martedì 12 ottobre 2010

Posillipo nel 1800



Scritto da: Dino Messina alle 13:15
I centocinquant'anni dell'unità d'Italia saranno un'occasione persa se non si rifletterà sui problemi ancora aperti della nostra nazione. E' che con questo spirito che la Fondazione Corriere della sera ha organizzato una serie di incontri, da ieri sino al 10 febbraio, ogni lunedì sera, al teatro Grassi, ex Piccolo teatro, di via Rovello a Milano. Promotore dell'iniziativa è stato il presidente della Fondazione, Piergaetano Marchetti, ideatore e direttore scientifico degli incontri lo storico ed editorialista del "Corriere", Ernesto Galli della Loggia, che ieri sera ha tenuto la prima relazione, arricchita da filmati e lettura di brani, dedicata al tema Nord Sud nella storia del Risorgimento.
In una sala piena in ogni ordine di posti Galli della Loggia ha affrontato il tema ancora aperto della cosiddetta questione meridionale e ha polemizzato con quegli autori, in primis Pino Aprile, con il suo "Terroni", che sta avendo un notevole successo editoriale con la divulgazione di un'idea storica assolutamente sbagliata. Il fatto cioè che prima dell'unificazione il Regno delle due Sicilie fosse un Eden, "la terza potenza industriale d'Europa", lo definisce Aprile, che dall'unità del Paese ebbe tutto da perdere. "Non fu affatto così", ha sostentuto Galli della Loggia, citando alcuni dati. In questo blog siamo già intervenuti sulla materia ma è bene ritornarci.
Innanzitutto Nord e Sud, così come la maggior parte degli Stati prima dell'unità avevano economie scarsamente integrate: l'80 per cento del commercio avveniva non tra gli Stati italiani ma tra questi e il resto dell'Europa. Nel 1871 il Nord aveva il 54 per cento di analfabeti, contro oltre l'80 per cento del Sud. Se si considerano Lombardia e Piemonte, la scolarità primaria era pari al 90 per cento, mentre nel Regno delle due Sicilie arrivava al 18. Nel 1863 la rete stradale della Lombardia era di 28mila km mentre quella del Regno di Napoli, territorio molto più esteso, di 14 mila, la metà. E' vero cche al Sud si produceva tanto grano e olio (olio che per lo pù serviva non per condire l'insalata ma per l'illuminazione) e vino, ma la maggior parte del commercio era in mano a società straniere (in particolare gli inglesi controllavano l'esprtazione del Marsala in Sicilia). E via enumerando...
E' stato detto che la nazione italiana nacque monca per via del centralismo piemonense. In parte è vero ma bisogna anche ricordare, come ha fatto Galli dela Loggia, che su invito del geniale Cavour, Marco Minghetti, preparò un progetto di legge per uno Stato federale che fu ritirato quando cominciarono a venire dal Sud le notizie sulla rivolta dei contadini e dei briganti. E' vero che la repressione fu molto cruenta, ma come tutte le repressioni di guerriglia. Dopo la fine della repressione, durante la quale oltre alle migliaia di "briganti" e contadini morirono un numero notevole di soldati dell'esercito sabaudo, di più che in tutte le guerre risorgimentali, il fenomeno del brigantaggio venne rimosso. Se ne tornò a parlare molto tardi per sostenere la tesi di un Sud penalizzato dall'unità, speculare alla tesi leghista del Sud palla al piede del Nord virtuoso.  

mercoledì 6 ottobre 2010

Quel maestro di doppiezza che unì Napoli all’Italia


MINISTRO DI FRANCESCO II, FU IN CONTATTO CON CAVOUR. E ANALIZZÒ LUCIDAMENTE I GUAI DEL SUD


Liborio Romano usò anche la camorra per aiutare Garibaldi

Il suo giorno di gloria don Liborio Romano, protagonista quasi sconosciuto dell’Unità d’Italia, lo ebbe il 7 settembre 1860, a Napoli, seduto in carrozza alla destra di Garibaldi che entrava trionfalmente nella capitale del Regno delle Due Sicilie. Egli stesso, nelle memorie, così ricorderà l’episodio: «E Garibaldi, spettacolo sublime ed indescrivibile, entrava in Napoli, solo inerme e senza alcun sospetto; tranquillo come se tornasse a casa sua, modesto come se nulla avesse fatto per giungervi! ». Eppure quel momento di gloria, sarebbe stata anche la sua dannazione. E lo avrebbe inchiodato, più o meno giustamente, all' immagine del voltagabbana.

