Gerardo Marotta, Presidente dell' Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, nella prefazione al saggio di Camillo Albanese "Cronache di una rivoluzione. Napoli 1799", ha sottolineato che con il massacro di Piazza Mercato "furono spenti nel sangue filosofi, scienziati, statisti, tutta la più illustre nobiltà napoletana e l'alto clero che si erano schierati per la filosofia, per la libertà e per un vero Stato fondato sulla ragione e sulla giustizia”.L'Italia e l'Europa avevano assistito alla distruzione di tutto un governo legale, legittimo perché fondato dai patrioti dopo la fuga del re in Sicilia e riconosciuto a tutti gli effetti dal trattato di armistizio firmato dal governo della Repubblica napoletana, dal viceammiraglio della flotta inglese, dal comandante delle truppe turche, dal comandante delle truppe russe e dallo stesso cardinale Ruffo, plenipotenziario del re e comandante supremo dell'armata della Santa Fede.
Giustino Fortunato, nel raccogliere le memorie dei martiri della Repubblica, così iniziava nel 1882 il suo scritto I Napoletani del 1799:
" [...] i Borboni mandarono al patibolo i più dotti e generosi uomini, che avevano preso parte per la Repubblica, e il mondo sa i nomi di questi uomini ... ".
Luigi Settembrini, parlando dei giustiziati di Napoli del 1799:
"Consacrati dalla gratitudine e dalla riverenza de' posteri, richiamati a vita nuova dall'arte, oggi quei nomi, divenuti sacro patrimonio della nazione redenta, hanno l'aureola della gloria e il culto della memoria. È storia e già pare epopea. Il martirio di quegli uomini è agli occhi nostri come una leggenda, come un vivo sprazzo di luce, che redime tutto un passato d'obbrobrio, e che è primo inizio delle rivoluzioni del secolo; ed oggi ancora, monumento d'eroismo, i nomi di quegli uomini danno fede e sentimento alle giovani generazioni, che hanno la fortuna, dopo tante aspettative, di vedere attuata e benedetta l'unità della patria. Né altro, in tutto il martirologio italiano, è paragonabile a questo primo e generoso tributo di sangue, offerto dai Napoletani del 1799".
Tuttavia ciò che desta davvero massima riprovazione e senso di sgomento sono le parole dello stesso zar Paolo I, che come ricorda il filosofo napoletano, scrisse al cugino Ferdinando di Borbone: - "Cugino Ferdinando, ti ho inviato i miei battaglioni per aiutarti a riconquistare il regno perduto, ma tu non puoi mandare a morte il fiore della cultura napoletana".
Lo zar, scrivendo al Borbone, sapeva benissimo che si trattava di patrioti i quali, quando i francesi erano partiti, lasciandoli soli, avevano esultato in quanto volevano compiutamente dimostrare che la loro causa per la libertà, l’uguaglianza non aveva bisogno di protettori, a differenza dei Borbone per la cui riconquista del trono si erano attivate le armate sanfediste, turche, inglesi, russe e svizzere, ossia tutta la forza prepotente di un antico regime di assolutismo, di privilegi e di oppressione di uomini sugli altri uomini.
Lo zar Paolo I, figlio della grande Caterina, aveva ricordato al cugino Ferdinando in maniera diretta la verità di quanto successo: grazie ai suoi battaglioni e a quelli delle altre Nazioni monarchico-assolutiste dell’Antico Regime aveva riottenuto il regno, ma non poteva uccidere il fior fiore della cultura napoletana.
D'altronde lo stesso zar era ben a conoscenza del trattato internazionale di resa firmato dai patrioti repubblicani, ai quali si avrebbe dovuto, all'uscita dai forti, rendere gli onori militari, come dalla III clausola del trattato internazionale che recitava: “ Le guarnigioni usciranno cogli onori di guerra, armi , bagagli, tamburo battente, bandiere spiegate, miccia accesa, e ciascuna con due pezzi di artiglieria; esse deporranno le armi sul lido”.
Per lo zar Paolo I era stato Baillie a porre la firma all'accordo, come avevano fatto Ruffo e Micheroux per il Borbone, Bonieu per la Turchia, Foote per l’Inghilterra, Méjèan per i Francesi, e Massa per la Repubblica Napoletana.
Scrivendo : "Cugino Ferdinando, ti ho inviato i miei battaglioni per aiutarti a riconquistare il regno perduto, ma tu non puoi mandare a morte il fiore della cultura napoletana", lo zar di Russia voleva anche ricordare ad un monarca borbone che non si poteva disattendere un trattato internazionale, oltre a rimarcare che alla Repubblica del 1799 avevano aderito i maggiori intellettuali del Sud.
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