giovedì 31 marzo 2011

L'Italia unita fondata su fame e malattie

 

Qualche anno fa, una parte dello schieramento politico italiano voleva inserire nella Costituzione Europea un riferimento alle radici cristiane dell'Europa: il cristianesimo ha fatto l'Europa, è un elemento comune a tutti i popoli, si diceva.

Il tentativo, osteggiato dai paesi europei che non si preoccupano di compiacere il Vaticano, dimostrava una scarsa conoscenza della storia economica e non solo.

Come credere, infatti, alle radici cristiane di popoli nelle cui case, fino a pochi decenni fa, non c'è mai stata una bibbia, vista la palese ostilità della chiesa (cattolica) alla diffusione dei propri testi sacri tra i non addetti ai lavori, e che in ogni caso non sarebbe mai stata letta, vista l'alta percentuali di analfabeti?

La realtà dell'Italia unita nel 1861 è ben diversa da quella descritta da chi si gonfia il petto ricordando l'eroismo dei garibaldini e i discorsi altisonanti dei patrioti e dei governanti: l'Italia del 1861 era un paese povero e analfabeta, unito dalla fame, dall'ignoranza e dalle malattie. Non certo da idee e valori che appartenevano a pochi.

Camillo Benso conte di Cavour, il primo capo del governo dell'Italia unita, morì nel giugno 1861 all'età di 50 anni per le conseguenze della malaria che l'aveva colpito da giovane, quando abitava in mezzo alle risaie del vercellese. Era ricco, apparteneva a una famiglia di proprietari terrieri, ma la sua vita si interruppe a pochi mesi dalla proclamazione dell'Unità.

Se questa è stata la sorte del primo ministro, figuriamoci come viveva il resto d'Italia. La malnutrizione era diffusa, quasi l'80% degli italiani era analfabeta, come ricorda la Banca d'Italia in una mostra (vedi qui), la vita media era breve, attorno ai 30 anni, la maggior parte degli italiani campava d'agricoltura e non sapeva cosa ci fosse al di fuori del piccolo territorio in cui viveva. E di certo nel resto d'Europa le cose non andavano tanto meglio.

Dunque era un pò paradossale la richiesta di inserire le radici cristiane nella Costituzione europea: un destino comune fatto di fame, analfabetismo e malattie ha unito i popoli molto più delle religioni. Infezioni e malattie hanno sempre ucciso più delle guerre.

Se oggi si vive meglio e più a lungo, dobbiamo ringraziare le persone con il loro ingegno e il loro lavoro, che non a caso è l'elemento fondativo della Repubblica, come ci ricorda l'articolo 1 della Costituzione. Il lavoro e non la religione ha migliorato la vita di milioni di persone che oggi vivono, in media, quasi il triplo di un cittadino del 1861.

PS: la Banca d'Italia ricorda che a fine Ottocento, sotto il peso di ignoranza e analfabetismo, moltissimi rifiutavano le banconote, forse perché non sapevano leggere le cifre scritte sulla carta, e preferivano le monete in metallo prezioso.

Anche oggi in molti vorrebbero tornare alle monete in metallo prezioso....l'analfabetismo è sempre tra noi.

sabato 26 marzo 2011

Quello che i neoborbonici non vi racconteranno mai - 3


Quando nasce il divario nord-sud? E perchè?
S'è già visto che l'economia del sud era più debole, le aziende più piccole, i mercati di sbocco meno ricchi.

La situazione è peggiorata quasi subito, dopo l'unificazione del paese, quando il governo italiano ha deciso di eliminare i dazi doganali interni e di rendere uguali per tutti i dazi verso l'estero.

In un solo giorno, i dazi che proteggevano le aziende del sud dalla concorrenza straniera si sono ridotti dell'80%, mentre sono scomparsi i dazi applicati ai prodotti di altre zone d'Italia: "le tariffe [dazi] del 188 e del 1887 contribuiscono potentemente al peggioramento cumulativo del divario tra Nord e Sud" (1) e solo nel 1904 si prendono provvedimenti (la legge per Napoli) a favore di alcune zone industriali.