Nato a Patù, un paesino che non contava neppure mille abitanti, nei pressi del capo di Santa Maria di Leuca, Romano era il frutto di una contraddizione clamorosa: dopo un apprendistato politico nelle sette anti- borboniche, era stato nominato poche settimane prima, da Francesco II, ministro degli Interni. Una nomina decisa il 14 luglio 1860, quando Garibaldi, sbarcato a Marsala l’11 maggio, occupava già una parte considerevole del regno delle Due Sicilie. E voluta dal re di Napoli, presumibilmente, per lanciare un segnale estremo di svolta riformatrice.
Era stata molto difficile la vita di Liborio Romano.Figlio di famiglia che vantava la discendenza da un ramo dei Romanov, nel Regno di Napoli egli si fece la reputazione di avvocato «principe». Aveva avuto perfino l’ardire di difendere interessi vicini alla corte britannica contro i Borbone, costringendo il sovrano napoletano a un compromesso oneroso. Per le sue idee liberali, Romano aveva patito molti anni di prigione, e poi di esilio in Francia. Rientrato in patria, venne tenuto sotto vigilanza. Ma riuscì ugualmente a portare avanti l’attività forense. A corte, di lui, si guardava sempre con preoccupazione al grande ascendente sul popolo.
Francesco II salì giovane al trono. Mentre il Regno di Napoli si avviava allo sfacelo, egli attuò una mossa ardita, nominando (14 luglio 1860) ministro di polizia proprio Romano. Il disegno del re sarebbe stato quello di schierare un oppositore dalla propria parte.
L’ingresso di Garibaldi a Napoli: al centro, in piedi, Liborio Romano con il cilindro in testa accanto al Generale in divisa
Un aspetto importante della sua capacità politica, Romano lo mostrò da ministro borbonico.
Mentre Garibaldi avanzava, Cavour in una lettera dette atto al ministro borbonico «del suo illuminato e forte patriottismo» e della sua «devozione alla causa» nazionale italiana. Roba da mandare don Liborio davanti alla corte marziale; ma anche titolo di gloria nel processo unitario. In quel gioco, Romano riuscì a salvare la testa; ma vedremo che non potrà invece far valere i suoi meriti patriottici.
Sotto Francesco II, il ministero di Romano durò molto poco, eppure realizzò passi avanti nel regime delle prigioni. Poiché ebbe il problema di una forza pubblica insufficiente a fronteggiare la malavita, col consenso del re assunse perfino qualche camorrista a rinforzare la polizia.
Cavour
Cavour intanto fece clandestinamente arrivare a don Liborio un carico di fucili, affinché fossero utilizzati per la conquista di Napoli; per sbarcare quelle armi, servirono i camorristi che il ministro aveva assunto. Ma tutta questa disinvoltura, al nostro sarà fatta pagare nella futura attività politica e perfino nella postuma reputazione.
Per realizzare la conquista di Napoli, il nostro non volle però utilizzare i fucili di Cavour, ma scelse un’occupazione pacifica con l’ingresso trionfale di Garibaldi a Napoli (7 settembre 1860) e la camorra in funzione di ordine pubblico. Anche questa operazione, descritta dallo stesso Romano nelle memorie, venne utilizzata per spezzargli la carriera nel Regno d’Italia. A lui non servì neppure l’elezione alla Camera dei Deputati, ottenuta in ben nove collegi (1861), né la rielezione (1865).
Il viso di «Don Liborio»
Due possono considerarsi i meriti di Liborio Romano. Il primo, lo abbiamo visto, quello di avere reso possibile la conquista del Regno di Napoli senza spargimento di sangue. Il secondo, quello di avere indicato a Cavour, con un lungo memoriale, le caratteristiche peculiari e i problemi gravi dell’Italia meridionale. Egli avvertì che, se di quelle cose non si fosse tenuto conto per tempo, sarebbero sorti problemi molto gravi. Soltanto poco prima di morire, Cavour gli concesse un’udienza. L’artefice dell’unità d’Italia dovette sentirsi spiegare da un politico di provincia, che per di più veniva da un regno conquistato, che non sarebbe stato né giusto né opportuno ignorare i problemi del Mezzogiorno. Almeno questo lo si sarebbe dovuto ricordare come un punto importante della visione politica del nostro. A proposito della fiducia riposta in Cavour, Liborio Romano scrisse: «fatale illusione, inescusabile e tanto più grave errore», quello di avere creduto «di poter continuare a servire il Paese, attuando un indirizzo governativo di conciliazione e di concordia».
Cavour morì il 6 giugno 1861. Ma a Romano non daranno ascolto neppure i suoi successori. Egli ebbe una presenza assidua al parlamento unitario; ma non si può dire che essa sia stata incisiva. Commise, il nostro, un peccato imperdonabile, quando per stizza rese pubblici gli arricchimenti illeciti che si erano realizzati dopo l’Unità intorno alla liquidazione del debito pubblico borbonico. La visione costruttiva e ampia dei problemi del Mezzogiorno che egli aveva illustrato a Cavour, continuò invece a caratterizzare la sua azione parlamentare.
Romano non aveva attitudine per le alchimie politiche e neppure per le semplici mediazioni. Soprattutto non seppe capire la necessità, affinché le sue analisi fossero almeno conosciute, di inserirsi in uno schieramento politico. Ebbe l’incapacità di capire le posizioni diverse dalle sue, sognando un ruolo di leader indiscusso, che non poteva essergli consentito.
Uno schizzo di Romano che saluta Garibaldi
I suoi critici non vollero mai affrontare in modo spregiudicato il problema della doppiezza di Romano. La doppiezza è stata studiata, talvolta giustificata, soltanto con riferimento ai personaggi che raggiunsero vette molto elevate. Non fu il caso dell’ex ministro borbonico. Condannato, e perciò espunto: questo successe a Liborio Romano. Grande fu invece la complessità della sua figura politica: disconoscerlo, non è stato né giusto né utile. L’averlo cancellato ha avuto la conseguenza di negare alla conoscenza una parte importante della storia nazionale.
Nel Parlamento italiano Romano fu isolato; nei suoi interventi dovette perciò ripiegare su questioni sempre più secondarie. Se ne tornò in quel paesetto nel quale era nato, e vi morì. Dimenticato in Italia, in Francia invece ha ottenuto l’attenzione di un’intera colonna sulla grande enciclopedia Larousse.
professore di Storia all’Università di Bari e all’Università danese di Roskilde, autore de «L’inventore del trasformismo» dedicato a Liborio Romano
Nico Perrone
06 ottobre 2010

