sabato 27 novembre 2010

Il «generale dei briganti» che tenne in scacco il Nord


DAL MOVENTE POLITICO FILO-BORBONICO ALLA CRIMINALITÀ COMUNE. FINÌ ALL’ERGASTOLO E MORÌ IN CELLA

Carmine Crocco instaurò a Melfi un governo provvisorio


Carmine Crocco Donatelli non era un ufficiale dell’ultimo re di Napoli, bensì un umilissimo pastore di Rionero in Vulture, che aveva disertato nel 1852 dall’esercito borbonico dandosi alla vita brigantesca. Perché l’avesse fatto, non è chiaro: con ogni probabilità, in seguito all’uccisione da parte sua d’un commilitone (o d’un superiore) per ragioni che ignoriamo. Nessun fondamento ha invece la storiella (da lui narrata nell’autobiografia e ancor oggi ripetuta da molti) del delitto d’onore, ch’egli avrebbe commesso per salvare la sorella Rosina, insidiata da un signorotto locale. Già nel 1903 Eugenio Massa, pubblicando le memorie del brigante, dimostrò che a Rionero non aveva avuto luogo nessun omicidio all’epoca e nelle circostanze indicate da Crocco.
Un gruppo di briganti


Pur non avendo mai ottenuto un grado superiore a quello di caporale, nel 1861 Crocco si faceva chiamare «generale di Francesco II» e assegnava galloni militari ai suoi più fidi collaboratori (tra cui Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco-Nanco). Né si trattava solo del frutto del suo temperamento megalomane, ché per davvero Crocco seppe dirigere con ferma disciplina militare e con abile visione strategica la formidabile masnada brigantesca, da lui creata con il sostegno e il finanziamento dei comitati borbonici. Nel giro di pochi giorni, Crocco conquistò militarmente numerosi paesi della regione del Vulture (il maestoso vulcano spento della Basilicata nord-occidentale), facendo il suo trionfale ingresso a Melfi la sera del 15 aprile 1861, acclamato dalla plebe e dai notabili del posto. Anche se la «reazione » non durò che poche settimane, presto domata dall’arrivo di truppe regolari e di guardie nazionali, il rivolgimento politico d’aprile segnò l’avvio d’una lunga sequela di furiose sollevazioni popolari contro il nuovo governo in altre province meridionali. La «reazione» nel Melfese fu l’inizio della sanguinosa guerra civile, che funestò il neonato Regno d’Italia, e diede l’abbrivio al «grande brigantaggio», protrattosi fino al 1865.

I fatti clamorosi della primavera 1861 mostrarono quanto fragili fossero, nel Mezzogiorno, le basi politiche dello Stato italiano appena sorto. Ma solo pochi mesi prima, alla vigilia dello sbarco di Garibaldi in Calabria, la Basilicata era stata teatro di ben altri avvenimenti, con la vittoriosa insurrezione contro i Borboni. Ancorché pochissimo nota, la rivoluzione lucana del 1860 fu una delle pagine più belle del Risorgimento. Il centro politico e l’anima del movimento risorgimentale in Basilicata, all’epoca della spedizione dei Mille, fu la cittadina di Corleto Perticara. Oggi questo nome non dice granché agli storici del Risorgimento. Eppure, in un articolo apparso il 21 settembre 1860 nella New-York Daily Tribune, Friedrich Engels seppe individuare proprio in «Carletto Perticara» (com’egli scriveva erroneamente) il centro del movimento insurrezionale in Lucania, basandosi sulle scarne notizie a sua disposizione.
Briganti in una stampa d’epoca


