lunedì 23 novembre 2020

Risposte al video di L. Giovannone sull'economia delle Due sicilie

https://www.youtube.com/watch?v=yvMtvxJ-pew

Vi sarebbe molto da dire in proposito. Per ora mi limito a confutare quanto quel signore scrive sulla finanza. Ricorre con relativa frequenza nella storiografia dilettantesca o nella pubblicistica il richiamo a quanto ebbe a scrivere Francesco Saverio Nitti in un suo saggio pubblicato nell’anno 1900, “Il bilancio dello stato dal 1862 al 1896-1897”, ripubblicato successivamente in “Scritti sulla questione meridionale”. Ciò che asseriva il Nitti è noto, cosicché non è necessario riprenderlo per esteso: in pratica egli sosteneva che il Mezzogiorno fosse stato svantaggiato dalle politiche economiche dello stato italiano per quasi un quarantennio, versando in tasse ed imposte più di quanto ricevesse come investimenti ed in generale risorse. Questa ipotesi era il cardine di quella, più ampia ed articolata, secondo cui la causa principale del dualismo economico nord/sud sarebbe stato proprio il drenaggio di risorse finanziarie dal mezzogiorno al settentrione. Il sociologo, economista e statistico Corrado Gini, conosciuto in tutto il mondo per il suo “coefficiente di Gini” tutt’ora utilizzato per misurare le disuguaglianze socio-economiche, analizzò l’ipotesi di Nitti nel suo saggio “L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni”, pubblicato nel 1910. Il Gini esaminò e smontò, pezzo a pezzo e con argomentazioni serrate di ordine matematico, quanto aveva sostenuto il Nitti. Questo illustre statistico ebbe modo di provare inoltre che lo scritto dell’importante politico e storico meridionalista era stato viziato da manipolazioni, per non dire falsificazioni. In ogni caso, il Gini poteva concludere che, dati statistici alla mano, il Mezzogiorno non aveva ricevuto dallo stato meno di quanto avesse versato nel periodo 1862-1897, anzi era avvenuto il contrario. Quanto sostenuto sul punto suddetto ne “L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni” non ricevette nessuna replica o contestazione, neppure dal Nitti stesso. Di fatto, chiuse la questione per quanto riguardava la distribuzione regionale delle risorse dello stato italiano nel suo primo quarantennio di vita. A distanza di oltre un secolo, si ritrovano però persone che riprendono i contenuti de “Il bilancio dello stato dal 1862 al 1896-1897”, ignorando del tutto il successivo studio del Gini del 1910. Zitara ad esempio, che è stato il tramite fra divulgatori puri e semplice quale Aprile o Del Boca ed il dibattito fra Nitti e Gini, si limitava ad osservare in modo sibillino (in “L’Unità d’Italia: nascita di una colonia”) che gli era difficile stabilire chi fra i due avesse ragione, perché l’argomento non era più stato ripreso da specialisti di storia delle finanze (sic!). Questo pubblicista gramsciano non si rendeva conto, o fingeva di non rendersi conto, che nessuno aveva più esaminato di nuovo la questione poiché il Gini aveva detto la parola definitiva, giacché i dati ed i calcoli da egli presentati sono apparsi umanamente incontestabili e difatti sono rimasti da allora incontestati. Non è neppure vero che il liquido posseduto dal regno delle Due Sicilie fosse pari ai 2/3 dell’intero capitale italiano. Basti un semplice dato statistico riferito alle società in accomandita italiane al momento dell’Unità. Esse erano 377, di cui 325 nel centro-nord, escludendo dal computo quelle esistenti nel Lazio, nel Veneto, del Trentino, nel Friuli e nella Venezia Giulia. Comunque, il capitale sociale di queste società vedeva un totale di un miliardo e 353 milioni, di cui un miliardo e 127 milioni nelle società del centro-nord (sempre prescindendo da Lazio, Veneto, Trentino, Friuli, Venezia Giulia!) e soltanto 225 milioni nel Mezzogiorno. Per fare un paragone, il totale della riserva finanziaria dello stato borbonico era pari a 443,2 milioni di lire; praticamente un terzo del capitale delle società per in accomandita del centro-nord. Le sole società in accomandita del regno di Sardegna avevano un capitale totale che era quasi doppio di quello dello stato borbonico: 755,776 milioni contro 443,2 milioni. Si tenga conto sempre poi che in questo calcolo sono escluse tutte le società per azioni del nord-est, poiché non era incluso nel 1861 nel regno d’Italia. Dati relativi alle società commerciali e industriali tratti dall'Annnario statistico italiano del 1864. 
Le 377 società anonime ed in accomandita censite in quegli anni per un capitale di 1 miliardo e 353 milioni erano così ripartite per numero e per capitale tra i vari Stati italiani:
 Antiche province - Numero - Capitale (Stati sardi)----------------- 157---------- 755.776 Toscana--------------------- 75 ----------- 425.047 Regno delle Due Sicilie -- 52 ----------- 225.052 Emilia----------------------- 39 ------------ 117.846 Lombardia ----------------- 56 ------------- 59.435 