lunedì 4 ottobre 2010



 

Messina, Gaeta, Civitella. La fine dell’ultimo sovrano del Mezzogiorno. Battaglie e vendette poco note

L’esercito di Franceschiello una storia di onori e calunnie

I soldati provarono a resistere. Con la regina Maria Sofia di Baviera

Messina, Gaeta, Civitella. La fine dell’ultimo sovrano del Mezzogiorno. Battaglie e vendette poco note
L’esercito di Franceschiello una storia di onori e calunnie
I soldati provarono a resistere. Con la regina Maria Sofia di Baviera
«Fare la fine dell'esercito di Franceschiello»: era un modo di dire napoletano per indicare un completo e anche un po' ridicolo insuccesso. Nel verticale crollo borbonico del 1860 fu, al contrario, proprio l'esercito l'unico elemento del regime allora caduto a salvare l'onore della dinastia e del Paese, con un notevole esempio di valor militare e di fedeltà morale e politica.
Ingiusto, dunque, quel modo di dire, che ora, finalmente, non si usa più, come è bene che sia. L'esercito di Franceschiello, ossia di Francesco II di Borbone, ultimo sovrano del Mezzogiorno, meritava e merita rispetto.
Era stato mal comandato in Sicilia, ma si era battuto bene, mantenendo anche inespugnata la cittadella di Messina. Garibaldi giunse poi a Napoli senza colpo ferire, mentre l'intero personale borbonico, politico e amministrativo, «si squagliava», come suol dirsi, pressoché all'istante. Nello scontro decisivo che Francesco II decise di affrontare sul Volturno, l'esercito combatté con grande impegno, anche se, pur superiore di numero, non riuscì a prevalere sui 20.000 uomini di Garibaldi.
Coi suoi fedeli Francesco II si chiuse allora nella fortezza di Gaeta, dove il sopraggiunto esercito inviato da Cavour, al comando del generale Cialdini, lo assediò. Cavour voleva così dare il colpo di grazia all'ultima resistenza borbonica e prendere in mano le cose del Sud. Temeva, infatti, eventuali colpi di testa di Garibaldi (un attacco a Roma con conseguente intervento francese e ritorno in forze dell'Austria nella penisola, oppure un'azione conforme alle sue note idee repubblicane, minacciose sia per l'unità italiana sotto i Savoia, sia per le posizioni di liberali e moderati nel nuovo Stato nazionale). Garibaldi dimostrò poi coi fatti di non avere simili intenzioni.

