Montefusco.
La Chiesa di S.Maria di Mezzo Mondo


Una storia di spiriti e di fantasmi aleggia come leggenda, intorno alla costruzione della Chiesa di S. Maria di Mezzo Mondo  nel territorio di Montemiletto. La stessa è tratta dal libro Montefusco dell'Abate Palmerino Savoia. [ediz. di settembre 1972; pagg. 155, 156]
In questo luogo venivano seppelliti i condannati a morte dal R. Tribunale di Montefusco.
Un misterioso avvenimento aveva indotto l'arcivescovo di Benevento  G. Battista Foppa a dare alla chiesa quella pietosa destinazione.
Prima i cadaveri degli impiccati magari dopo essere stati squartati e affissi nei trivi delle pubbliche strade, venivano gettati in una fossa comune, detta la carnaia, scavata sulla Serra vicino alle forche.
Intorno all'anno 1665 l'arcivescovo Foppa si recava un giorno da Montemiletto al convento di S. Egidio. Arrivato sulla Serra gli si fecero incontro due signori vestiti alla sgargiante foggia spagnuola, seguiti da molti altri più dimessamente vestiti, dalla apparenza di servi. I due senza qualificarsi, fecero un profondo inchino al Presule e quindi lo pregarono di interporre la sua autorità presso i Magistrati secolari affinché permettessero che i resti degli impiccati avessero cristiana sepoltura nella vicina chiesetta della Pietà (o S. Maria in Piano o di Mezzo Mondo) e non si trascurassero le opere della cristiana pietà verso quelle povere anime.
Fatta la supplica e ripetuto l'inchino si allontanarono. Nonostante le più accurate ricerche eseguite in tutta la zona non fu possibile  per l’arcivescovo scoprire chi erano quei due signori e donde erano venuti. Si pensò allora che fossero Anime del Purgatorio apparse sotto forma umana per sollecitare, con la cristiana sepoltura, preghiere e suffragi per le anime dei condannati a morte.
Il fatto, (con la persuasione che si trattasse di Anime del Purgatorio) produsse in tutti una impressione enorme. Anche i Magistrati preposti alla Giustizia umana si convinsero che era poco cristiano il loro modo di comportarsi verso i poveri resti
degli impiccati. Fu allora che la chiesetta con le spontanee offerte delle popolazioni venne adattata alla pietosa destinazione.
Il Card. Orsini ebbe cure particolari per la chiesa di S. Maria di Mezzo Mondo. Rovinata nel terremoto del 1688 la fece riedificare e ampliare e il 20 luglio 1723 la consacrò in onore della Beata Vergine e del Beato (ora santo) Alberto Magno, concedendo 100 giorni d'indulgenza a coloro che avrebbero pregato per i condannati ivi sepolti e 100 giorni a quelli che avrebbero partecipato alle esequie quando i corpi degli impiccati venivano portati alla sepoltura nella chiesa.
L'ergastolo montefuscano divenne presto tristemente famoso e fu addirittura soprannominato lo Spielberg dell'Irpinia,  perché rappresentò per i patrioti del Regno di Napoli quello che fu la prigione austriaca, immortalata da Silvio Pellico, a simbolo del tributo di sofferenze che gli Italiani dovettero pagare alla storia per avere una patria unita.

Il presente articolo non è bastevole a dare testimonianza, con esaustiva completezza di particolari, in merito a quello che realmente fu per il Sud Italia, il malgoverno borbonico. Né si può rappresentare in così poche pagine, il significato dell'oppressione esercitata dalla monarchia sulle classi popolari, con tasse gabelle e balzelli vari.

All'epoca esistevano “i privilegi” e i privilegiati; mentre oggi siamo titolari di diritti già dalla nascita. Una volta c'era il popolo dei supplicanti,  oggi il popolo manifesta liberamente la sua opinione, e il suo pensiero verbalmente e per iscritto. E chiaramente oggi nessuno si sognerebbe di denunciare l'autore del presente articolo per “Læsa Majestate”, perché la libertà di critica è  sancita nella costituzione, perché rappresentare la propria opinione non è reato. E la libertà, è sacra e inviolabile, così come sta scritto nell'articolo n. 13 della Costituzione della Repubblica Italiana.
E poi, se il lettore, è contrario alla pena di morte, e sensibile al tema dei DIRITTI UMANI, non può essere “negazionista” di un olocausto meridionale che vide proprio il Borbone quale maggiore colpevole e maggior responsabile. Se poi pensiamo che, tale ecatombe si svolse in un paese come Montefusco (tra il 1799 ed il 1855), oggi così tranquillo e riservato; allora il lettore rifletta su quale aberrante sistema di governo sia stato il Borbone, proprio per noi, proprio per il Buon Popolo del Meridione d'Italia.
E per concludere,  le persecuzioni o le atroci torture perpetrate quotidianamente, durante tale lungo periodo buio della nostra storia nazionale, sono un marchio indelebile di cui s'è macchiata la dinastia Borbonica, e per quest'ecatombe d'Italiani, grandi e piccoli, donne e uomini torturati, trucidati per ordine Regio; il Borbone non ha ancora chiesto perdono, né a Dio, né al Popolo Sovrano dell'Italia risorta.
E se qualcuno dopo aver letto, ancora auspica il suo ritorno, e di spaccare l'Italia, allora concludo con le parole di San Paolo, L'Apostolo de' Gentili:
“Ma poiché essi gli si opponevano e bestemmiavano, scuotendosi le vesti, disse: «Il vostro sangue ricada sul vostro capo: io sono innocente; da ora in poi io andrò dai pagani». [Atti degli Apostoli. 18,6]