Il divario è ancora più abissale se si considerano gli istituti di credito e commerciali, naturalmente privati: nel 1859 ne esistevano 377 nel regno di Sardegna contro i 56 del regno delle Due Sicilie. Il numero di questi istituti del reame borbonico era identico a quello della Lombardia (però diverse volte più piccola, sia geograficamente, sia demograficamente) ed inferiore a quello della Toscana (73). Complessivamente, gli istituti di credito e commerciali, nel 1860, vedevano nella sola area compresa fra Piemonte, Liguria, Lombardia e Toscana un numero quasi dieci volte superiore a quello dell’intero Mezzogiorno: 506 contro 56! La storiografia si ripartisce in quattro correnti principali nell’interpretazione delle cause del divario nord-sud. Le motivazioni principali sono: la politica economica; la geografia; la cultura; le istituzioni locali. La teoria della politica economica si ripartisce a sua volte in tre rami: l’eredità del malgoverno borbonico; l’ipotesi dello sfruttamento; cause congiunturali dovute a scelte sbagliate della classe dirigente. L’eredità negativa del malgoverno borbonico è riconosciuta in maniera pressoché unanime ed ha avuto fra i suoi sostenitori già Giustino Fortunato e Benedetto Croce. La spiegazione del divario quale presunto sfruttamento del nord sul sud è una teoria anacronistica, che è stata esaminata e superata da decenni, per merito anzitutto di Corrado Gini (il maggior statistico italiano) e specialmente di Rosario Romeo (ritenuto il maggior storico del Risorgimento). Coloro che ancora si focalizzano sulla politica economica nazionale quale causa, o meglio quale una delle cause del divario, non sostengono che essa sia stata mossa dall’intento di favorire regioni a scapito di altre, bensì ritengono che errori di scelta (del genere di quelli della Sinistra storica, classe dirigente per lo più meridionale, presi nella politica doganale) abbiano finito con l’avvantaggiare lo sviluppo settentrionale. Un altro esempio di questo viene portato dai sostenitori di questa corrente riguardo alla Cassa del Mezzogiorno ed in generale sulle politiche di intervento con leggi speciali e trasferimento di ingenti risorse dal nord al sud. Alcuni studiosi ritengono che questa tipologia di azioni, che ha cercato di favorire il Meridione e che è stato portato avanti sin quasi dall’Unità, abbia finito con il danneggiare il sud. La spiegazione di ordine geografico si può dire la prima ad essere avanzata assieme a quella del malgoverno borbonico, avendo avuto come suo primo teorico Giustino Fortunato patriarca del meridionalismo. Essa si sofferma su dati di fatto inoppugnabili: la minore presenza in percentuale di terre di pianura e fertili rispetto al centro-nord; la minora presenza di corsi d’acqua, che ha determinato minori risorse energetiche negli anni (fine Ottocento ed inizio Novecento) in cui l’impiego dell’acqua quale fonte energetica era assai importante per l’industria (è quanto afferma, fra gli altri, Luciano Cafagna); la posizione più decentrata e periferica rispetto ai centri della rivoluzione industriale. Questa spiegazione trova ampi consensi anche in anni recenti. Ad esempio, Vittorio Daniele e Paolo Malanima chiudono il loro libro sul divario Nord-Sud: «La Rivoluzione industriale e l’industrializzazione sono avvenute in Inghilterra e poi nell’Europa occidentale. Se fossero avvenute in Africa, le cose, per il nostro Mezzogiorno (e non solo per il Mezzogiorno!) sarebbero certamente state diverse». Anche fra studiosi stranieri questa interpretazione viene accolta, come ad esempio da Brian A’Hearn ed Anthony Venables. Il condizionamento negativo indotto dalla geografia appare quindi riconosciuto, in un modo od in un altro, sebbene esso non sia considerato quale l’unico fattore del dislivello di sviluppo. Le spiegazioni del divario quale dovuto a differenze nel capitale sociale e nelle istituzioni locali sono al contempo diverse fra di loro ma intrecciate. Esse hanno il merito di consentire un’analisi di lunga durata storica. La base comune di entrambe è la presenza, incontestabile, di una struttura sociale plurisecolare segnata dal sistema agrario latifondista e da un feudalesimo particolarmente radicato e persistente (formalmente, è scomparso solo con Murat), che ha portato sia ad un capitale sociale minore rispetto al centro-nord, sia ad una mentalità differente nelle istituzioni. La teoria che si sofferma principalmente sulla mentalità ha avuto quale suoi maggiori teorici due sociologi stranieri, Robert Putnam ed Edward Banfield. Il primo si è concentrato sul ruolo delle istituzioni politiche del centro-nord e del sud nel Medioevo e nell’era moderna, con la minore partecipazione consentita ai meridionali nella vita politica. Il Banfield con “The Moral Basis of a Backward Society” (New York 1958) invece ha esaminato principalmente la funzione delle strutture familiari e di clientela nella formazione di