Il re Francesco II e la regina Maria Sofia di Baviera
Con l'arrivo di Cialdini la partita era, comunque, chiusa. La resistenza di Gaeta, da una parte, mirava a suscitare una reazione europea all'espansione dei Savoia e alla formazione di un grande Stato unitario in Italia: reazione che non vi fu (e ciò va pure tenuto presente per giudicare quei fatti). Dall' altra parte, vi era sempre l'idea che si potesse ripetere il miracolo del 1799, quando l'appoggio popolare aveva consentito in pochi mesi a Ferdinando IV, bisnonno di Francesco II, il recupero del Regno. La resistenza di Gaeta fu accanita, animata anche dalla bella e balda regina Maria Sofia di Baviera, più energica e determinata del Re, un perfetto gentiluomo, scrupoloso e leale, ma certo poco idoneo a quelle prove, e durò per un bel po', ma a metà febbraio si dovette capitolare. Il Re e la Regina si rifugiarono a Roma. La cittadella di Messina si arrese il 12 marzo. A resistere rimase solo Civitella. Non vi era un grosso contingente. Il comandante, il maggiore Luigi Ascione, aveva ai suoi ordini all'incirca 500 uomini di varie armi e corpi, con 21 cannoni, 2 obici, 2 mortai e una colubrina in bronzo. Le forze degli assedianti, al comando del generale Ferdinando Pinelli, erano superiori e con armi migliori, fra cui cannoni rigati, di vario calibro, e 2 obici da montagna.


Luigi Mezzacapo
La resistenza di Civitella assunse rilievo, specie dopo la caduta di Gaeta, ancor più di quella di Messina, anche per i suoi echi internazionali, che però non furono, e non potevano essere, altro che di simpatia. Pinelli adottò misure durissime anche contro la popolazione civile, per cui nel gennaio 1861 lo si sostituì con il generale Luigi Mezzacapo, un ex ufficiale borbonico, passato a quello sabaudo quando Ferdinando II di Borbone si era ritirato dalla coalizione antiaustriaca degli Stati italiani nel 1848. Con lui l'assedio si fece più energico, sostenuto dal fuoco dei nuovi potenti cannoni a tiro rapido, e da forze armate crescenti, che giunsero a oltre 3.500 uomini. In realtà, piuttosto di un continuo bombardamento che di un'azione di assedio manovrata: alla fine, furono 7.800 i proiettili caduti sulla fortezza per circa 6.500 chilogrammi di esplosivo. Anzi, furono piuttosto gli assediati a condurre un'azione militare di qualche rilievo, fomentando atti di guerriglia nei paesi vicini e cercando di opporsi, dove si poteva, al plebiscito per l'unità italiana il 21 febbraio. Si riuscì pure a tenere qualche rapporto con Gaeta, d'onde giunsero lodi e incoraggiamenti, mentre il capitano Giuseppe Giovene, già capo della gendarmeria, fu promosso colonnello e sopravanzò l'Ascione, promosso solo a tenente colonnello.

Il palazzo del Governatore
Intanto, la caduta di Gaeta e, il 13 marzo, quella della cittadella di Messina toglievano sempre più ragione a quella resistenza. Gli ultimi giorni furono piuttosto convulsi. Anche da parte del decaduto Francesco II giunse, tramite il generale Giovan Battista Della Rocca, l'invito agli assediati a deporre le armi, ma nella fortezza non tutti lo accolsero, sicché il campo dei difensori si rivelò meno compatto di come parrebbe. Lo stesso Giovene propendeva per la resa. In effetti, la difesa di Gaeta e di Messina erano state opera di forze armate regolari ed erano state tenute sul piano strettamente militare. A Civitella la guarnigione operò insieme a molti civili e in rapporto con bande e legittimisti delle zone contigue. In questo senso la resistenza di Civitella è più importante, in quanto preluse a ciò che nel Mezzogiorno accadde nei seguenti cinque anni di guerra contro il brigantaggio e il borbonismo superstite, in un connubio non sempre chiaro, ma indubbio, fra loro. Finalmente, l'Ascione poté, però, stipulare la resa e il 20 marzo i bersaglieri entrarono in Civitella. Quel che seguì non fu un modello di comportamento liberale. Alcuni dei resistenti furono giustiziati, altri furono incarcerati ed ebbero varie sorti. La storica fortezza di Civitella, che risaliva al 1574, fu minata e fatta in gran parte crollare, danneggiando anche le mura angioine della città.