lunedì 22 settembre 2014

L'usurpazione del Demanio di Calvi da parte della Real Casa Borbonica


Casino Reale di CalviDel Demanio di Calvi, situato nei comuni di Calvi e di Sparanise e con un'estensione di 1200 moggia circa, si hanno informazioni precise ad iniziare dal 1425 allorché un contrasto sui confini occorse tra la cittadina di Calvi e quella di Capua.
Secondo lo storico settecentesco Francesco Granata fu la regina Giovanna II a stabilire  i confini con un "privilegio" datato 17 settembre 1425.
Nella Storia Civile della fedelissima città di Capua, pubblicata nel 1756, il Granata ha ripercorso tutto ciò che Calvi dovette subire dai governanti che favorirono la città di Capua, ad iniziare dalla regina Giovanna II, da suo figlio Alfonso e successivamente dallo stesso Ferdinando d'Aragona.
La regina Giovanna - scrisse il Granata - appagatasi della gran fedeltà dei Capuani, corrispose con infiniti privilegi e grazie, tra le quali il 17 settembre 1425 concesse un privilegio dichiarando che il tenimento di Capua si estenda fino al Rivo corrente di Calvi, i quali territori sono divisi per certe colonne postesi per termine.
La Real Casa Borbonica successe nell'affitto del Demanio di Calvi al barone Luigi Zona nel 1772. Il contratto durò fino al 18 ottobre 1779, protraendosi per ulteriori dieci anni.
Sia Carlo di Borbone che  il figlio Ferdinando IV intrapresero una graduale opera d’usurpazione del Demanio di Calvi, tanto che Ferdinando IV  arrivò a costituire un maggiorato per i suoi due figli.
Con Decreto Regio del 12 gennaio 1832, il Demanio caleno fu poi affidato in una  parte al settimogenito figlio di Ferdinando IV, Gaetano Maria Federico, conte di Girgenti, e per l'altra al Conte di Castrogiovanni.
I comuni di Calvi e di Sparanise furono dunque spogliati del loro Demanio con due atti che costituirono inaccettabili soprusi.
Con il  primo atto, datato 1791, Ferdinando IV , nonostante il voto contrario delle due Università, da affittatore aveva preteso di diventare “enfiteuta” (l’enfiteusi è un diritto reale su un fondo altrui che attribuisce al titolare “enfiteuta” gli stessi diritti che avrebbe il proprietario,“concedente” sui frutti, sul tesoro e sulle utilizzazioni del sottosuolo). Il  secondo atto, datato 1832, rappresentò una vera e propria  appropriazione indebita  nel momento in cui Ferdinando II, pur sapendo che i demani comunali erano da considerare inalienabili, costituì un maggiorato per i suoi figli.
Il Demanio di Calvi divenne prevalentemente un sito di caccia, destinato al solo divertimento dei Borbone, che vi costruirono un Casino Reale con il pianterreno destinato ai contadini, mentre il primo piano era riservato all'abitazione del Re e dei cortigiani. 
Nel testo  Per Calvi e Sparanise contro Demanio e Casa Reale, pubblicato nel 1888 da
Francesco Saverio Correra e Domenico Di Roberto, si ripercorre tutta la storia dei tentativi dei due comuni di contrastare gli atti di sopruso da parte della Real Casa Borbonica. In relazione al contratto del 1791, gli avvocati Correra e De Roberto evidenziano che “ il re, quando contratta, è un privato e non un sovrano, è soggetto di conseguenza a tutti i vincoli e alle norme di legge".
Dopo la caduta del regno borbonico, i due comuni di Calvi e Sparanise reclamarono il possesso del Demanio con ricorsi che diedero inizio ad un lungo contenzioso che terminò con il “componimento bonario” del 1888 tra i due comuni e la Real Casa Savoia sulla base delle deliberazioni di transizione bonaria del comune di Calvi in data 26-5- 1892 e del comune di Sparanise del 12-12-1892.
Angelo Martino per il NUOVO MONITORE NAPOLETANO 

Bibliografia

Paolo Mesolella- Il Demanio di Calvi- Spring Edizioni- 2008

La verità sul brigantaggio. I crimini dei briganti




Cannibalismo brigantesco nel califfato delle due Sicilie e nel brigantaggio post unitario



Oltre gli orribili, noti fenomeni cannibaleschi della plebe napoletana filoborbonica, filosanfedista e rapinatrice contro i sacri corpi dei repubblicani liberaldemocratici del 1799, sono da richiamare i poco noti fenomeni di cannibalismo briganteschi postunitari, che rivelano il volto atroce disumano dei nuovi filoborbonici foraggiati da Roma clericale pontificia, in particolare nel periodo 1861-1864, luogo di rifugio e di regìa dei salvi Francesco II e la tedesca sua consorte Maria Sofia, dopo aver inutilmente esposto la città di Gaeta a bombardamenti, che potevano e dovevano essere evitati, che tentarono, questa volta senza successo, di ripetere il sanfedismo del 1799.