Nel frattempo il divario era cresciuto: "soprattutto a partire dal 1881, allorchè inizia una fase di consistente industrializzazione del nord e entra invece profondamente in crisi l'industria tradizionale meridionale". (1)
Anche il fisco sfavorì il sud: il bilancio in (quasi) pareggio, vanto della destra storica, fu possibile grazie all'imposta sul macinato che colpiva gli italiani più poveri. In un'Italia che correva a velocità diverse, era il sud, più lento, a pagare il prezzo del bilancio in pareggio (o quasi).

Dunque il divario iniziale è cresciuto per effetto della politica liberista della Destra storica che ha messo tutti sullo stesso piano: chi era più competitivo, chi aveva accesso a mercati più ricchi, chi disponeva di infrastrutture migliori ha avuto la meglio.

Chi non conosce questa pagina della storia economica, preferisce la tesi del complotto: il sud era al top ma qualcuno l'ha affossato. Chi? Il nord... anche se il parlamento dopo il 1861 rappresentava tutta l'Italia e i deputati del sud contavano, e non poco, tanto che quando si crea la Banca d'Italia, Giolitti lascia al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia il diritto di emettere moneta, convinto che altrimenti i deputati eletti al sud non avrebbero sostenuto il progetto.


(1) V.Valli, Politica economica, Carocci, pag. 222

venerdì 25 marzo 2011

Risorgimento: i moti del 1820, le rivoluzioni di Napoli e del Piemonte, Guglielmo Pepe e Santorre di Santarosa

Nel secondo appuntamento con il Risorgimento ci occupiamo della fase iniziale dell’epoca storica che nacque dalle ceneri dell’impero napoleonico e terminò con la costituzione dello stato italiano. Siamo nel 1820. Dopo la caduta di Napoleone il Vecchio Continente aveva fatto un salto nel passato. Il Congresso di Vienna , riunitosi qualche anno prima (1815), aveva riconsegnato le varie monarchie europee ai sovrani spodestati dalle rivoluzioni di fine settecento, un processo storico denominato Restaurazione.
Le popolazioni però non avevano gradito ed alcuni cittadini si erano organizzati in moti cospiratori, atti a portare regimi democratici laddove ora vi erano monarchi assolutisti.  La prima fase delle proteste post-Restaurazione avvenne in Spagna, il primo gennaio 1820:
La data di inizio dei moti può considerarsi il 1 gennaio1820: presso il porto della città marittima di Cadice, in Spagna, alcuni reparti militari avevano ricevuto l’incarico di imbarcarsi alla volta delle colonie spagnole, dove alcune di esse si erano date governi indipendenti. Ciò era stato possibile in seguito all’invasione napoleonica della Spagna, alla cacciata dei Borbone e alla mancanza di un governo centrale saldo. Con l’invio dei battaglioni si pensava di sedare così la rivolta guidata da Simón Bolívar.
Gli ufficiali rifiutarono di imbarcarsi e diedero inizio ad una rivolta, dettapronunciamiento.
I rivoltosi contrinsero il Re di Spagna Ferdinando VII a concedere la Costituzione. Il Sovrano spagnolo chiese poi aiuto alla Santa Alleanza, una antesignana della Nato, una associazione delle potenze europee impegnata a difendere i singoli paesi da possibili attacchi interni. La Santa Alleanza autorizzò la Francia ad inviare un esercito in Spagna per aiutare Ferdinando che fu preso prigioniero dai liberali autori dei moti. Il 31 agosto del 1823 l’esercito francese ebbe la meglio sugli insorti e Ferdinando fu rimesso sul trono di Spagna. La rivoluzione liberale era fallita. Ma oramai aveva preso piede in tutta Europa, anche in Italia.
Nel Regno delle Due Sicilie e nel Piemonte, in questi due Stati della penisola si concentrarono principalmente i moti rivoluzionari del 182o.