Veduta aerea della fortezza di Civitella
Intanto, il Regno d'Italia, proclamato tre giorni prima della resa di Civitella, muoveva i suoi primi difficilissimi passi. Nel 1866 vi fu la sua prima prova bellica, in alleanza con la Prussia, con la sfortunata guerra contro l'Austria. Se il legittimismo borbonico avesse avuto nel Sud la consistenza e il vigore che molti revisionisti o nostalgici attribuiscono ad esso, quello sarebbe stato il momento della verità. In quei frangenti la nuova Italia molto difficilmente avrebbe potuto resistere a una grande insurrezione o a una guerra civile in atto all'interno. Non accadde nulla di simile. Il miracolo del 1799 non si ripeté; e il nuovo Stato dimostrò una base etico-politica superiore al previsto e fu in grado di resistere alle sue grandi prove di allora e di dopo a Nord come a Sud. Anzi, proprio dopo il 1866 le agitazioni nel Sud declinarono decisamente.
Giuseppe Galasso
04 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA

Eroi, anti-eroi (e disgrazie) tra i banchi dell’Ottocento

Storia e segreti del libro. De Amicis assorbiva le cronache dei giornali inseguendo un progetto

Il sogno di una scuola nazionale, oltre le regioni e le classi 

Storia e segreti del libro. De Amicis assorbiva le cronache dei giornali inseguendo un progetto
Eroi, anti-eroi (e disgrazie) tra i banchi dell’Ottocento
Il sogno di una scuola nazionale, oltre le regioni
e le classi
Tra i compagni di Enrico, il diarista di «Cuore» ci sono il «povero gobbino», il bambino dai capelli rossi con il «braccio morto» e il piccolo eroe che si trascina per tutto il libro «con le stampelle». Cuore è anche una galleria di deformità infantili, di casi pietosi, ma è soprattutto un cupo messale di riti tristi. Qualche critico cattolico si lamentò che nelle pagine di De Amicis non entrassero le feste religiose. Edmondo ignora il Natale, ignora la Pasqua, ma celebra compunto il «giorno dei morti». E il libro gronda davvero di morte. Storia vecchia oramai. «Non era, con la penna in mano, tutto e solo pasta di zucchero il buon Edmondo», scriveva Antonio Baldini: e segnalava, venti anni prima di Arbasino, un «zinzinino di sadismo» in quel libro che tanti uomini illustri (da Pascoli a Turati) avevano ammirato e che persino lo stesso Croce aveva rispettato.
Storia vecchia, certo, ma difficile da modificare, a dispetto di qualsiasi riflusso. La morte rimane infatti il correttivo pedagogico più efficiente di De Amicis, la disgrazia agisce come ricatto immediato in «Cuore». Non solo. La morte non è un evento possibile e minacciato. Edmondo è attento ad aprire sotto gli occhi del proprio lettore quadri concreti di sventure, spettacoli tangibili di sangue. E la sua fantasia macabra può anche essere fastosa. Il tamburino sardo avrà una gamba amputata: ne vedremo il «troncone» fasciato di «panni insanguinati». Un giorno, proprio all'uscita della scuola, passa una «barella» con un «ferito del lavoro». Quell'uomo è «bianco come un cadavere, con la testa ripiegata sopra una spalla, coi capelli arruffati e insanguinati»: perde «sangue dalla bocca e dalle orecchie». Chi porta la barella si ferma «un momento», passando davanti alla scuola perché è giusto che i ragazzi vedano bene, non paghi di quella «lunga striscia di sangue» che intanto rimane «in mezzo alla strada».


Nel centenario di «Cuore» (1986) sono venuti inviti discreti a rileggere questo libro con amore e con rispetto, come fece a modo suo Comencini per la tivù. Dopo la sfuriata degli anni Sessanta, con l'Elogio di Franti di Eco, c'è stato un intento comune a smetterla di trattare questo libro come un reagente della cattiva coscienza borghese, a ridargli il suo spessore storico, a riconoscergli un valore nel tempo. L'artefice di questo riscatto è stato Luciano Tamburini, a cui si deve l'edizione critica di «Cuore » per i classici di Einaudi. Tamburini, nel curare una mostra che si fece a Torino, seguì un curioso percorso tracciato per accostare le pagine deamicisiane ai resoconti dei giornali nelle cronache cittadine. Qualche esempio. Un pezzo stralciato dalla Gazzetta di Torino del febbraio 1881: «Vi sono certemiserie così gravi, così commoventi, che bisognerebbe non avere cuore per non compiangerle ed esser poveri per non soccorrerle. Margherita Robatto, piazza Statuto, sola col marito militare, lavorando assiduamente dalla mattina alla sera provvedeva alla meglio al sostentamento della sua famiglia. Ora, con tre figli, è costretta a vendere o impegnare il non strettamente necessario, perché un non filantropo padrone di casa la mise sul lastrico».