Uno di quegli episodi orrendi, che mostrano la natura di mostri dell'umanità dei briganti borbonici, è riportato nel processo che si tenne presso la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere dal febbraio al marzo 1864 contro i capi di una delle bande che infestò soprattutto l'area della Valle Caudina, tra il Partenio e il Taburno,facente capo ai fratelli Giona e Cipriano La Gala, nativi di Nola.
Uno dei delitti più efferati per i quali furono condannati a morte, pena poi tramutata dal Regno d'Italia liberale, in carcere a vita, fu quello dell'uccisione e del successivo atto cannibalesco compiuto dai due infami fratelli contro un loro vecchio compagno di galera, Francesco De Cesare, al quale imputarono di averli presi a schiaffi durante il periodo di pena.
Con inganno lo invitarono ad un incontro, lo catturarono, lo legarono con una fune, lo ammazzarono, gli recisero la testa, mettendogli una pipa in bocca, le braccia e le gambe, collocate sugli alberi, e arrostirono le altre parti del corpo, mangiandole impunemente con altri compagni. I loro genitali furono portati per alcuni giorni come trofeo da uno della banda.
Chi onora e ammira oggi questi mostri dell'umanità deve per lo meno profondamente riflettere.
Fonte:
Processo dei briganti borbonici Cipriano e Giona La Gala, Domenico Papa e Giovanni D'Avanzo, Reggio Emilia, Tipografia della Gazzetta, 1864, pp.176-187 (letto su internet).
Sulla vicenda e sulle violente, assassine, disumane gesta dei due fratelli vi è un analitico romanzo dell'avv. Antonio Vismara, Un banchetto di carne umana (Scene dell'Italia meridionale), Milano, Editore Pagnoni, in due volumi, scritti intorno al 1870, di cui uno su internet.
http://www.braidense.it/dire/banchetto1.pdf

Categoria principale: Libere Riflessioni Pubblicato Lunedì, 22 Settembre 2014 22:28 Scritto da Nicola Terracciano per il Nuovo Monitote Napoletano

domenica 14 settembre 2014

La “temeraria libertà” di Antonio Jerocades incoraggiata da Antonio Genovesi

Antonio JerocadesL’abate Antonio Jerocades (Parghelia, 1 settembre 1738 – Tropea, 25 novembre 1803) entrò nel seminario di Tropea nel 1756 in età avanzata e senza una particolare propensione per gli studi ecclesiastici.
Nel 1759 incominciò a frequentare i corsi di Giovanni Andrea Serrao, il quale, fin da quando era arrivato nel seminario di Tropea, aveva incoraggiato un gruppo di giovani ad un necessario rinnovamento culturale e al rafforzamento dell’indipendenza e dell’autonomia del Regno di Napoli dalla curia romana.
Dopo esser stato da poco nominato sacerdote dal vescovo Felice De Paù, nel 1765 l’abate Jerocades veniva allontanato dal collegio di Tropea con l’accusa di “aver corrotto il cuore e la mente di parecchi seminaristi”.
Tale episodio lo rese noto nel Regno di Napoli , ma da tempo era in corrispondenza con Antonio Genovesi e fu quest’ultimo che, apprezzandone  la " temeraria libertà", incoraggiò colui che considerava un ideale portavoce delle idee riformatrici e lo sostenne con ogni mezzo, ricorrendo spesso alla corrispondenza per il perseguimento del successo nella causa comune.
In una delle lettere che Genovesi indirizzò a Jerocades, si evidenzia l’umiltà del Genovesi che conosceva bene quanto fossero preziosi i suoi scritti, non solo per Jerocades.
Genovesi scrive :
Qualunque sia il pregio delle mie opericciuole, che so che ‘è picciolissimo, s’elleno però han potuto servire ad eccitarla ai buoni studi, ed alla coltura della vera pietà e virtù, all’amore del ben pubblico dell’umanità, sarà per me un motivo di farmela amare e stimare, che io non ho fatto mai. Ella mi si professa un amico ignoto, né io curo sapere più in là. Quel che mi piacerebbe, ch’ella si facesse conoscere a tutto il Regno ed all’Italia, per lo studio di promuovere le buone cognizioni e le arti utili, che sono il solo sostegno della presente vita, e le quali unite alla scienza delle divine cose, e alla divina causa, ci facilitano la strada alla vera virtù”.
Nelle parole del Genovesi era esplicito il sostegno a proseguire in un magistero che, seppur non ortodosso, avrebbe mirato ad illuminare la società riguardo non solo all'affermazione delle idee riformatrici e dell'uguaglianza sociale, ma anche alle idealità della tolleranza religiosa, della libertà di culto, della lotta alla corruzione e al lusso della curia.
Inoltre si intendeva necessario comunicare che la virtù non era collegata alla religione, e, tramite i suoi vari scritti che gli costarono tanta persecuzione ed imprigionamenti, Jerocades onorò l’incoraggiamento di Antonio Genovesi a far conoscere “ la strada della vera virtù” in maniera più agevole e diretta in un’opera buffa Pulcinella da Quacquero, nella quale si affronta anche la tematica dell’ateo virtuoso.
Allorché gli venne richiesto, in occasione del carnevale del 1770, di preparare una recita per i convittori del collegio ove prestava il suo insegnamento, l’abate propose un dramma, Il ritorno di Ulisse, e due intermezzi comici, uno dei quali sarà Pulcinella da Quacchero.
Manoscritto Pulcinella da QuaccheroNel dialogo incalzante dell’intermezzo, Jerocades presentava una comunità quacchera della Pennsylvania , colonia inglese in terra d’America, quale modello ideale di società nella quale si considerava pienamente realizzata la vera uguaglianza sociale.
In tal modo Jerocades intendeva esaltare la Pennsylvania di William Penn quale patria della libertà in cui Penn aveva saputo instaurare un governo democratico fin dal 1681, ossia dall'anno in cui aveva ottenuto dall'Inghilterra il possesso della colonia, la quale ospitava gruppi culturali e soprattutto religiosi perseguitati in Europa.
Come è noto, fu la capitale Philadelphia, fondata nel 1682, a raggiungere standard commerciali e culturali di livello avanzato, tale da diventare una delle principali città simbolo della Rivoluzione Americana del 1776.
L'intento primario di Jerocades era quello di opporre le grandi idealità di democrazia e di uguaglianza in opposizione alla società dell'Antico Regime, di cui l'allora Regno di Napoli rappresentava uno dei simboli più rilevanti in tema di mancata libertà, inesistente democrazia, disprezzo del valore di uguaglianza, alto livello di intolleranza religiosa ed inaccettabile lusso, sfarzo e corruzione della curia, anche se solo inizialmente, in relazione alla sua battaglia contro la curia, Jerocades ebbe il sostegno del ministro del Regno di Napoli Bernardo Tanucci, allora impegnato in una battaglia riformatrice contro la curia romana e napoletana.
Infatti il Tanucci si dedicò alla modernizzazione di un Regno in cui poteri e privilegi feudali erano appannaggio in maniera rilevante anche di una curia napoletana ingorda e corrotta. Lo scontro del Tanucci con la Chiesa aveva portato all’espulsione dal Regno di Napoli dei gesuiti, che il Tanucci, in una lettera datata 26 aprile 1767, definiva  “intriganti, sediziosi, corruttori della morale e della religione”.
Purtuttavia ciò non impedì che fosse Antonio Genovesi a pagare per il suo pensiero antidogmatico con l’allontanamento dal Regno di Napoli.
Dopo la morte di Antonio Genovesi, Antonio Jerocades fu più volte portato in tribunale, condannato all’esilio e all’imprigionamento in varie località, di cui alcune segrete e nascoste.
Si consideri che, nel 1793 ed all’età di 55 anni, l’abate Antonio Jerocades fu tenuto prigioniero nel piccolo villaggio di Pignataro presso il convento dei frati alcantarini, ove nessuno potesse trovarlo e pensare di raggiungerlo. Pur non avendo subito la condanna a morte per la sua partecipazione agli eventi della Rivoluzione Napoletana del 1799, caduta la Repubblica, egli scontò il suo sostegno con una ulteriore detenzione nel carcere dei Granili a Napoli.
Provato nel fisico, Jerocades morì nel convento dei Liguorini nella città di Tropea, ove era stato rinchiuso, il 25 novembre 1803, all’età di 65 anni.