I moti carbonari di Napoli, Guglielmo Pepe


A Napoli accadde così:
La notte tra il il 1 e il 2 luglio 1820, la notte di San Teobaldo, patrono dei carbonari, Morelli e Silvati diedero il via alla cospirazione disertando con circa 130 uomini e 20 ufficiali. Ben presto li raggiunse Minichini che entrò in contrasto con Morelli: il primo voleva procedere con un largo giro per le campagne allo scopo di aggiungere alle proprie fila quei contadini e quei popolani che credeva attendessero di unirsi alla cospirazione; il secondo voleva puntare direttamente su Avellino dove lo attendeva il generale Pepe. Minichini lasciò lo squadrone allo scopo di seguire il proprio intento, ma dovette far ritorno poco dopo senza risultati. Il giovane ufficiale Michele Morelli, sostenuto dalle proprie truppe, procedeva verso Avellino senza incontrare per le strade l’entusiasmo delle folle che si aspettava.
Il 2 luglio, a Monteforte, fu accolto trionfalmente. Il giorno seguente, Morelli, Silvati e Minichini fecero il loro ingresso ad Avellino. Accolti dalle autorità cittadine, rassicurate del fatto che la loro azione non aveva intenzione di rovesciare la monarchia, proclamarono la costituzione sul modello spagnolo. Dopo di che, passò i poteri nelle mani del colonnello De Concilij, capo di stato maggiore del generale Pepe. Questo gesto di sottomissione alla gerarchia militare, provocò il disappunto di Minichini che tornò a Nola per incitare una rivolta popolare. Il 5 luglio, Morelli entrava a Salerno, mentre la rivolta si espandeva a Napoli dove il generale Guglielmo Pepe aveva raccolto molte unità militari. Il giorno seguente, il re Ferdinando I si vide costretto a concedere la costituzione.
Dopo pochi mesi, le potenze della Santa Alleanza, riunite in congresso a Lubiana, decisero l’intervento armato contro i rivoluzionari che nel Regno delle Due Sicilie avevano proclamato la costituzione. Si cercò di resistere, ma il 7 marzo1821 i costituzionalisti di Napoli comandati da Guglielmo Pepe, sebbene forti di 40.000 uomini, furono sconfitti ad Antrodoco dalle truppe austriache. Il 24 marzo gli austriaci entrarono a Napoli senza incontrare resistenza e chiusero il neonato parlamento.
Dopo un paio di mesi, re Ferdinando revocò la costituzione e affidò al ministro di polizia, il principe di Canosa, il compito di catturare tutti coloro che erano sospettati di cospirazione.
Guglielmo Pepe


La rivoluzione fu realizzata grazie alla collaborazione di alcuni alti ufficiali, tra i quali spiccava il generale Guglielmo Pepe, già combattente ai tempi della Repubblica Partenopea nel 1799. Da alcuni suoi scritti possiamo rivivere i momenti concitati della rivoluzione del 1820:
Avevo con me quattro reggimenti di cavalleria, quasi tutte le milizie della provincia di Avellino (circa 5.000), ed un battaglione di bersaglieri*. I carbonari in armi, ordinati in corpi sciolti, erano circa ventimila. Da Foggia attendevo il reggimento di cavalleria di Russo: cinquemila militi, e carbonari quanti più ne volessi. Mentre io dettavo istruzioni ai capi dei corpi, e studiavo come ordinare provvisoriamente alla meglio gli insorti, mi giunsero lettere del duca di Calabria e messaggeri del re, che mi assicuravano la concessione della costituzione da parte della Spagna. Quindi non vi era più bisogno di combattere.
Dopo la sconfitta del 1821, che pose fine ai moti di Napoli, Pepe andò in esilio. Fu poi protagonista della Prima Guerra d’Indipendenza, gli fu affidata da Daniele Manin la difesa della Repubblica di Venezia. Anche li ebbe la peggio contro la potente truppa austriaca. Esiliato in Francia, tornò in Italia e piu precisamente a Torino , dove mori nel 1855.