una mentalità determinata. La teoria che invece si focalizza sulle istituzioni locali, politiche ed economiche, trova anch’essa largo consenso in campo internazionale, con autori come Acemoglu e Robinson (D. Acemoglu D., J. A. Robinson, Why Nations Fail. The Origins of Power, Prosperity, and Poverty, London, 2012), oppure S. Engerman, K. Sokoloff , Institutions, Factor Endowments, and Paths of Development in the New World, «Journal of Economic Perspectives», 2000, 14 (3), pp. 217-232. Beninteso, l’elenco di autori che sostengono questa interpretazione è ben più lungo e comprende anche autori italiani, come Emanuele Felice. Le istituzioni politiche ed economiche locali sono il frutto di un processo storico ed influiscono in maniera diretta sulla crescita economica. Anche se la cornice istituzionale è dal 1861 la medesima, le istituzioni locali hanno funzionato e funzionano in maniera diversa, poiché nel Mezzogiorno la vita politica si fonda su un sistema clientelare molto più radicato che nel Centro-Nord (sebbene questo non ne sia esente), e di ciò se ne ha abbondante notizia sin dall’epoca borbonica. L’impostazione clientelare è in parte eredità della precedente amministrazione borbonica, in parte ed ad un livello più profondo e per un periodo di tempo più lungo, della struttura socio-economica meridionale. Il ruolo delle mafie è l’aspetto più appariscente e grave di un fenomeno che attraversa storicamente buona parte della società meridionale. Emanuele Felice nell’articolo “Italy's North-South divide (1861-2011): the state of the art” (pubblicato nel 2015), in cui riassume per sommi capi lo status quaestionis sulla questione meridionale non si sofferma neppure ad esaminare l’ipotesi «dello sfruttamento − del Sud da parte del Nord» che egli ritiene «il meno fondato fra quelli proposti (anche se forse il più popolare, perché meglio si presta a essere strumentalizzato per fini politici). La mia tesi è che vi sia stata un’alleanza fra le classi dirigenti del Sud e quelle del Nord e che la grande maggioranza dei cittadini meridionali è stata sfruttata, in primo luogo, dalle loro stesse classi dirigenti.» Questa ipotesi, vecchia e superata, è già stata confutata da Corrado Gini (il massimo statistico italiano, le cui analisi nell’ambito della ripartizione delle risorse da parte dello stato italiano nel primo cinquantennio rimangono a tutt’oggi incontestate) e da Rosario Romeo (il maggior storico del Risorgimento, che ha stroncato l’ipotesi marxista sulla genesi del divario nord-sud). Dopo il Romeo questa interpretazione difatti è stata praticamente abbandonata. Sono invece vive e vitali e trovano largo consenso altre spiegazioni: 1) il fattore geografico; 2) l’eredità del malgoverno borbonico; 3) la differenza di mentalità ovvero il capitale sociale; 4) il ruolo delle istituzioni politiche ed economiche locali, condizionate dal notabilato e dalla struttura clientelare, che affondano le loro radici nel ruolo del latifondo e del feudalesimo nel Mezzogiono; 5) fattori di ordine congiunturale ed endogeno, ossia legate all’economia internazionale; Si può ancora aggiungere che il Mezzogiorno ha sicuramente ricevuto dallo stato nazionale con investimenti molto più di quanto abbia dato con il prelievo fiscale, senza possibile dubbio. Esistono al riguardo le analisi di due sociologi ed economisti del calibro di Luciano Gallino e Luca Ricolfi, ma si tratta di un fatto noto e provato. In quanto agli istituti bancari del regno delle Due Sicilie, ossia il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia (erano due distinti) essi non scomparvero e non furono espropriati. L’unificazione finanziaria dello stato italiano fu più lenta che in altri settori. L’accorpamento di tutti i debiti pubblici avvenne già nel 1861 con “Il gran libro del debito pubblico”, mentre la moneta unica, la lira italiana, fu creata con la legge Pepoli nel 1862. Tuttavia quasi tutti i vecchi istituti bancari pubblici degli stati preunitari continuarono ad operare, ad avere la facoltà di stampare moneta valida per il nuovo regno ed anche ad esercitare concorrenza reciproca. Esistevano nel 1861: la Banca Nazionale, che derivava dalla fusione della Banca di Genova e della Banca di Torino; la Banca Nazionale Toscana; il Banco di Napoli; il Banco di Sicilia. Nel 1863 si aggiunse la Banca Toscana di Credito e nel 1870 la vecchia Banca degli stati pontifici divenne Banca Romana. Questa situazione fu regolamentata nel 1874 con una legge che attribuiva esplicitamente a questi sei istituti la facoltà di stampare moneta. La scelta di conservare in vita queste diverse banche non fu dovuta ad esigenze di pubblica utilità quanto alle pressioni degli azionisti ed ai gruppi di pressione regionali che non volevano perdere la loro banca di riferimento nel territorio locale. Il famoso scandalo della Banca Romana, dovuto in parte ad una estesa corruzione della classe politica in parte