giovedì 4 settembre 2014

Tommaso Aniello da Sorrento e la rivolta napoletana del 1547 contro l’inquisizione

Per comprendere appieno la rivolta napoletana del 1547 contro l’introduzione dell’Inquisizione a Napolialla maniera spagnola”, si mostra primariamente necessario ricorrere al carteggio che in quell’anno si intrecciò tra Napoli e la corte spagnola.
In relazione al deciso intento del governo centrale di operare in tale senso, il viceré don Pedro Alvarez de Toledo, famoso per le notevoli modifiche all’urbanistica della città (costruzione di Via Toledo e dei quartieri Spagnoli, pavimentazione delle principali strade cittadine), dall'inizio dell'anno assunse un atteggiamento dilatorio al fine di guadagnare tempo, ben conoscendo la contrarietà della nobiltà napoletana e temendo una sua reazione.
Ben presto lo scontro politico si mostrò inevitabile, dato che il vicerè doveva prendere una decisione, pur tormentato tra l'essere contrario alla inquisizione di tipo spagnolo, mentre nel contempo ribadiva che " los malos era bien fuessen castigados".
Pietro Giannone nella sua Istoria civile del Regno di Napoli descrisse il contesto religioso, culturale e politico in cui vennero a svilupparsi gli eventi del 1547.
La diffusione delle dottrine ereticali aveva avuto un suo incremento con la predicazione di Bernardino Ochino, Pietro Martire e Juan De Valdés, nonostante la vigilanza del viceré Toledo il quale, aveva inviato una relazione dettagliata all'imperatore, segnalando che "bisognava seriamente provvedere d'efficaci rimedi per mali sì gravi e pericolosi".
Don Pedro de ToledoSecondo quanto scrisse il Giannone, il viceré Toledo fece in modo che la decisione opera apparisse opera  della sede papale e non sua, facendo sì che arrivasse a Napoli un inquisitore inviato da Roma.
Al di là del mero svolgimento dei fatti avvenuti precedentemente, le nuove regole morali e religiose furono affisse alle porte del Duomo di Napoli il 12 maggio 1547, ma Tommaso Aniello da Sorrento (secondo lo storico Amabile, mentre lo storico Baldacchini lo identifica invece con il nome di Tommaso Agnello della costa sorrentina. Personaggio da non confondere con il Tommaso Aniello "Masaniello" di Amalfi della rivoluzione napoletana del 1647)), stracciò e buttò via l'editto davanti ad una folla di popolani.
Nel giro di pochissimo tempo fu arrestato e tenuto prigioniero oltre il consueto tanto che il popolo napoletano, temendo i poteri straordinari che il sovrano aveva conferito al viceré Toledo, aveva forzato “i deputati cittadini et altri baroni parimente” a recarsi a Castelnuovo per intercedere presso il viceré affinché liberasse Tommaso Aniello.
La rivolta, invece di placarsi, andò crescendo, in seguito agli arresti di Cesare Mormile, Giovanni di Sessa e Ferrante Carafa, considerati i principali autori del disegno eversivo.
Il popolo presente si divise in tre gruppi alla ricerca del reggente. I rivoltosi lo trovarono nella zona di Santa Chiara e dopo, averlo accerchiato, lo indussero a revocare l’arresto di Tommaso Aniello da Sorrento.
Intanto in altre parti della città avvennero vere e proprie battaglie fra gli alabardieri spagnoli e il popolo in armi richiamato dal suono di allarme delle campane di San Lorenzo. Gli animi si placarono solo dopo la diffusione della notizia della scarcerazione Tommaso Aniello.
All’uscita del carcere della Vicaria, Masaniello da Sorrento fu caricato in groppa a un cavallo e portato in corteo per tutta la città, acclamato come simbolo della ribellione ai soprusi della chiesa e dell’occupatore spagnolo.
Il 17 maggio l’eletto Domenico Terracina, venne meno all’accordo col viceré riguardo l’introduzione della nuova forma di Inquisizione, e dichiarò di essere addirittura risoluto a combatterla.
La ribellione del maggio 1547 divenne, nella sua breve evoluzione, un moto indipendentista e si protrasse fra alterne vicende fino al mese di agosto, quando le truppe spagnole riuscirono ad avere sotto controllo l’intera città.
L’escalation si ebbe dal 21 luglio per tredici giorni successivi. Nel solo giorno del 21 luglio furono tirati deliberatamente su Napoli ben 407 colpi di artiglieria per ordine del viceré Toledo, nonostante le istanze contrarie di tanti nobili, tra cui il duca di Gravina, il Marchese di Vico, Federico Carafa, Scipione Pignatello, Scipione di Capua, con la marchesa de la Valle che si gettò ai piedi del viceré per farlo desistere da tanta crudeltà.
Al fuoco d’artiglieria su Napoli da Castelnuovo e Sant’Elmo, si aggiunse un assedio via mare.
Il bilancio totale dei tumulti fu di 600 morti e 112 feriti di parte spagnola e 200 morti e 100 feriti di parte partenopea, in più molti palazzi furono dati alle fiamme, compresa Rua Catalana, quartier generale delle truppe spagnole.
La rivolta di Tommaso Aniello da Sorrento riuscì a posticipare di sei anni l’entrata in vigore dell’Inquisizione; il primo autodafé (una cerimonia pubblica, facente parte soprattutto della tradizione dell'Inquisizione spagnola, in cui veniva eseguita, coram populo, la penitenza o condanna decretata dall'Inquisizione) si svolse nel 1553 dinanzi al duomo senza alcuna protesta quando il viceré don Pedro de Toledo era già morto da un anno.