La Rivoluzione Piemontese, Santorre di Santarosa

Santorre di Santarosa

Anche il Piemonte si oppose alla Restaurazione. Lo fece tramite alcuni gruppi di idee liberali e borghesi che volevano maggiori libertà per la popolazione. Cercarono di realizzarle tramite il Re di Sardegna Vittorio Emanuele I, il quale invece era di tutte altre idee. Cercarono quindi una alleanza con un altro Savoia, di un ramo secondario della famiglia regnante, il Principe Carlo Alberto. Carlo Alberto si fece convincere e cosi, assieme ad uno dei principali ispiratori dei moti piemontesi, Santorre di Santarosa, la cospirazione ebbe inizio:
Il 6 marzo1821, durante la notte, Santorre e altri generali si riunirono nella biblioteca del principe, insieme allo stesso Carlo Alberto, per organizzare nei dettagli l’impresa che, secondo un accordo precedente, sarebbe dovuta iniziare nel mese di febbraio: nel corso dell’incontro, Carlo Alberto mostrò alcuni tentennamenti, soprattutto sulla loro intenzione di dichiarare guerra all’Austria, che portarono Santorre ad avere qualche dubbio sul principe e sulle sue vere intenzioni. Tuttavia Carlo Alberto lasciò intendere il suo appoggio, e per questo motivo Santorre e i suoi associati fecero pervenire il messaggio di prossimo inizio della rivolta ai reparti militari di Alessandria, che, il 10 marzo, diedero inizio all’insurrezione, seguiti subito dopo dai presidi di Vercelli e Torino. In quell’occasione fu emesso da parte dei generali insorti il famoso Pronunciamento, un proclama con il quale si decise l’adozione di una costituzione, improntata su quella spagnola di Cadice del 1812, che prevedeva maggiori diritti per il popolo piemontese e una riduzione del potere del sovrano. Ma il re, piuttosto che concedere il documento, preferì abdicare in favore del fratello Carlo Felice di Savoia, allora assente dal Piemonte. La reggenza venne così affidata al principe Carlo Alberto che, assunto l’incarico, concesse la Costituzione e nominò Santorre di Santarosa ministro della guerra del governo provvisorio.
Di ritorno nella capitale, il nuovo sovrano revocò la costituzione e impose a Carlo Alberto di rimettersi al suo volere, abbandonando Torino e recandosi a Novara, rinunciando definitivamente alla sua carica e alla guida del movimento di rivolta.Nella notte del 22 marzo, mentre alcuni, tra cui lo stesso Santa Rosa, annunciavano una prossima guerra contro l’Austria, Carlo Alberto fuggì segretamente a Novara abbandonando gli insorti al loro destino. Poche ore dopo Santorre, alla guida di un piccolo reparto, si recò nella città piemontese per tentare di convincere il principe e le sue truppe a tornare dalla sua parte, ma la missione si rivelò del tutto infruttuosa.
Privi di un appoggio, i costituzionali decisero di sciogliersi.
L’Austria inviò quindi delle truppe in Piemonte per ristabilire l’ordine e perseguire gli insorti. Santorre  fu costretto all’esilio, prima in Svizzera poi in Francia. La sua voglia di libertà però ebbe la meglio:
Nel frattempo, cominciò a coltivare l’idea di andare a combattere in Grecia per il movimento indipendentista locale, che mirava all’indipendenza dall’Impero ottomano ed alla creazione di un governo libero e moderno. Dopo lo scoppio della Guerra d’indipendenza greca, Santorre decise di lasciare l’Inghilterra per combattere per la libertà; indipendentemente dalla patria per la quale avrebbe combattuto, voleva morire per quello in cui credeva.
Mori nel 1825 proprio per difendere un’isola greca dall’esercito egiziano, durante la Battaglia di Sfacteria.
Per dare un’idea esatta del­le cause che provocarono la ri­voluzione piemontese, e per far­ne cogliere il vero carattere, bisogna ritornare indietro nel tempo, ad un’epoca me­moranda in cui la caduta dell’impero francese ridonò al Piemonte la sua esistenza politica e i suoi principi. Non v’è cuore piemontese che non abbia ser­bato ricordo del20 maggio 1814: mai Torino  vide spet­tacolo più commovente – quel popolo che si accalcava attor­no al suo re; quella gioventù impaziente di contemplarne le sembianze; quelle grida di gioia, quella cordiale esultanza dipinta in ogni vol­to!
Nobili, borghesi, popolani di città e di campagna, erava­mo allora uniti da uno stesso sentimento: avevamo le stesse speranze. Non più divi­sioni, non più tristi memorie. Il Piemonte non formava che una sola famiglia, di cui Vitto­rio Emanuele era il padre ado­rato.
Ma quel buon principe era attorniato da consiglieri inetti: lo persuasero che bisognava sta­bilire sulle vecchie basi la mo­narchia dei suoi avi. Così facemmo un passo indietro di mezzo secolo.
Fonti: Wikipedia