A Corleto, Carmine Senise e Domenico De Pietro reggevano le fila della cospirazione antiborbonica, tenendo i contatti con i liberali di Potenza e delle altre cittadine, nonché con i patrioti napoletani. Se l’obiettivo politico del comitato di Corleto s’ispirava al liberalismo moderato, i mezzi di lotta da esso scelti erano invece rivoluzionari. La provincia di Basilicata venne suddivisa in 10 gruppi operativi, ciascuno dei quali guidato da un responsabile. Grazie alla vasta rete organizzativa costruita dai patrioti lucani, tra luglio e agosto il regime borbonico cominciò a dissolversi in Basilicata dove, qua e là, venne a formarsi un doppio potere (quello ufficiale dei rappresentanti di Francesco II, e il nuovo, dei cospiratori liberali). Il 18 agosto, a Potenza, ebbe luogo l’insurrezione da tempo programmata: nel capoluogo di provincia, a dare man forte ai rivoltosi, confluirono le colonne di armati provenienti dagli altri paesi. Il giorno successivo venne formato, in nome di Vittorio Emanuele II e di Garibaldi, un governo prodittatoriale, guidato da Giacinto Albini e Nicola Mignogna. Un tratto peculiare della rivoluzione lucana fu la partecipazione di non pochi esponenti del clero al moto risorgimentale. Quando, a settembre, la brigata lucana sfilò a Napoli lungo la via Toledo assieme alle camicie rosse garibaldine, ai cittadini partenopei si offrì un bizzarro spettacolo: come narra il cronista, «fra gl’insorti spiccavano moltissimi frati e preti, portando la tricolore bandiera, ed avendo il Crocifisso ed il pugnale alla cintura».

L’avviso di taglia per Crocco (20 mila lire)


Crocco il quale, al momento dell’insurrezione d’agosto, era un piccolo bandito di strada, decise d’unirsi al movimento garibaldino, nella speranza di redimersi e di cominciare una nuova vita. Divenne guardia del corpo del nuovo sottintendente di Melfi, ed eseguì con zelo le missioni affidategli. Ma fu tutto vano. Il perdono promessogli non giunse; ed egli, deluso e incattivito, si diede ancora una volta «alla campagna».

La situazione generale era, nel frattempo, mutata. La mancata assegnazione delle terre demaniali ai nullatenenti e l’introduzione dell’invisa coscrizione obbligatoria disamorarono la povera gente dal nuovo governo; e la stolida e brutale reazione dei funzionari piemontesi al crescente malcontento popolare diede alimento alla propaganda borbonica. Anche il basso clero, che aveva simpatizzato per il moto risorgimentale, mutò atteggiamento in seguito alla improvvida legislazione antiecclesiastica del 17 febbraio 1861. Nella primavera 1861 i notabili filoborbonici trovarono il loro capitano di ventura in Crocco, vellicandone lo smisurato amor proprio e usandolo per i loro fini. Sulle prime, il pastore di Rionero, stregato dagli onori ricevuti e dalle mirabolanti promesse, credette davvero nel suo ruolo di «generale di Francesco II». Ma, ben presto, dopo la sconfitta della «reazione», egli prese ad agire per conto proprio, mirando soprattutto a salvare e consolidare il suo esercito brigantesco.
Crocco eroe popolare nelle tavole dei cantastorie (Immagini del museo «La Taverna R Crocc»)


Cessato il brigantaggio cosiddetto «politico»(ma il termine è improprio), le masnade di Crocco non furono animate da nessun ideale, neppure sociale. Solo nelle bande minori troviamo, a volte, forme di simbiosi con il mondo contadino; ma si trattava, per lo più, di frammenti dell’antico brigantaggio, fenomeno endemico delle province meridionali. Il nuovo e apocalittico brigantaggio postunitario, pur traendo anch’esso origine dalla secolare tragedia sociale del Mezzogiorno, trovò alimento nell’atteggiamento dei nuovi funzionari venuti dal Nord, incapaci di comprendere ragioni e mentalità locali. I piccoli focolai briganteschi, da sempre presenti, poterono così moltiplicarsi e ingrandirsi a dismisura, grazie al malcontento popolare e alla propaganda borbonica.

Condannato all’ergastolo nel 1872, Crocco morì nel 1905 nel bagno penale di Portoferraio. In carcere egli tenne una condotta irreprensibile, nella speranza di poter rivedere un giorno la sua Rionero. Non gli fu concesso. Lo Stato unitario, la cui insana politica era stata per molti versi responsabile della grande mattanza, mostrò con lui il suo volto più implacabile e ferrigno. Lo psichiatra Pasquale Penta, il quale visitò Crocco in carcere, scrisse di lui nel 1901 che non era un «folle morale» né un «delinquente nato»: era «capace di bene e di male, di generosità e di malvagità, di affetto e di collera cieca, che potevano mostrarsi o prevalere, a seconda le circostanze e gli uomini». Il professor Penta vide giusto: furono le circostanze storiche a fare di Crocco il più famoso e temuto masnadiero dell’Italia unita.
Autore del volume Carmine Crocco. 
Un brigante nella grande storia

Ettore Cinnella


27 novembre 2010

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