Appena ritoccato, con una cadenza un po' morbida o una vibrazione più toccante di linguaggio, questo brano potrebbe entrare nelle pagine del racconto di De Amicis. Tamburini segnala la frequenza alta di «disgrazie» registrate dai giornali, rende conto di notizie sui «feriti del lavoro», dà ragguagli statistici sulla scuola, sulle classi folte, sugli stipendi bassi dei maestri; riproduce persino la cronaca di una premiazione di fine d'anno degli allievi: una cronaca che appare vicinissima a un brano colorito di De Amicis. Tamburini insomma vuole suggerire che il pietismo spesso rimproverato a Cuore ha un riscontro nella realtà del tempo.

Ma c'è un trucco di Edmondo. Perché questo diario, scritto tra il 1885 e il 1886, è retrodatato al 1881-82? Le risposte probabili sono due. «Forse perché il 2 giugno 1882 si spense Garibaldi e ciò poteva riattualizzare la saga risorgimentale richiamando insieme i nomi di Vittorio Emanuele II, Cavour o Mazzini. O forse, ed è ancora più probabile, perché dopo il 1882 Torino avrebbe subito un'impennata e la realtà sarebbe apparsa meno quieta e trasognata di quanto De Amicis la volesse. Nel 1884 infatti si sarebbe aperta al Valentino la grande Esposizione Nazionale, che avrebbe dato conto di un fervida ripresa economica». E ciò con i problemi che la trasformazione comportava. L'analisi di Tamburini non registra infatti solo le «presenze» del reale, rende conto anche delle «assenze». Il confronto è assai istruttivo. La realtà del lavoro è decoro, dignità in «Cuore»: non c'è traccia tuttavia degli scioperi, pur frequenti in questi anni, come non c'è neppure un accenno al rapido svilupparsi a Torino della nuova civiltà industriale.

«Cuore» allora può ritrovare significato solo se rimesso rigorosamente nello scaffale ottocentesco: se considerato nella sua qualità di un tentativo generoso (sdolcinato quanto si vuole) di tracciare il sogno di una scuola nazionale che superasse diversità regionali e barriere di classe. E non importa che questo sogno sia stato poi smentito vigorosamente da altri suoi libri più graffianti sulla scuola e soprattutto da Amore e ginnastica riproposto da Calvino. Nel libro protagonista non è più l'esangue maestrina dalla penna rossa, ma un'insegnante di educazione fisica dal «corpo giovanile di guerriera »: una «vergine inviolata» che accende i sensi sopiti di un irreprensibile ragioniere baciapile. Non c'è più qui un manipolo generoso di maestri zelanti capaci d'ogni sacrificio, ma una schiera di «impiegati » pigri, attenti a ogni possibilità offerta dal «regolamento » di praticare un furbo assenteismo. Non più una società sterilizzata nel perbenismo conformista, un mondo asettico del «cuore», ma al contrario un universo contagiato dai microbi del sesso, svelato nella sua realtà meschina. Insomma un gustoso «anti-Cuore»: una deliziosa caricatura. Anche questo è cronaca del tempo. 
Giorgio De Rienzo
04 ottobre 2010

Quei giovani intellettuali che presero il moschetto

Toscana e dintorni. Non solo Cavour e diplomazia, ci fu un movimento di grandi dimensioni

La causa patriottica di migliaia di uomini e donne

Primavera del 1848. Studenti universitari di Pisa o di Siena, giovani popolani e borghesi di queste e di altre città toscane, si stanno arruolando volontari per affiancare i reparti regolari del Granducato che hanno l'incarico di muovere verso i confini dello Stato, e forse di spingersi persino nella Pianura Padana all'attacco dell'esercito austriaco. Gli spostamenti delle colonne toscane sono scanditi da canti marziali: «All'armi ne chiama / l'italica terra: / Evviva la guerra! / Vittoria o morir!»; oppure: «Addio, mia bella, addio / L'armata se ne va; / Se non partissi anch'io / Sarebbe una viltà! / Tra quanti moriranno / Forse ancor io morrò; / Non ti pigliare affanno, / Da vile non cadrò». Col passare dei giorni qualcuno dimentica le esibizioni di coraggio dei primi momenti e torna indietro, magari dando ascolto alle lettere accorate di preoccupatissimi genitori. Ma c'è chi non ha nessuna voglia di scherzare: c'è chi vuole partecipare a tutti i costi a una guerra che sente come assolutamente necessaria per la propria integrità etico-politica, manifestando i suoi sentimenti patriottici con toni talora spavaldamente splatter («Addio! Ho giurato di non tornare a Prato se non portando una testa di tedesco infilzata nella mia baionetta »: così scrive un volontario alla madre). I coraggiosi che vanno avanti sono rincuorati dall’entusiasmo della gente che abita nei paesi che attraversano mentre si muovono verso nord. Per Giuseppe Montanelli, giovane professore dell'Ateneo pisano e volontario lui stesso, questi entusiasmi non sono una sorpresa. Da mesi ormai la Toscana è in subbuglio: nel 1847 è stato tutto un susseguirsi di manifestazioni pubbliche in lode di Pio IX o delle riforme annunciate o realizzate. Delle tante manifestazioni Giuseppe Montanelli ne ricorda una in particolare, tenuta a Pisa il 6 febbraio 1847: «Il cielo era a tempesta. Quel magnifico anfiteatro del Lung'Arno, nel cui centro abitavo, era tutto ornato di bandiere. Domandavo se, come ora in festa, ci ritroveremmo insieme al pericolo.

