POLEMICHE
I nostri attuali problemi possono dipendere
dal non saper custodire e sviluppare radici e tradizioni
Il povero Mazzini fu, come si sa, alquanto sfortunato. L’idea dell’unità italiana,
che portava impresso un indelebile marchio di origine da lui, contro
ogni previsione si realizzò, ma fu gestita da altri, ed egli morì
clandestino e ricercato nell’Italia unita, che aveva sognato a lungo da
solo. Le sue idee politiche e sociali furono da socialisti, comunisti,
liberali derise come irrealistiche nell’ormai consolidato mondo
industriale. L’idea di nazione, altro punto fermo e forte del suo
pensiero, e da lui concepita in organica connessione con quella di
fratellanza dei popoli e di loro associazione a livello planetario, fu
ritenuta il punto di partenza del nazionalismo posteriore e delle sue
degenerazioni imperialistiche. La sua azione politica, costretta dai
tempi alla clandestinità e ad azioni anche violente, fu qualificata come
terroristica (e perciò Craxi gli affiancava Arafat e il terrorismo
palestinese, e ora si è visto, per noi a torto, un terrorista anche nel
Mazzini del film di Martone, Noi credevamo). La sua idea che i
popoli di loro iniziativa potessero e dovessero rivendicare, anche con
le armi, indipendenza e libertà, senza attendere concessioni altrui o
dall’alto, fu vista come spinta a un movimentismo irresponsabile e
inconcludente e causa di inutili spargimenti di sangue.
Da questa cattiva fama fu, inoltre, offuscato il suo senso di concretezza politica,
evidente nel governo della Repubblica romana nel 1849 e nel suo
prudente dissuadere da tentativi avventati (Gallenga, fratelli Bandiera,
Pisacane, Orsini), anche quando poi finì col favorirli. Il suo primo e
maggiore errore di valutazione in materia, ossia l’infelice spedizione
in Savoia nel 1834, rimase così, quasi un irredento peccato originale, a
caratterizzarne l’azione e le idee.
Un destino, insomma, non tanto da genio incompreso quanto da spirito avventuroso,
un po’ fanatico e un po’ scriteriato; un po’ ostinato, e di corte
vedute rispetto alla realtà, e un po’ frettoloso e velleitario nella sua
febbre di azione; un po’ predicatore, quasi da esercito della salvezza,
di austerità e di doveri, e un po’ ambizioso ed esclusivista nel suo
assiomatico protagonismo; un po’ orditore instancabile di trame,
congiure e rivolte, e un po’ solito a dirigere da lontano, assorto nelle
sue idee, il frenetico moto che fomentava.
Eppure, nonostante tutto, l’immagine di lui nei
tratti, consacrati sin dall’inizio, di apostolo della libertà dei
popoli e di una civiltà dei doveri dell’uomo, oltre che dell’unità
nazionale italiana, ha resistito. Le critiche e le negazioni, tanto
accentuate nel frequente e tanto spesso troppo facile revisionismo
antirisorgimentale e antiunitario dell’Italia di oggi, non sono riuscite
a deteriorare in misura determinante quell’immagine, trasmessa da una
lunga tradizione anche extra-europea. Ancora vive l’apprezzamento di
Mazzini quale «apostolo» delle idee di libertà e di democrazia, fautore
di un alto impegno etico-politico nella vita civile, all’insegna del suo
motto di unità di azione e di pensiero, e promotore instancabile dei
diritti dei popoli e delle nazioni (Luigi Compagna ha intitolato Theodor Herzl. Il Mazzini d’Israele, la biografia del padre del sionismo che ha scritto per l’editore Rubbettino, pp. 250, € 15).
Che
cosa concluderne? Soprattutto un’ulteriore sollecitazione a fare ancora
più conto della dimensione tutt’altro che solo nazionale di Mazzini.
Qualcosa, invece, per noi, sì. Ogni generazione, si sa, riscrive la
storia secondo le proprie esigenze e tendenze. Quando, però, la
riscrittura porta a tagliare o a negare radici e sviluppi che sono parte
non solo organica, ma, ancor più, fondante di un’identità e di una
tradizione, il problema non è più di valutazione del passato. Gli
italiani parlarono sempre, anche nel Risorgimento, dei problemi del loro
Paese e della loro gente con la massima disparità di vedute e di
giudizi. Ma che sorgesse un problema dell’identità italiana, come accade
da un po’ di tempo, sarebbe sembrato inverosimile. Rivedere e, al caso,
anche negare è legittimo, ma non attribuendone le ragioni agli italiani
di ieri e alle loro più o meno presunte malefatte risorgimentali e
unitarie. Questo problema è nostro. È bene che se ne parli fino a ogni
possibile conseguenza, ma sapendo pure che i nostri attuali problemi
possono dipendere anche, e magari molto, proprio dal non saper custodire
e sviluppare radici e tradizioni, che di questi problemi è sciocco,
dannoso e infecondo fare il capro espiatorio.
Giuseppe Galasso
10 dicembre 2010
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