ad una specie di guerra finanziaria mossa dal papato contro l’Italia, condusse alla soppressione ed all’accorpamento di quasi tutti gli istituti autorizzati a stampare moneta. Nel 1893 nasceva così la Banca d’Italia dalla fusione della Banca Nazionale piemontese, della Banca Nazionale Toscana, della Banca Toscana di Credito, mentre la screditata Banca Romana di fatto fallita venne liquidata. Rimanevano attive ed autonome fra le vecchie banche derivanti dagli stati preunitari proprio il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia, che furono accorpati anch’essi nella Banca d’Italia soltanto nel 1933. L’unico importante cambiamento subito dal Banco di Napoli nei primi anni dopo l’Unità (per quanto mi risulta) è il suo passaggio da privato (di fatto) a pubblico, con la nazionalizzazione della quota azionaria di controllo che era in mano al ramo dei Rothschild di Napoli. L’accaduto è anzi piuttosto conosciuta dai biografia del casato dei Rothschild, poiché rappresentò una delle maggiori perdite finanziarie della loro storia e praticamente segnò la fine della loro attività in Italia. Il Risorgimento italiano condusse infatti alla nazionalizzazione della quota di controllo dei Rothschild sul Banco di Napoli, quindi al loro controllo delle finanze dell’Italia meridionale, ed all’espulsione dell’Austria dal Lombardo-Veneto, in cui sempre questa famiglia aveva avuto offerte ampie possibilità. Dopo il 1866, era rimasto ai Rothschild il rapporto privilegiato col papa, tanto che rappresentanti della famiglia d’ebrei viennesi cenavano assieme al cardinale Antonelli, ministro degli esteri vaticano ed autentica eminenza grigia del pontefice. Non è per nulla casuale che i Rothschild fossero in affari con tutti gli stati ostili all’Unità d’Italia. Il regno delle Due Sicilie aveva avuto le proprie finanze controllate dalla famiglia Rothschild, quindi da una famiglia di privati d’origine austriaca, sin dal 1821. In quell’anno, come è noto, un’invasione austriaca pose termine alla costituzione partenopea, da poco concessa. L’operazione militare fu richiesta a Lubiana direttamente dal sovrano Ferdinando I, d’idee assolutiste e del tutto illiberali ed incostituzionali. In cambio della restaurazione del potere assoluto del sovrano borbonico, l’Austria chiese ed ottenne il controllo indiretto delle finanze del regno. Di fatto, la spedizione militare fu finanziata dai Rothschild, i banchieri della casa d’Asburgo, e poi le spese così compiute ed i debiti della guerra furono addebitati al Banco di Napoli, ovvero al regno delle Due Sicilie. Insomma, re Ferdinando I chiese aiuto agli austriaci per abolire la costituzione (che aveva giurato di rispettare e difendere!) ed in cambio accettò che le spese dell’operazione militare con cui l’Austria invase il suo stato combattendo contro le forze liberali dell’esercito costituzionale fossero addebitate al regno delle Due Sicilie stesso. Questo contribuisce a spiegare perché la politica estera borbonica sia sempre stata da allora filo-austriaca: le loro finanze erano in mano ai Rothschild, legatissimi nei loro interessi economici agli Asburgo. Nel 1860, l’austriaco Adolf von Rothschild era il titolare del ramo “napoletano” della famiglia e si trovava a Napoli per i suoi affari. Fu colto alla sprovvista dall’avanzata di Garibaldi e scappò in fretta con Francesco II a Gaeta, ma si vide nazionalizzare tutta la propria quota al Banco di Napoli. Queste avvenne sia perché von Rothschild era legato a filo doppio all’Austria (quindi ad uno stato ostile all’Italia), sia perché le azioni possedute da questo speculatore a Napoli derivavano dall’invasione austriaca del 1821 e dall’imposizione del debito derivante al Banco stesso. Restavano a questo banchiere altre proprietà private in Italia meridionale, ma la perdita del legame privilegiato col reame borbonico e della quota di controllo del Banco partenopeo (che derivava dall’invasione austriaca del 1821) lo convinsero a venderle ed ad andarsene (1863). Sulla vicenda dei Rothschild a Napoli, cfr. F. Morton, The Rothschilds; a Family Portrait, Boston 1962; N. Ferguson, “The House of Rothschild: The World's Banker: 1849-1999”, New York 1999. Invece, una panoramica d’ampio respiro sulla storia della finanza pubblica in Italia si ritrova in F. A. Repaci, “La finanza pubblica italiana” (Zanichelli, Bologna 1962) I Rothschild operavano anche nello stato pontificio, a partire da papa Gregorio XVI che si era servito di questi banchieri per fronteggiare i pesanti deficit di bilancio. Furono specialmente, di questa famiglia, James Rothschild (della casa di Parigi) e Charles Rothschild (della casa di Napoli). Quest’ultimo ottenne anche un’alta onorificenza pontificia. Sul ruolo dei Rothschild nello stato pontificio D. Felisini, Le finanze pontificie e i Rothschild. 1830-1870, Napoli 1990; N. Ferguson, The World banker. The History of the House of Rothschild, London 1998.