mercoledì 23 marzo 2011

Civitella del Tronto, ultimo baluardo borbonico


Civitella del Tronto - Fortezza 
Civitella del Tronto, nei pressi di Ascoli, è rimasta l’ultimo piccolo nucleo di resistenza borbonica nell’ex Regno delle Due Sicilie. Il 15 febbraio, dopo 102 giorni d’assedio e i più violenti cannoneggiamenti mai sperimentati sul suolo italiano, Francesco II di Borbone aveva proclamato la resa della fortezza di Gaeta, dove si era rifugiato dopo la sconfitta subita dall’armata di Garibaldi. Il 13 marzo s’è arresa la guarnigione della cittadella di Messina (circa 4.000 uomini), estremo baluardo borbonico in Sicilia. Civitella è stretta d’assedio dalle truppe piemontesi dal 26 ottobre 1860. La resa sembrava cosa fatta ieri sera quando, appena giunto da Roma, il generale borbonico La Rocca accompagnato da un ufficiale francese consegnava al comandante della guarnigione la lettera di Francesco II con l’ordine di deporre le armi e sgombrare la fortezza. Questa mattina alle sette, anziché arrendersi come concordato ieri, quel tale comandante, sergente maggiore Massinelli, ha fatto sapere di non fidarsi dell’autenticità della lettera. È stato dichiarato ribelle dai militari sabaudi, che hanno ordinato di riprendere il bombardamento. L’assedio continua, in condizioni pessime: il terreno è molle per la pioggia e la neve, le munizioni si trasportano a dorso di soldati.
 [Op. 23/3/1861]

domenica 20 marzo 2011

Quello che i neoborbonici non vi racconteranno mai - 2

 Proseguiamo con Castronovo, L'industria italiana dall'Ottocento a oggi, Mondadori


 I neoborbonici spiegano che il tonnellaggio totale delle navi ai tempi dei Borboni era molto elevato, ma non raccontano che "nonostante il sensibile aumento del naviglio, la maggior parte delle imbarcazioni era dedita alla pesca e al piccolo commercio costiero...si spiega pertanto come il tonnellaggio medio della flotta mercantile napoletana fosse soltanto un terzo di quello del Regno di Sardegna". Ricordano che la prima ferrovia italiana è nata nel napoletano, ma non ricordano che mentre le ferrovie inondavano il resto d'Europa, "a Napoli c'erano più chiacchiere che fatti" e che, come ricordava il ministro delle finanze De Ruggiero nel 1849 "non vi era quasi viaggio nel quale non si aveva a soffrire un sensibile ritardo, dovendosi di necessità chiamar quasi sempre i soccorso di un'altra macchina.. [a causa dello] stato deplorevole delle locomotive...quasi tutte inutili al servizio". E cosa pensare dei vari record del Regno delle Due Sicilie citati dai neoborbonici? Castronovo non li nega: "Napoli [aveva] la corte più fastosa, l'aristocrazia più agiata e sfavillante, l'esercito più numeroso, la marineria più consistente" ma contestualizza il tutto. "Tutt'intorno [c'erano] il deserto desolante dei latifondi, le campagne più povere e depredate, le strade meno praticabili, i contadini più sfruttati, la popolazione più analfabeta." Il confronto con l'Italia centro-settentrionale non lascia dubbi: altrove c'erano "maggiori potenzialità di sviluppo, in primo luogo per gli effetti positivi indotti dal rinnovamento sia pur parziale dell'agricoltura e dal rifiori del movimento commerciale, per l'esistena di numerosi corsi d'acqua in grado di azionare le prime macchine... inoltre le filande e gli opifici [della] fascia prealpina..potevano disporre di ampi circuiti commerciali lungo le vie di comunicazione" "In secondo luogo l'industria del nord poteva contare su un più alto indice di consumi interni: più articolato, meno ristretto era infatti lo scenario delle classi sociali e dei redditi famigliari. Infine la struttura urbana era più densa che nel mezzogiorno, più ricca di piccoli e medi centri".

tratto da http://econoliberal.blogspot.com/

giovedì 17 marzo 2011

Quello che i neoborbonici non vi racconteranno mai - 1


Oggi si celebrerà il150° anniversario della unità d'Italia, anniversario della firma decreto che sanciva la nascita del Regno d'Italia.