martedì 2 settembre 2014

La Costituzione della Repubblica Napoletana del 1799

“Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni individuo, che ogni  età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se tu vorrai dare ad altri, starà male. Le costituzioni si debbono fare per gli uomini quali sono e quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di errori; imperocchè tanto è credibile che essi voglian deporre que’ loro costumi, che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni, che io credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio che pretendesse accorciare il piede di colui cui avesse fatta corta una scarpa. Quando una costituzione non riesce, io do sempre torto al legislatore; come appunto, quando non calza una scarpa, do torto al calzolaio”.
Così Vincenzo Cuoco primo storico della Repubblica napoletana del 1799, della quale era stato, al tempo stesso, un critico implacabile non meno che un cittadino leale efficacemente sintetizzava il proprio giudizio sul progetto costituzionale discusso e approvato a Napoli a pochi mesi dalla proclamazione della Repubbliche “sorelle” della Francia direttoriale, ricalcava in modo alquanto evidente il modello della Costituzione francese dell’anno III.
La critica che il Cuoco muoveva al testo napoletano era in realtà rivolta al costituzionalismo rivoluzionario italiano nel suo complesso, i cui artefici sosteneva il Cuoco pervasi di esprit gèomètrique, avevano introdotto degli ordinamenti identici a quelli sperimentati in Francia senza tenere in minimo conto le esigenze concrete della loro popolazioni, commettendo pertanto  l’errore di vedere nelle costituzioni null’altro che una sovrastruttura da imporre al popolo a proprio arbitrio, anziché concepirle quali il prodotto naturale e spontaneo della sua coscienza storica. 
Pertanto, pur non negando che il progetto costituzionale del Pagano fosse “migliore la certo delle costituzioni ligure, romana, cisalpina”, in virtù di tale concezione rigorosamente storicista, il Cuoco non poteva evitare di giudicarlo comunque “troppo francese e troppo poco napoletano”.
Tale giudizio premessa di una critica più globale all’intera esperienza  rivoluzionaria napoletana, culminata nell’elaborazione della nota categoria  storiografica italiana, per lungo tempo, si è accostata alle cosiddette costituzioni giacobine, a lungo considerate senza eccezioni alcuna nulla di più che delle scolastiche imitazioni dell’originale francese e, pertanto, non meritevoli di alcun interesse specifico.
La vicenda della Repubblica napoletana, però, fu nel complesso assai dissimile da quella delle altre Repubbliche sorte nel triennio 1796- 1799, non solo e non tanto perché di gran lunga più effimera ( non arrivò a sfiorare i sei mesi di vita ) e pertanto non suscettibile di un giudizio sull’effettivo funzionamento delle istituzioni politiche ivi poste in essere, ma soprattutto per l’attiva partecipazione dell’intellettualità locale, per il maggior grado di autonomia concesso dalle autorità politiche e militari francesi al governo napoletano e, non secondariamente, per quel bagaglio d’esperienza politica che alcuni dei suoi principali esponenti politici avevano già avuto modo di accumulare “servendo” nei governi di altre repubbliche giacobine italiane, in particolare nella Cisalpina.
Tra i numerosi patrioti meridionali che, alla notizia della proclamazione della Repubblica napoletana partirono immediatamente da Milano ove avevano trovato asilo politico, alla volta della capitale meridionale, vi fu l’avvocato Francesco Mario Pagano, già docente di diritto penale all’Università di Napoli e celebrato autore  degli importanti Saggi politici de’ principi progressi e decadenza della società ( 1783), e delle Considerazioni sul processo criminale (1787), il quale, giunto a Napoli il 1°febbraio del 1799, venne subito invitato dal governo provvisorio a far parte insieme a Giuseppe Albanese, Giuseppe Logoteta e Domenico Forges Davanzati del Comitato di legislazione incaricato di redigere la Costituzione della Repubblica; compito, quest’ultimo, che di fatto sarà svolto in via esclusiva proprio dal Pagano.
Benchè i severi giudizi del Cuoco sul costituzionalismo rivoluzionario lascino intuire un’accettazione del tutto pedissequa da parte del napoletano Comitato di legislazione delle norme previste dalla Costituzione francese dell’anno III, una serena lettura degli articoli del Progetto costituzionale elaborato dal Pagano non  può non condurre e delle conclusioni differenti. 
In primo luogo, ben diversa dalla francese Dichiarazione dei diritti e doveri dell’uomo e del cittadino era la Dichiarazione dei diritti, e doveri dell’Uomo,  del Cittadino del Popolo, e de’ suoi Rappresentanti che precedeva la Costituzione. 
Il principio dell’uguaglianza che nella Dichiarazione francese figurava fra i diritti dell’uomo, insieme alla libertà, alla sicurezza e alla proprietà, nel testo napoletano era al primo posto, essendo la base di tutti gli altri diritti.  Inoltre, la Dichiarazione napoletana, accanto ai diritti dell’uomo e del cittadino, prevedeva una terza categoria di diritti che non era mai stata, in nessuna delle Costituzioni francesi, specificamente trattata in un capo ad hoc: si tratta dei diritti del popolo, individuati dal Pagano nel diritto di darsi una costituzione ( art. 13 ) e di modificarla ( art.14); nel diritto di legiferare (art.14); di fare la guerra ( art.15)e d’imporre le contribuzioni (art.16). 