domenica 22 novembre 2020

𝗟𝗲 𝘀𝗰𝘂𝗼𝗹𝗲 (𝗺𝗮𝗶) 𝗰𝗵𝗶𝘂𝘀𝗲 𝗱𝗮𝗶 𝗦𝗮𝘃𝗼𝗶𝗮 𝗱𝗼𝗽𝗼 𝗹’𝗨𝗻𝗶𝘁𝗮̀

 𝗟𝗲 𝘀𝗰𝘂𝗼𝗹𝗲 (𝗺𝗮𝗶) 𝗰𝗵𝗶𝘂𝘀𝗲 𝗱𝗮𝗶 𝗦𝗮𝘃𝗼𝗶𝗮 𝗱𝗼𝗽𝗼 𝗹’𝗨𝗻𝗶𝘁𝗮̀


di 𝗧𝗮𝗻𝗶𝗼 𝗥𝗼𝗺𝗮𝗻𝗼
“𝑀𝑜𝑙𝑡𝑖 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑐ℎ𝑒, 𝑠𝑢𝑏𝑖𝑡𝑜 𝑑𝑜𝑝𝑜 𝑙’𝑎𝑛𝑛𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑟𝑒𝑔𝑛𝑜 𝑏𝑜𝑟𝑏𝑜𝑛𝑖𝑐𝑜 𝑎𝑙𝑙𝑜 𝑆𝑡𝑎𝑡𝑜 𝑆𝑎𝑏𝑎𝑢𝑑𝑜, 𝑖𝑛 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝑆𝑈𝐷 𝑓𝑢𝑟𝑜𝑛𝑜 𝑡𝑒𝑛𝑢𝑡𝑒 𝑐ℎ𝑖𝑢𝑠𝑒 𝑙𝑒 𝑠𝑐𝑢𝑜𝑙𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑞𝑢𝑎𝑠𝑖 15 𝑎𝑛𝑛𝑖, 𝑖𝑛 𝑚𝑜𝑑𝑜 𝑑𝑎 𝑜𝑡𝑡𝑒𝑛𝑒𝑟𝑒, 𝑢𝑛’𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑎 𝑔𝑒𝑛𝑒𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑎𝑛𝑎𝑙𝑓𝑎𝑏𝑒𝑡𝑖 𝑑𝑎 𝑢𝑡𝑖𝑙𝑖𝑧𝑧𝑎𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑠𝑒𝑟𝑣𝑖 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑧𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛𝑑𝑢𝑠𝑡𝑟𝑖𝑎𝑙𝑖𝑧𝑧𝑎𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑛𝑜𝑟𝑑”.
Il Meme con questa palla rimbalza di sito meridionalista in pagina web nordista. Inutile dire che è, anche questa, una preziosa gemma del bufalificio scoopista. Analizziamo prima di tutto la condizione della scuola nel Regno delle Due Sicilie:"𝑙𝑒 𝑠𝑐𝑢𝑜𝑙𝑒 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑒 𝑒𝑟𝑎𝑛𝑜 𝑎𝑓𝑓𝑖𝑑𝑎𝑡𝑒 𝑎𝑙𝑙𝑒 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑖𝑛𝑐𝑒 𝑒 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑒𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑟𝑖 𝑎𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑢𝑛𝑖 𝑒 𝑔𝑟𝑎𝑣𝑎𝑣𝑎𝑛𝑜 𝑞𝑢𝑖𝑛𝑑𝑖, 𝑑𝑎𝑙 𝑝𝑢𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑣𝑖𝑠𝑡𝑎 𝑓𝑖𝑛𝑎𝑛𝑧𝑖𝑎𝑟𝑖𝑜, 𝑠𝑢𝑙 𝑏𝑖𝑙𝑎𝑛𝑐𝑖𝑜 𝑑𝑒𝑔𝑙𝑖 𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑙𝑜𝑐𝑎𝑙𝑖"
(Villari, 1957, p.39).
Si tenga presente questo importante punto, in quanto, quasi lo stesso identico sistema fu adottato con la 𝑳𝒆𝒈𝒈𝒆 𝑪𝒂𝒔𝒂𝒕𝒊 postunitaria, per la quale “𝑖𝑙 𝑑𝑜𝑣𝑒𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑣𝑒𝑑𝑒𝑟𝑣𝑖 𝑓𝑢 𝑎𝑡𝑡𝑟𝑖𝑏𝑢𝑖𝑡𝑜 𝑎𝑖 𝐶𝑜𝑚𝑢𝑛𝑖" (Scirocco, 1993, p.428).
Tutto uguale, quindi? No, tra le differenze c'era quella per cui, nel Regno d'Italia " 𝑙'𝑜𝑏𝑏𝑙𝑖𝑔𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑖 𝐶𝑜𝑚𝑢𝑛𝑖 𝑚𝑖𝑛𝑜𝑟𝑖 𝑟𝑖𝑔𝑢𝑎𝑟𝑑𝑜̀ 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑖𝑙 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑜 𝑏𝑖𝑒𝑛𝑛𝑖𝑜, 𝑚𝑒𝑛𝑡𝑟𝑒 𝑎𝑙 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑜 𝑒𝑟𝑎𝑛𝑜 𝑡𝑒𝑛𝑢𝑡𝑖 𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑢𝑛𝑖 𝑐𝑜𝑛 𝑜𝑙𝑡𝑟𝑒 4000 𝑎𝑏𝑖𝑡𝑎𝑛𝑡𝑖." (p. 428)
Questa prima legge sull'istruzione obbligatoria, che fu promulgata nel 1859 e poi estesa a tutta l'Italia unita, prescriveva pertanto due anni di Scuola elementare obbligatoria e gratuita per tutti. Ma mentre "𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑢𝑛𝑖 𝑑𝑒𝑙 𝑛𝑜𝑟𝑑, 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑛𝑑𝑜 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑓𝑙𝑜𝑟𝑖𝑑𝑖 𝑒 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑠𝑜𝑙𝑙𝑒𝑐𝑖𝑡𝑖, 𝑑𝑒𝑑𝑖𝑐𝑎𝑟𝑜𝑛𝑜 𝑎𝑙𝑙𝑜 𝑠𝑣𝑖𝑙𝑢𝑝𝑝𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑠𝑐𝑢𝑜𝑙𝑒 𝑒𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑟𝑖 𝑠𝑓𝑜𝑟𝑧𝑖 𝑎𝑑𝑒𝑔𝑢𝑎𝑡𝑖; 𝑎𝑙 𝑠𝑢𝑑 𝑠𝑖 𝑓𝑎𝑟𝑎̀ 𝑝𝑜𝑐𝑜 𝑜 𝑛𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑒𝑟 𝑚𝑎𝑛𝑐𝑎𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝑓𝑜𝑛𝑑𝑖 𝑒 𝑑𝑖 𝑣𝑜𝑙𝑜𝑛𝑡𝑎̀". (Mottola, 2014, p.130).