Qualcuno non gradisce. I leghisti odiano l'idea di un'Italia unita e dimenticano che il nucleo più consistente dei garibaldini partiti da Genova erano bresciani e bergamaschi. Ma anche al sud c'è chi non ama l'unificazione. Ineoborbonici credono che il regno delle Due Sicilie era una sorta di paradiso economico, trasformato in purgatorio se non proprio in inferno dai Savoia e dai governi dell'Italia unità.

Valerio Castronovo è un celebre storico italiano. Nel libro L'industria italiana dall'Ottocento a oggi (Mondadori, 1980) ci sono informazioni sufficienti a capire se il sud era l'isola felice descritta da alcuni neo-borbonici. Ne riporto alcuni passi perchè chi lo desidera si possa fare un'idea di cos'era davvero il sud al tempo dell'unificazione del paese.

"La più alta percentuale di popolazione dedita all'industria rispetto al resto del paese, che alcune statistiche attrinuivano al Mezzogiorno al momento dell'Unità, potrebbe generare false impressioni. In realtà l'economia meridionale accusava fin dalla prima metà del secolo accentuati sintomi di debolezza e ristagno. I motivi ..vanno ascritti alle condizioni particolarmente arretrate dell'agricoltura, gravata dalla sopravvivenza di estesi latifondi... nè le campagne meridionali avevano conosciuto lo sviluppo di grandi operre di bonifica, dissodamento e di sistemazione idraulica, come era avvenuto in val padana e in alcune zone della Toscana".

"Non si era avuto al Sud un processo reale di trasformazione economica e sociale... i nuovi ceti emergenti erano non meno riluttanti ... a incrementare gli investimenti e a modificare i vecchi contratti di colonìa ... fondati sullo sfruttamento oppressivo dei contadini."

"La sopravvivenza di un'oligarchia poco incline a ...rinnovare le tecniche di lavorazione agì da freno anche per lo sviluppo di altre attività economiche ... [perpetuando] il carattere eminentemente speculativo del sistema creditizio e del commercio agricolo, monopolizzati da gruppi d'affaristi le cui operazioni [vettovagliamento truppe e appalto di monopoli dello Stato] gravavano pesantemente sulle finanze pubbliche e sottraevano risorse ai settori più dinamici".

"In questa situazione ... l'attività industriale aveva presto assunto risvolti speculativi. Ciò valeva in particolare per l'industria cotoniera... i progressi nella coltivazione del cotone.. avevano indotto alcuni commercianti svizzeri a stabilire varie manifatture [in alcune zone della Campania], protetti dopo la Restaurazione dal governo borbonico, che aveva loro accordato un inasprimento delle tariffe doganali... ma le loro iniziative non avevano fatto da battistrada a una più ampia diffusione diffusione dell'industria tessile. Il monopolio sul mercato interno e altri privilegi di cui godevano le società svizzere avevano scoraggiato ulterori investimenti nella lavorazione del cotone...Scarsi rimasero i rapporti fra l'industria tessile [i macchinari arrivavano dall'estero e sfruttavano il basso costo del lavoro per esportare i prodotti all'estero]"

"L'industria meccanica [è] cresciuta in gran parte non tanto sulla base di investimenti privati, quanto sulla protezione e sui contratti sottoscritti dal governo. Nel 1860 l'officina di Pietrarsa era seconda per entità solo a quella di Sampierdarena...tuttavia in un periodo in cui in Liguria, Piemonte e Lombardia il protezionismo doganale non sorreggeva più da tempo le fortune di officine meccaniche e di costruzioni marittime, a Napoli l'industria meccanica continuava a vivere esclusivamente grazie ai pesanti dazi stabiliti sui prodotti esteri."

"Malgrado le sue dimensioni, essa non fu in grado di generare nuova domanda o di promuovere tutt'intorno un tessuto connettivo di nuove imprese sussidiarie".
tratto da http://econoliberal.blogspot.com/

domenica 13 marzo 2011

A chi ha giovato davvero l'Unità d'Italia?