Inoltre, il Progetto napoletano prevedeva esplicitamente il diritto di resistenza all’opposizione ( art.9) che, presente nella Dichiarazione francese dell’anno I ( 1793), mancava invece in quella del 1795.
Il Pagano, però, attribuiva a tale diritto  un significato diverso da quello dei montagnardi, ritenendo infatti che tale diritto  fosse una conseguenza di quello di difesa (e non la “ consèquence des autres droits de l’homme”,  come avevano affermato i costituenti del 1793) e ben si guardò dal concepire l’insurrezione come un dovere dell’uomo o del cittadino.
Anche sotto il profilo dei doveri, il Pagano, rispetto alla Dichiarazione del  1795, introduceva per la prima volta una terza categoria di soggetti: i pubblici funzionari, tenuti a garantire i cittadini contro ogni violazione e consacrare la propria vita al bene della Repubblica ( art.25 e 26); quasi una sorta di primo esempio di una serie di norme deontologiche per coloro che esercitano una funzione pubblica.
Un altro aspetto intorno al quale è possibile ravvisare nel Progetto costituzionale napoletana il contributo originale del pensiero del Pagano è il tema dell’educazione pubblica.
Difatti, mentre la Costituzione termidoriana si limitava ad occuparsi della sola “istruzione”, il titolo X del Progetto riguardava al tempo stesso la “educazione e la istruzione pubblica”.
Già nei suoi Saggi politici, il Pagano aveva dedicato un intero capitolo al tema dell’educazione, distinguendolo nettamente l’istruzione che rende l’uomo “illuminato e generalmente colto” dalla educazione che è “il concorso di tutte l’esterne cagioni fisiche, morali ed accidentali che sviluppando i naturali  talenti segano per mezzo delle sensazioni dell’animo gl’indelebili caratteri de’ costumi, formano lo spirito e ne forniscono certa quantità l’idee che creano il nostro interno universo”.
Il Pagano, pertanto, riteneva che la Repubblica dovesse dedicare tutte le sue cure al problema dell’educazione, mentre la Costituzione francese così si legge nel Rapporto pur non avendo negletta l’istruzione, aveva avuto riguardo più alla parte intellettuale di essa che a quella morale, cioè all’educazione vera e propria.
E in altro passo il Pagano, dopo aver sostenuto l’influenza decisiva dell’educazione sulle stesse istituzioni politiche, rimproverava al Montesquieu di non aver saputo comprendere che l’educazione dovesse essere parte integrante della Costituzione.
Nel Progetto, chiara è dunque la distinzione fra l’educazione pubblica che comprendeva “ esercizi ginnici e guerrieri” ( art.295),  lo studio del catechismo repubblicano, spettacoli teatrali volti a “promuovere lo spirito della libertà” ( art.299); è peraltro da ricordare che il Pagano fu egli stesso autore di drammi patriottici), nonché delle “feste nazionali per eccitare le virtù repubblicane” (art. 300) e  l’istruzione che comprendeva lo studio nozionistico e che doveva essere impartita  nelle scuole primarie e superiori. 
L’importanza attribuita dal Pagano all’educazione pubblica è infine testimoniata dall’avere egli indicato, nell’ambito dei doveri dell’uomo,  il “dovere di istruzione egli illuminare gli altri” (art.20), ritenendo che tale dovesse essere il compito di ogni uomo colto giacchè un popolo che “ di se stesso dee in mano avere le redini, fare le leggi, dichiarare la guerra, conchiudere la pace, amministrar le finanze, conviene che sia illuminato e generalmente colto”.
Possiamo ora esaminare gli articoli relativi all’organizzazione dei poteri dello Stato.
Nel Rapporto del Comitato di legislazione al governo provvisorio redatto dallo stesso Pagano con lo scopo d’illustrare i principi- cardine del suo progetto  costituzionale, il giurista affermava che quella che la Repubblica napoletana si  apprestava ad adottare era senz’altro “la costituzione della madre repubblicana  francese”, ma aggiungeva che il Comitato di legislazione “riflettendo che la diversità del carattere morale, le politiche circostanze e ben anche la fisica situazione delle nazioni richiedono necessariamente de’ cangia menti nelle costituzioni”,  aveva deciso di apportare talune modifiche alla Costituzione della “ repubblica madre”, non soltanto riguardo al modo d’intendere la libertà e i diritti dei cittadini, ma anche relativamente all’organizzazione del potere.
Dalla lettura degli articoli del Progetto, difetti, i correttivi apportati al testo  francese appaiono molteplici e sostanziali.
Difatti, sebbene il Progetto del Pagano, sull’esempio anch’esso il potere legislativo ad un organo bicamerale formato da un Senato di 50 membri, vedovi o congiunti, di almeno 40 anni di età e da un Consiglio di 120 membri di età non inferiore ai 30 anni, incaricato di compito di eleggere i cinque dell’Arcontato, l’organo collegiale cui spettava il potere esecutivo, l’art.47 del Progetto, diversamente sia dalla Costituzione del Direttorio sia da tutte le altre Costituzioni italiane del triennio giacobino, conferiva il potere d’iniziativa legislativa e di redazione dei testi di legge al più “maturo” Senato, concedendo al Consiglio soltanto il potere di respingerle o approvarle.  