Quindi se capitò che qualche scuola non avesse i fondi necessari, la colpa fu, sia della condizione disastrosa locale a livello economico ereditata dal governo borbonico, sia della mentalità comunale contadina e medievale inculcata in secoli di regime. Secondo lo studioso 𝐌𝐚𝐫𝐜𝐨 𝐕𝐢𝐠𝐧𝐚, "𝑖𝑛 𝐿𝑜𝑚𝑏𝑎𝑟𝑑𝑖𝑎 𝑒 𝑃𝑖𝑒𝑚𝑜𝑛𝑡𝑒 𝑙𝑎 𝑠𝑐𝑜𝑙𝑎𝑟𝑖𝑡𝑎̀ 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑒𝑟𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑖 𝑎𝑙 93%, 𝑚𝑒𝑛𝑡𝑟𝑒 𝑛𝑒𝑙 𝑅𝑒𝑔𝑛𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝐷𝑢𝑒 𝑆𝑖𝑐𝑖𝑙𝑖𝑒 𝑎𝑟𝑟𝑖𝑣𝑎𝑣𝑎 𝑎𝑙 18% 𝑠𝑢 𝑑𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑎 𝑛𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑒𝑙 43%" (2019).
Il Piemonte avrebbe avuto sia un terzo delle Scuole Elementari di tutta Italia (8467), sia un terzo degli scolari italiani (361.970). All'opposto, "𝑁𝑒𝑙 𝑀𝑒𝑧𝑧𝑜𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑜 𝑢𝑛 𝑡𝑒𝑟𝑧𝑜 𝑑𝑒𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑢𝑛𝑖 𝑒𝑟𝑎 𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑝𝑟𝑖𝑣𝑜 𝑑'𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑡𝑖𝑝𝑜 𝑑𝑖 𝑆𝑐𝑢𝑜𝑙𝑎" (Vigna, 2019).
Nella Storia del sottosopra, invece, Il regno d'Italia avrebbe fatto chiudere, prodigiosamente, quelle scuole al Sud Italia, che i Borboni, però, non avevano mai, in modo diffuso, aperto!!! Persino il noto sito generalista Bufale.net (2018)si è dovuto abbassare a smentire, ed irridere, la favola delle scuole chiuse dai Massoni Savoia.
tratto da "𝗟𝗔 𝗚𝗥𝗔𝗡𝗗𝗘 𝗕𝗨𝗚𝗜𝗔 𝗕𝗢𝗥𝗕𝗢𝗡𝗜𝗖𝗔": la verità che smonta tutte le fake news contro il risorgimento.

giovedì 19 novembre 2020

Un simpatico aneddoto su Garibaldi e Jacob von Haynau


Il 4 settembre 1850 il generale austriaco Julius Jacob von Haynau, tristemente noto come la “Iena di Brescia”, recatosi a visitare la birreria Barclay & Perkins in Park Street - nel quartiere operaio di Southwark a Londra- riconosciuto dalla locale manovalanza veniva brutalmente aggredito e violentemente percosso. La spregevole reputazione dell’Haynau - che fu causa dell'aggressione - era legata alla spietata respressione delle dieci giornate di Brescia e alle impiccagioni dei martiri d’Arad di cui il generale si era reso responsabile. Si rischiò un vero e proprio linciaggio. Haynau venne duramente colpito con una balla di fieno e ripetutamente malmenato. Strattonato per i baffi e bersagliato con letame, il malcapitato generale solo fortunosamente riuscì a mettersi in salvo, per poi essere invitato dalle autorità a lasciare Londra non potendo essergli assicurata l’incolumità personale.

