Alla fine dell' Introduzione all' ampia antologia da lui curata e ora in uscita dalla Laterza, Nel nome dell' Italia. Il Risorgimento nelle testimonianze, nei documenti e nelle immagini, Alberto Mario Banti scrive di aver voluto trasmettere al lettore la visione di un Risorgimento come «un movimento ampio, ricco, complesso, contraddittorio», che appare «ancora oggi straordinariamente affascinante e degno di essere attentamente studiato, piuttosto che acriticamente giudicato, enfaticamente esaltato o liquidato senza appello». Meglio di così, alla vigilia della celebrazione del Centocinquantesimo dell' unità d' Italia non si sarebbe potuto dire. Lo studioso non vuole giustamente sapere del mito del Risorgimento in chiave semplificata e retorica. E perciò invita a considerare la «distanza storica che ci separa dal Risorgimento»: non già per lasciarlo da parte, ma per considerare quell' evento fondativo dell' unità italiana «con maggior freddezza e con minori passioni politiche (positive o negative)». Invita a guardare alle divisioni che opposero i repubblicani ai monarchici, i centralisti ai federalisti, i liberali ai democratici, i clericali prima al processo di unificazione e poi al nuovo Stato, che, appena costituito, si trovò a dover affrontare «una fase di furibonda guerra civile», quella del brigantaggio nel Mezzogiorno. Detto tutto ciò Banti pone la domanda cruciale (la domanda, appunto che avanzano le varie correnti anti-risorgimentali, a partire dai leghisti): se uno Stato nato da profonde lacerazioni interne non si presenti come «una compagine eticamente marcia dalle fondamenta»: e risponde acutamente che allora si dovrebbero «applicare le stesse considerazioni a qualunque altro Stato che incontriamo nell' Occidente contemporaneo» (e non solo). È questo l' approccio giusto, della ragione storiografica che riflette con un atteggiamento critico, al "problema Risorgimento", contrapposto a quello del facile e intellettualmente inutile mito celebrativo, culminato nella retorica fascista. Sono passati 150 anni dal 1861, che per un verso - come nota ancora Banti - «hanno effettivamente creato il senso dell' esistenza di una comunità nazionale italiana», per l' altro mostrano e continuano a mostrare quanto l' Italia sia stata e resti percorsa da ininterrotte e profonde disunità. Di qui gli interrogativi sul suo percorso. Orbene, non diamo però l' impressione che sia venuto solo ora chi prende finalmente a riflettere criticamente sul "problema Risorgimento"; poiché si iniziò a farlo sin dall' indomani del compimento dell' unità. Abbiamo alle spalle un robusto deposito di altissima qualità, che fece tutt' altro che suonare le trombe del facile mito. Si pensi a come tutto il pensiero dei meridionalisti da Pasquale Villari in poi fu un denso e diverso misurarsi sull' eredità lasciata dal Risorgimento; si pensi al dibattito suscitato dalla pubblicazione dei Quaderni di Antonio Gramsci, che oppose in primo luogo Rosario Romeo agli studiosi che al leader comunista si rifacevano, a quello acceso da Denis Mack Smith; e via dicendo. La discussione, critica e acritica, sulla nostra unificazione nazionale la si può vedere ripercorsa nelle pagine del classico volume einaudiano Interpretazioni del Risorgimento di Walter Maturi, pubblicate nel 1962 e recentemente nel saggio edito da Donzelli di Lucy Riall, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni. L' antologia curata da Banti si colloca quindi in una scia di interpretazioni che ben rispecchiano le persino opposte tendenze della storiografia. Due considerazioni finali. La prima per attirare l' attenzione sull' osservazione di Banti che la Lega si è proposta di promuovere essa stessa un suo «risorgimento», quello della Padania. A imitazione in un certo senso delle élite che, con una «invenzione» ideologica e politica, fecero nascere lo Stato nazionale, anche la Lega persegue il fine di inventare la sua nazione; dal che egli avanza l' ipotesi che essa possa essere considerata a suo modo «erede del nazionalismo risorgimentale». Lo studioso esorta a indagare. La seconda considerazione riguarda l' altra osservazione di Banti che gli sforzi di coloro che, come il presidente Ciampi (ma dobbiamo aggiungere il nome del presidente Napolitano), si sono fatti difensori del Risorgimento e dell' unità nazionale alla luce di un «neopatriottismo "buono"», rischiano col cedere al mito retorico di dar corda alle posizioni opposte degli anti-risorgimentali e dei nazionalisti di destra. Qui mi pare che si prema troppo l' acceleratore. Né l' uno né l' altro presidente - si vedano in proposito i recenti interventi di Napolitano su Cavour e in generale sull' unità italiana - hanno gonfiato il mito retorico. Essi hanno invece invocato - contro le divisioni e i contrasti attuali e quelli stessi ereditati dal 1859-61 - l' esigenza di far prevalere ciò che si definisce il "patriottismo costituzionale"; che è, direi, altra cosa. Discutiamo e ragioniamo, ma nella consapevolezza che l' unità del paese uscita dal Risorgimento con i suoi ulteriori sviluppi è l' unica storia che abbiamo, da cui non possiamo prescindere e da cui dobbiamo in ogni caso partire: certo con gli occhi bene aperti ai problemi della difficile unità italiana.
- MASSIMO L. SALVADORI
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