Il Pagano, difatti, partendo dal presupposto che “ proporre de leggi” fosse  “più l’effetto della fredd’analisi che dell’ardito genio”, e ritenendo, in conseguenza di ciò, che tale compito richiedesse “ più estensioni di lumi, che voli di spirito”,  era dunque dell’avviso che “pochi uomini maturi” fossero più adatti a tale compito rispetto ad un “ardente moltitudine di giovani”.
In tal modo, pertanto, il giurista meridionale attuava un vero e proprio rovesciamento del rapporto fra i due rami del potere legislativo rispetto all’originario modello francese.
Anche nell’organizzazione giudiziaria la costituzione napoletana si discostava da quella francese, giacchè per evitare spese e spostamenti, disponeva che gli appelli nei giudizi civili si presentassero non al tribunale di un altro dipartimento, ma una diversa sezione dello stesso tribunale; variazione giustificata dal Pagano con l’osservazione che il sistema francese fosse “ fuor di dubbio incomodo assai e dispendioso ancora ai litiganti, soprattutto ai poveri che così dovranno recare per ottenere giustizia nella centrale di un dipartimento per più giorni forse distante dal luogo della loro dimora”.
Alla preminenza data dal Pagano, come abbiamo avuto modo di osservare, all’educazione si ricollega l’istituto della Censura ( art. 314- 316) del tutto assente nella Costituzione del Direttorio.
Tale istituto sull’utilità del quale avevano già dissertato Montesquieu, Rousseau e Filangieri era concepito dal Pagano come un tribunale composto da 5 membri (di età non inferiore ai cinquant’anni, eletti per la durata di un anno) e presente in ogni cantone, preposto alla vigilanza sull’educazione e destinato alla salvaguardia della morale pubblica.
Partendo dal presupposto che la libertà non fosse minacciata solo dalle usurpazioni dei poteri costituiti, ma “benanche dai privati cittadini e dalla pubblica corruzione ”, il Pagano riteneva che la Costituzione dovesse “innalzare un argine altissimo contro la corruzione dei costumi non meno che contro l’eccessivo potere dei funzionari” e, pertanto, attribuiva ai censori il compito di vigilare sulla condotta democratica dei cittadini, con la facoltà di escluderli dal diritto attivo o passivo di voto in caso di corruzione.
L’esigenza si porre in essere degli efficaci strumenti giuridici volti a impedire ogni forma di usurpazione del potere, costituire inoltre il fondamento ideologico di quella che, fra le numerose novità introdotte dal Pagano nel suo progetto rispetto al modello francese, è forse la più politicamente rilevante: l’Eforato, organo che lo stesso Cuoco non potè fare a meno di definire “ la parte più bella del progetto del Pagano”.
Tale istituto ( il cui nome rievoca quello di una magistratura dell’antica Sparta) era disciplinato dal titolo XIII del progetto al quale era stata data dal Pagano l’intitolazione di “custodia della Costituzione”.
Esso si componeva di 17 membri, tanti quanti erano i dipartimenti della Repubblica, scelti, ogni anno dalle assemblee elettorali fra quanti in possesso dei seguenti requisiti: un’età non inferiore ai 45 anni; l’essere vedovi o congiunti; essere stati, almeno una volta, membri del corpo legislativo o dell’Arcontato e  avere il domicilio nella Repubblica da non meno di 10 anni al momento dell’elezione (art.363).
Le funzioni dell’Eforato erano dettagliatamente elencate dall’art. 368 del che attribuiva a tale corpo il compito di esaminare se la Costituzione fosse stata  osservata in tutte le sue parti e se i poteri avessero osservato i propri limiti costituzionali; così come la facoltà di chiamare ciascun potere nei limiti costituzionali;  così come la facoltà di richiamare ciascun potere nei limiti e doveri rispettivi ciascun potere nei limiti e doveri rispettivi, cessando ed annullando gli atti di quel potere che li avesse esercitati oltre le funzioni attribuitegli dalla  Costituzione, di proporre, infine, al Senato la revisione di quegli articoli della Costituzione;   giudicati poco “convenienti”  e di suggerire al Corpo legislativo l’abrogazione di quelle leggi ritenute opposte ai principi della Costituzione.
Due erano pertanto i compiti fondamentali dell’Eforato: da un lato la revisione della Costituzione e, dell’altro, il controllo costituzionale delle leggi che si svolgeva sia attraverso l’indagine sulla costituzionalità, sia mediante la risoluzione dei confini di attribuzione.  
Le deliberazioni degli efori prendevano il nome di decreti, come era chiaramente affermato nel progetto,sia il Corpo legislativo che l’Arcontato erano tenuti ad uniformarsi.
Com’è ben noto, al momento della stesura del progetto costituzionale della Repubblica napoletana, il problema del controllo di costituzionalità delle leggi era già stato da tempo affrontato e risolto soltanto nei neo-Stati Uniti d’America, ove, sebbene la Costituzione ratificata nel 1787 nulla specificasse al riguardo, sulla base di quanto illustrato negli articoli del Federalist, scritti fra il 1787 e il 1788,  di tale rilevante funzione era stata investita la Corte Suprema.