Tavola di Quinto Cenni: uniformi dei volontari toscani
(Civiche raccolte storiche-Museo Risorgimento, Milano) 

Chiedo alle madri e ai padri se manderanno al campo i figliuoli, e la turba rispondeva: sì. Chiedo ai preti se benediranno gli eserciti, se suoneranno a stormo le campane; e ancora quella santa promessa: sì, sì, giuriamo! allora ripresi io: vi saremo tutti. E le braccia alzate, le mani stese, le guancie rigate di lagrime, per tre volte tutti rispondeva la moltitudine con grido immenso e concorde che mi suona ancor dentro ». Tutti forse no; ma molti sui campi di Lombardia alla fine ci arrivano per davvero, per combattere tenacemente contro gli austriaci il 29 maggio tra Curtatone e Montanara. E tra gli altri c'è anche il ventenne Elbano Gasperi, che, miracolosamente illeso ma con i vestiti a brandelli per lo spostamento d'aria causato dallo scoppio di un cassone di polvere, continua a correre come un invasato, seminudo com'è, dall'uno all'altro dei due cannoni che gli sono stati affidati, senza smettere di sparare contro i nemici. Ora, può darsi che questo episodio sia stato anche assai enfatizzato nelle narrazioni del post-battaglia; ciò che è indubbio, invece, è che lo scontro con gli austriaci è durissimo e che diverse centinaia di toscani restano sul campo, feriti o colpiti a morte.
Cristina Belgioioso
Evento minore di un Risorgimento senza vera partecipazione, questo toscano? Nient'affatto. Se solo, anche in forma panoramica, si alza lo sguardo all'intera penisola, e si osserva quello che succede nel 1846-47, si può constatare che alle manifestazioni toscane si accompagnano simili manifestazioni che vengono organizzate nel Regno di Sardegna, nel Ducato di Lucca o nello Stato Pontificio. E se poi si guarda all'incredibile sequenza di eventi che scandiscono il 1848-49, con le insurrezioni di Palermo, e poi con quelle di Milano e di Venezia, capaci di mettere in scacco fortissime guarnigioni militari austriache (dove, come ci ricorda Cattaneo per Milano, a morire sulle barricate non sono solo borghesi o intellettuali, ma soprattutto «operai», e dove l'audace Cristina di Belgiojoso guida a sue spese 180 volontari reclutati a Napoli); se si guarda alle insurrezioni nei Ducati padani; alla strenua resistenza di Brescia all'aggressione austriaca; alla costituzione di un governo virtualmente repubblicano in Toscana; alla proclamazione a Roma di una Repubblica, alla cui difesa partecipano volontari che arrivano da varie parti della penisola; e se si sfoglia la quantità di giornali, fogli volanti, appelli, proclami che circolano incessantemente in questi due anni: ebbene si deve concludere che molte e molte migliaia di persone, uomini e donne, hanno partecipato attivamente, in una forma o nell'altra, ad azioni politiche ispirate da un'idea nata da poco, ma capace di toccare in profondità il cuore e la mente di molti, ovvero l'idea nazional-patriottica.
Una stampa di Elbano Gasperi a Curtatone

In realtà, se dall'osservatorio del 1846-49 guardiamo sia indietro che avanti, non possiamo che trarre altre conferme. Si stima che gli affiliati alle sette carbonare, e poi alla Giovine Italia, siano stati diverse migliaia. I volontari che nel 1859 partono da varie parti d'Italia per andarsi ad arruolare a Torino nel 1859 sono sicuramente almeno 16.000 (e forse addirittura 24.000), mentre a inizio 1859 gli effettivi dell’esercito piemontese sono poco più di 50.000. E 20.000 sono i volontari che da maggio a ottobre 1860, partendo dall'Italia centro-settentrionale, si uniscono a Garibaldi nell'impresa meridionale. E a costoro, che sono l'avanguardia combattente del movimento, si devono poi affiancare i molti altri uomini e donne che non avendo l'età o il coraggio per mettere a repentaglio la propria vita, nondimeno incoraggiano i combattenti, li guardano con simpatia, oppure leggono o ascoltano o ammirano con passione i best seller letterari, musicali, iconografici di ispirazione patriottica (prodotti da autori del calibro di Foscolo, Manzoni, d'Azeglio, Guerrazzi, Verdi, Hayez …).