Scritto da: Dino Messina alle 11:24 del 13/03/2011

Se consideriamo anche le altre grandi celebrazioni, il cinquantenario nel 1911 e il centenario nel 1961, dobbiamo ammettere che questo centocinquantesimo coincide con il periodo di maggiore messa in discussione dell’Unità. Complici due visioni antagoniste che si nascondono sotto i nomi di questione meridionale e questione settentrionale e che, persa ogni istanza nazionale, hanno conservato soltanto un’accezione rivendicativa. Come se le ragioni del Sud fossero sempre in contrapposizioni a quelle del Nord. E viceversa. In una gara a chi sia convenuta meno l’Unità d’Italia, alimentata da una letteratura storiografica spesso basata su dati falsi, che dipinge ora un Regno delle due Sicilie come una delle aree più prospere d’Italia ora un Nord che ha dovuto rallentare la sua corsa verso l’Europa a causa della palla al piede del Sud arretrato. Chi ha davvero ragione in questa contesa? È possibile onestamente rispondere alla domanda a chi sia davvero convenuta l’Unità d’Italia?

«Stando alle statistiche più recenti, il quadro è meno scontato di quanto si possa pensare — risponde Piero Bevilacqua, docente di storia contemporanea alla Sapienza di Roma e fondatore dell’Istituto meridionale di scienze sociali —. Nel 1861 i contadini del Sud e quelli del Nord erano ugualmente poveri ma quel che è più interessante è che al momento dell’Unità il saggio reale dei salari negli Stati italiani era diminuito rispetto al livello del 1700. Una statistica sui lavoratori edili parla di una diminuzione dei salari vicina al 40 per cento. Nel 1871 il reddito pro capite nell’industria del Nord era del 15 per cento superiore a quello delle industre nel Sud, mentre nel 1891, il reddito pro capite tra i contadini del Sud era del dieci per cento superiore a quello del Nord. Una situazione equilibrata, nella quale vanno considerate le differenze delle varie regioni all’interno della grandi macro aree: la ricca Lombardia ha una storia diversa dall’arretrato Veneto, così come la Campania o la Sicilia erano più sviluppate rispetto alle poverissime Basilicata e Calabria. Il vero divario da considerare resta comunque quello dell’Italia intera con il resto dell’Europa sviluppata, i cosiddetti Paesi first comers che avevano oscurato il primato raggiunto dagli italiani nel Cinquecento grazie all’edificazione degli Stati nazionali».

Il dualismo italiano, secondo Bevilacqua, comincia a manifestarsi negli anni Ottanta dell’800, con la creazione del triangolo industriale e si accentua a mano a mano sino a raggiungere il picco nel 1951, quando, hanno scritto Paolo Malanima e Vittorio Daniele in un articolo per la «Rivista di politica economica» del 2007, il Mezzogiorno contribuiva soltanto al 22 per cento della produzione aggregata nazionale, sebbene in esso vivesse il 37 per cento degli italiani. Il divario, diminuito dopo il 1973, si è aggravato negli anni Novanta del Novecento: «Il prodotto pro capite del Sud rispetto al Nord passa dal 66 per cento del 1973 al 56 del 1995-97, per poi recuperare modestamente e attestarsi al 59 per cento nel 2004» scrivono Malanima e Daniele. Secondo Bevilacqua, «le statistiche e una ricerca storica non orientata da ideologie recriminatorie» possono farci affermare che «l’Unità è convenuta soprattutto alle grandi industrie del Nord che hanno trovato nel Sud un tranquillo mercato per il consumo dei beni. Senza contare il contributo offerto dalle rimesse degli emigranti grazie alle quali la lira faceva aggio sull’oro». Per Bevilacqua, dunque, non si può dire che il Sud sia «stato la palla al piede» del Paese, anche considerando contributi non misurabili come le opere di grandi scrittori e pensatori, da De Sanctis e Verga a Croce e Pirandello.