Ma anche Francia rivoluzionaria, benché sempre senza successo, era stata avanzata in più di un’occasione l’ipotesi d’introdurre degli istituti preposti al controllo di costituzionalità: tra i progetti più rilevanti in tal senso è il caso di ricordare quello presentato alla Convenzione, nel febbraio del 1793, dal Rouzet, il quale prevedeva la creazione di organo collegiale di 85 membri preposto al controllo della costituzionalità delle leggi da effettuarsi prima ancora della loro approvazione da parte dell’Assemblea.
Ai membri di tale organo, il Rouzet, molto prima che il Pagano redigesse il suo progetto, dava il nome di efori. Ben più articolato e complesso era il progetto presentato, due anni più tardi, dall’abate Sieyès, il quale prevedeva l’introduzione di un “jury constitutionnaire” (denominato altrove anche “tribunal” des droits de l’homme”) incaricato di una triplice funzione: vegliare sulla salvaguardia del  dettato costituzionale; proporre dei perfezionamenti della Costituzione ed esercitare un controllo sulle sentenze della giurisdizione ordinaria sulla base del diritto naturale.
Conseguenza del giudizio dinanzi al “jury” era che gli atti incostituzionale sarebbero stati dichiarati “nlus et comme non avenus”.  
Benchè apprezzato da molti, il progetto del Sieyès venne respinto.
Pur non potendosi escludere a priori l’influenza del dibattito costituzionale francese e americano sul pensiero del Pagano in tema di controllo di costituzionalità delle leggi, è interessante però notare come già nel 1783( dunque ben prima delle proposte francesi e della soluzione americana ), scrivendo la prima versione dei Saggi politici, egli avesse chiaramente indicato in un organo chiamato Eforato la funzione di “bilancia dei poteri” al fine di evitare tanto gli abusi del potere legislativo, quanto dell’esecutivo.
Così, difatti, scriveva il giurista nel quinto saggio, riflettendo sui casi in cui le norme poste in essere dai poteri dello Stato potessero ledere i diritti e le libertà dei cittadini: “ quando limitino le operazioni dei cittadini oltre di ciò che la pubblica conversazione richiede, quando delle azioni indifferenti faccino delitti, quando la legge in favor di una parte dei cittadini restringa i diritti dell’altra se poi ella trascuri oppure i necessari ostacoli alla violenza privata, se non pensi a render sicuri i cittadini, se, per difetto di buon ordine, gli esecutori delle leggi, abusando della pubblicità autorità impunemente opprimano il cittadino, indirettamente allor la legge favorisce la servitù civile”.
Più esaustivo nel delineare le finalità del corpo degli efori è il giurista nel rapporto, ove si legge: “Se il potere esecutivo sia troppo dipendente dal corpo legislativo, come lo era nella costituzione francese del 1793, in tal caso l’assemblea assorbirà il potere esecutivo, e concentrandosi in essa i poteri tutti ella diverrà dispotica.
Se poi sia indipendente l’uno dall’altro potranno sorgere due disordini, e l’inazione ed il languore della macchina politica per la poca intelligenza dei due corpi che rivaleggiano tra loro, ovvero l’usurpazione dell’uno sull’altro per quella naturale tendenza di ogni potere all’ingrandimento.
Ecco la necessità di un altro corpo di rappresentanti del popolo che sia come un tribunale supremo il quale tenga in mano la bilancia dei poteri e li rinchiuda nei loro confini: che abbi insomma la custodia della costituzione e della libertà”.
Al fine di svolgere equamente tale funzione di “bilancia dei poteri” è pertanto indisponibile che la carica di membro dell’Eforato sia incompatibile con qualsiasi altra funzione pubblica (art.354) e che gli efori non possono in alcun modo, neanche per mezzo di delegati, esercitare il potere legislativo, esecutivo e giudiziario (art.351).
Tale le massime preoccupazione del Pagano, difatti, vi era quella che l’Eforato, nato per prevenire le usurpazioni del potere e le violazioni dei diritti dei cittadini potesse esso stesso trasformazioni in un organo dispotico. Per tale ragione, peraltro, egli dispose che l’Eforato si sarebbe riunito solo giorni ogni anno (art.362).
Sebbene il generale francese Championnet, in un suo proclama ai napoletani, avesse solennemente affermato che la Costituzione della Repubblica napoletana sarebbe entrata in vigore il 21 marzo (1°germinale), in data 1° giugno - secondo quanto si poteva leggere sulle pagine del “Monitore”, il progetto del Pagano continuava ancora ad essere oggetto di “varie metafisiche riflessioni” da parte della Commissioni legislativa.  
Esso, pertanto, finì per essere travolto dai tragici eventi che portarono al crollo della Repubblica ed alla restaurazione della monarchia borbonica, la quale, nella violenta reazione che ne seguì, nessuna pietà ebbe per il suo autore, impicccato a Napoli, in Piazza Mercato, il 29 ottobre del 1799.
Benchè mai entrano in vigore, il progetto costituzionale del Pagano quasi una sorta di testamento che i patrioti napoletani lasciarono alle generazioni successive, ben lontano dal costituire una mera riproposizione del modello francese, rappresentò forse la massima opera del Pagano, nella quale confluirono, assumendo forma concreta, idee e concezioni che egli aveva a lungo meditate nei suoi procedenti lavori di teoria politica e giuridica.