Un opuscolo commemorativo
È poco, tutto ciò? È irrilevante? Poco in una terra di diffuso analfabetismo, dove lo stato delle comunicazioni non facilita il movimento né delle persone né delle idee? Dove, fino al 1846, tutte le polizie degli Stati esistenti fanno a gara per reprimere il diffondersi dell'idea nazionale? Francamente penso che si debba rispondere che no, non è né poco, né irrilevante. Penso che il movimento risorgimentale—pur diviso al suo interno da gravi e profondi dissensi sulla natura istituzionale del futuro Stato italiano — sia stato un movimento politico compatto nel condividere l'idea dell'esistenza della nazione italiana; e un movimento politico- culturale di grandi dimensioni, senza il quale l'efficace operazione diplomatica compiuta da Cavour nel 1858-59 non avrebbe dato altro frutto che una pura e semplice espansione territoriale del Regno di Sardegna verso la Pianura Padana, secondo un antico disegno della diplomazia sabauda. Senza la cultura patriottica, senza cinquant'anni di lotta politica, senza la formazione di una vasta opinione pubblica di orientamento nazionale, quella operazione non avrebbe avuto il senso che ha avuto: di essere cioè una tappa, insieme a molte altre, nel processo di costruzione di uno Stato nuovo per la nazione-Italia.
Alberto Mario Banti
04 ottobre 2010

«Una grande e bella battaglia»

SOLFERINO - DAGLI ARCHIVI FONDAZIONE CORRIERE DELLA SERA

SOLFERINO - DAGLI ARCHIVI FONDAZIONE CORRIERE DELLA SERA
«Una grande e bella battaglia»
«La baionetta ha fatto bene l’opera sua, ma l’artiglieria pure (...) Ora che la giornata è finita, e che possiamo tranquillamente discorrere, ci sentiamo pieni di contentezza per aver assistito a una così grande e bella battaglia». A scrivere è il generale conte Enrico Morozzo della Rocca, capo di Stato Maggiore dell’esercito sardo all’epoca di Solferino e San Martino. La lettera fu pubblicata dal «Corriere della Sera» del 15-16 ottobre 1893 (nell’immagine la prima pagina). Quando fu combattuta la sanguinosa battaglia tra franco-piemontesi e austriaci, il «Corriere» non c’era ancora, sarebbe nato solo 17 anni dopo, nel 1876. Ma il giornale riuscì a raccontare ugualmente la battaglia «approfittando» dell’inaugurazione del monumento edificato a San Martino in memoria di Vittorio Emanuele II appunto nell’ottobre del 1893. La lettera di Morozzo Della Rocca, contemporanea ai fatti narrati, era quello che oggi definiremmo «un arricchimento». Il pezzo principale fu affidato a Giovanni De Castro, non senza motivo: scrittore e storico, poi collaboratore assiduo del Corriere dal 1894 alla sua morte nel 1897, De Castro all’epoca di Solferino figurava, salvo improbabili omonimie, come redattore del giornale «La Patria», che uscì in un unico numero ora conservato al Museo del Risorgimento di Milano ed era in corrispondenza con Ippolito Nievo, nel 1859 garibaldino di stanza tra Bergamo e Brescia. Fin dai primi anni della sua esistenza, quindi, il «Corriere» sceglieva, per raccontare gli eventi che decideva di pubblicare, grandi firme che fossero anche «esperti» dell’argomento trattato. La prosa è quella immaginifica dell’epoca, ricca di «ardimentose pugne» dove «nell’ora meridiana ardente di gran luce, le nostre bandiere sventolano sulle vette insanguinate». Ma pur nell’esaltazione patriottica, De Castro non rinuncia a mettere in luce che il comportamento della leadership militare a San Martino non fu impeccabile. Troppa voglia di gloria e di venire a contatto con il nemico, con le unità impiegate a spizzichi e bocconi: «fretta ardimentosa ma erronea, vecchio errore del resto dei generali italiani». Insomma, una «bella battaglia» che si poteva combattere meglio.
Paolo Rastelli
04 ottobre 2010