Giulio Sapelli, ordinario di storia economica all’Università statale di Milano, già direttore di ricerche all’Ecole des hautes études en sciences sociales di Parigi, ha una visione diversa: «L’Unità d’Italia — dice — è certo convenuta al Sud quanto al Nord anche se la costruzione di uno Stato non ha significato la creazione di una nazione che è comunità di destino. I grandi Stati europei hanno edificato prima le fondamenta e le mura, poi il tetto. Noi abbiamo cominciato dal tetto con una lingua di ceto che non è mai diventata cultura del popolo e quindi economia, secondo l’equazione di Adolph Berle. Un Paese così non poteva che avere un’economia divisa, dove a guadagnarci di più è stato il Sud. E mi riferisco non solo all’inserimento del Mezzogiorno in un contesto nazionale moderno ma anche, banalmente, alle risorse drenate dal Nord al Sud. Ci si è mai chiesti perché il divario tra Nord e Sud si è allargato proprio quando è aumentata la spesa sociale a favore di quest’ultimo? Forse avevano ragione i fisiocratici, quando distinguevano tra regioni parassitarie e regioni produttive».

Per Giuseppe Berta, professore di storia contemporanea alla Bocconi e autore nel 2008 di una saggio intitolato «La questione settentrionale» (Feltrinelli), Sud e Nord avrebbero avuto un destino ben più misero senza l’Unità: «Come avrebbe reagito il Regno borbonico alla crisi di fine Ottocento quando cominciarono le grandi migrazioni e si fece sentire la concorrenza delle derrate agricole provenienti dalla Russia e dall’America? Del resto, il Nord non avrebbe potuto agganciarsi alla grande espansione internazionale come fece l’Italia in età giolittiana né partecipare da protagonista al miracolo economico del secondo dopoguerra». Il fatto è, osserva Berta, che Milano ha sempre avuto il vezzo di maledire il contesto unitario, come dimostra il «Viaggio in Italia» di Guido Piovene (Mondadori, 1957). Un fatto retorico che non ha impedito di coglierne i vantaggi.

Autore di una «Breve storia dell’Italia settentrionale» (Donzelli, 1996), e del recente «Gli Stati italiani prima dell’Unità» (il Mulino), Marco Meriggi, professore alla Federico II di Napoli, oltre a considerare i dati quantitativi (nel 1860 il reddito medio pro capite in Italia era il 70 per cento rispetto a quello francese e il 45 per cento di quello inglese, la siderurgia del Settentrione rappresentava lo 0,46 della produzione britannica mentre quella del Mezzogiorno era dello 0,04) si è chiesto da cosa sia nato nel Sud quel sentimento anti-settentrionale che è speculare all’anti-meridionalismo del Nord. «Il Risorgimento — osserva Meriggi — l’hanno fatto soprattutto i settentrionali, e i grandi eventi dell’Unità sono avvenuti al Nord». Ciò non ha impedito che molti vantaggi fossero raccolti al Sud, dove nel 1861 l’85 per cento della popolazione adulta era analfabeta, mentre in Piemonte il 50 per cento sapeva leggere e scrivere. È vero che con i Borbone si pagavano meno tasse (nel 1859, 16,11 di lire per abitante contro le 24,45 del regno sabaudo), ma è anche da considerare quanto poco si spendesse per il bene pubblico: nel Regno delle due Sicilie 0,23 lire pro capite per l’istruzione contro le 0,60 del Regno di Sardegna. Senza considerare la rete stradale: 126 chilometri ogni mille chilometri quadrati nelle regioni del Centro Nord contro i 108 chilometri per chilometro quadrato nel Mezzogiorno e nelle isole.

Il Nord all’inizio drenò soldi al Sud perché più indebitato anche a causa dello sforzo bellico: il primo bilancio del regno unificato era di 2.402,3 milioni di lire, di cui 1.321 era il debito del Regno sabaudo, 657,8 quello del Regno delle due Sicilie, 219,3 della Toscana, 151,5 quello della Lombardia. Ma senza l’Unità, il Sud non avrebbe avuto strade e ferrovie, non sarebbe stato integrato in un contesto moderno, non avrebbe avuto contributi e assistenza. E del resto, il Nord industriale sarebbe stato privo di un mercato e della manodopera che costituì la linfa dello sviluppo. «Questione meridionale e questione settentrionale sono espressioni che sottintendono una penalizzazione — conclude Meriggi — e forse andrebbero superate a vantaggio di un’assunzione corale delle debolezze e delle responsabilità».
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