Lettere di congratulazioni vennero inviate da varie associazioni operaie anche da Parigi e New York, mentre l’11 settembre successivo a Farringdon Hall si teneva un rally di celebrazione.
Il 16 aprile 1864, durante la sua trionfale visita a Londra, Giuseppe Garibaldi, nonostante i pressanti impegni, volle recarsi anch’egli in visita alla birreria Barclay & Perkins con l’intento di rendere omaggio a quei lavoratori che, queste le parole dell’Eroe dei due mondi riportate da un quotidiano londinese, “have merited the respect and consideration of the whole world”. Oggi in quel luogo si trova una stele a ricordare quella che fu vista e descritta come forma, sia pure istintiva e violenta, di solidarismo internazionale.
Questo aneddoto conferma la vasta fama di cui godeva Garibaldi in Inghilterra ed è stato gentilmente fornito da André Del Corno' della London Library. Cogliamo l'occasione per ringraziarlo nuovamente

sabato 9 dicembre 2017

Osservazioni sul commercio delle Due Sicilie


1. Il controllo inglese e francese sul commercio estero del regno borbonico

Il regno di Napoli e quello di Sicilia erano stati inseriti per molti secoli nell’area commerciale dominata da grandi città mercantili italiane, anzitutto le repubbliche di Venezia e Genova che furono per lungo tempo i maggiori centri mercantili di tutta Europa.
Il Mezzogiorno esportava principalmente prodotti agricoli in traffici che erano controllati dai mercanti e banchieri delle città-stato settentrionali.1
Questa gravitazione commerciale del Meridione attorno all’orbita veneziana e genovese si conclude nel secolo XVIII ma soltanto per essere sostituita dall’egemonia di Inghilterra, Francia ed Olanda.
Naturalmente non si può parlare di un mutamento improvviso e bisognerebbe distinguere anche per categorie merceologiche, tuttavia è il Settecento a segnare questo passaggio di consegna fra la tradizionale egemonia di mercanti dell’Italia settentrionale e quelli del nord Europa nella commercializzazione dei prodotti del sud Italia.
La sostituzione inoltre interviene in un contesto internazionale molto diverso rispetto al passato. L’Italia per almeno quattro secoli (XIII-XVI) era stata nel complesso la regione più sviluppata economicamente di tutta Europa ed ancora nel secolo XVII, nonostante il declino in corso, rimaneva fra i paesi più prosperi.
Al contrario, nel secolo XVIII era ormai divenuta una regione periferica.
Il Mezzogiorno partecipava a queste dinamiche, cosicché la sua subordinazione commerciale alle maggiori potenze mercantili settecentesche ed ottocentesche fu assai più netta di quella anteriore verso le repubbliche marinare di Genova e Venezia. Il regno di Napoli era nel ‘500 senz’altro definibile quale ricco, come ricorda Braudel in Civiltàà e imperi, mentre nel ‘700 partecipava della decadenza economica italiana.2
L’esito fu che il commercio internazionale del regno di Napoli e di quello di Sicilia, ovvero del regno delle Due Sicilie a partire dalla Restaurazione, divenne controllato da società e stati stranieri, la cui longa manus erano colonie di mercanti per lo più inglesi. Costoro, che solo non si fondevano con la popolazione locale, agivano per conto di case commerciali e di mercati stranieri, in base alle loro richieste ed interessi.

I prodotti esportati od importati nel o dal Mezzogiorno erano per queste società soltanto una piccola parte del totale e le filiali  ivi impiantate erano soltanto poche fra le molte esistenti sparse nel mondo.
Al contrario, il regno borbonico aveva un numero limitato di compagni commerciali, poiché importava ed esportava per la maggior parte da Inghilterra, Francia, Austria: questi tre paesi da soli costituivano il 65 % circa delle importazioni.
Esisteva quindi un grande squilibrio di peso nei rapporti mercantili, poiché quelli che per il reame delle Due Sicilie erano i principali soci d’affari internazionali avevano invece in esso soltanto uno dei tanti partner minori.
Le merci esportate inoltre erano quasi esclusivamente prodotti agricoli o zootecnici, anzitutto l’olio che da solo costituiva il 40 % del valore totale, seguito da grano, lana, canapa, seta, liquirizia, robbia. Questi beni formavano il 75 % dei prodotti d’esportazione. Al contrario, le merci importate erano ripartite in una gamma assai più ampia e comprendevano principalmente manufatti.3
È un contesto economico caratteristico degli “scambi diseguali” fra regioni sviluppate, esportatrici di prodotti lavorati di maggiore valore, e sottosviluppate, esportatrici di materie prime.
Il controllo del commercio estero del regno borbonico da parte di imprenditori privati stranieri era accompagnato dall’ingerenza di stati esteri nell’economia del reame borbonico e nelle stesse decisioni di politica economica.
Ad esempio, il timido tentativo di Carlo di Borbone di formare l’embrione di una industria, ricorrendo a maestranze specializzate provenienti dall’Italia settentrionale e dalla Francia, fu stroncato dall’Inghilterra con una guerra commerciale che affossò sul nascere il progetto.4
Non casualmente, una proto-industria comparve nel regno di Napoli sotto Murat, sia per gli incentivi concessi, sia perché il blocco continentale impediva l’arrivo di merci inglesi. È significativo comunque che una parte rilevante in molti opifici murattiani fosse spettata ad imprenditori esteri, specialmente svizzeri.5
Il caso più famoso e significativo dell’ingerenza estera negli affari interni dell’economia del regno delle Due Sicilie fu il contrasto per il controllo del mercato dello zolfo siciliano.
Questo minerale aveva iniziato ad essere estratto nell’isola nella seconda metà del secolo XVIII, ma la vera esplosione di questa attività mineraria avvenne a partire dal 1808, quando la Sicilia era in pratica un protettorato inglese. Per decenni sia l’estrazione sia la commercializzazione, nonché naturalmente la lavorazione, dello zolfo furono per intero sotto la gestione di grandi capitalisti inglesi.
Il governo borbonico non volle o non poté far nulla per impedire che l’intera filiera fosse di proprietà anglosassone.
Soltanto un trentennio più tardi si offrì la possibilità di spezzare il monopolio inglese, ma tramite una ditta anch’essa straniera, la francese Taix & Aycard. Essa propose a Ferdinando II di affidargli la gestione delle miniere, in cambio sia di un aumento del prezzo di acquisto dello zolfo estratto, sia della costruzione di un’industria chimica per la lavorazione del minerale in Sicilia.
Il sovrano inizialmente accettò la proposta francese, ma i capitalisti inglesi furono solleciti a rivolgersi al proprio governo, che reagì con decisione minacciando d’imporre un embargo al regno delle Due Sicilie. Ferdinando II si sottomise alle pretese d’Albione ed accettò di ripristinare il precedente monopolio anglosassone. In più, egli fu costretto dalle pressioni, questa volta di Parigi, a risarcire la Taix & Aycard.6
La debolezza politica ed economica del reame borbonico dinanzi a potenze straniere traspare evidente da questa vicenda.



2. La debolezza della marina mercantile

Il predominio straniero nell’importazione ed esportazione dal Meridione borbonico fu favorito anche dall’insufficienza della flotta mercantile delle Due Sicilie.
I tentativi delle autorità regie d’aumentare le dimensioni della flotta si scontrarono sia con le carenze tecnologiche, sia con quelle di personale stesso e furono dirette non tanto ad ammodernare la marina, aumentando le dimensioni e la modernità delle navi, ma solo accrescendone il numero, il che avveniva naturalmente con il varo d’altre piccole imbarcazioni.
Si può citare, nella ricca storiografia sull’argomento, quanto afferma lo storico Di Gianfrancesco.
Nel 1860 la marineria italiana, di tutti gli stati preunitari riuniti, era per tonnellaggio la quarta d’Europa.
La prima era quella inglese, con 4.669.000 tonnellate. La seconda era quella francese, con 1.011.000. La terza quella tedesca, con 808.000. Infine la quarta era quella italiana, con 607.000 tonnellate. È facile evidenziare comunque come quella inglese da sola fosse più grande di quelle francesi, tedesche ed italiane tutte messe assieme, con 4.669.000 contro 2426000. La percentuale della marina italiana rispetto  al tonnellaggio  mondiale era inoltre diminuita negli anni, passando dal 6,4%  del 1820 al 5,3% del 1860.
Soltanto un terzo della marina mercantile italiana nel 1860 batteva bandiera delle Due Sicilie. Secondo il Gianfrancesco, la marina borbonica arriva a 260 mila tonnellate nel 1860, mentre il totale della marina mercantile  del regno d’Italia arrivava a 607 mila tonnellate, a cui si sarebbe dovuta aggiungere ancora la marina del Veneto per 46 mila tonnellate, quella del  Lazio ed ancora quella (davvero rilevante per dimensioni) di Trieste.7
Giusto per fare un  confronto con i dati sopra citati, si possono indicare alcune raccolte statistiche compilate già nel secolo XIX, come quella del Bursotti.8
Il Bursotti  confronta le flotte di alcuni paesi  europei, proponendo le seguenti  serie per la navigazione di lungo corso: Svezia e Norvegia: 1.450 bastimenti per 355.520 tonnellate di stazza; Paesi Bassi: 379 bastimenti  per 214.284 tonnellate; Austria: 562 bastimenti per 148.492 tonnellate; regno di Sardegna: 690 bastimenti per 123.336 tonnellate; Grecia: 509 bastimenti per 95.978 tonnellate; Danimarca: 963 bastimenti per 95.373 tonnellate; Due Sicilie: 501 bastimenti per 89.148 tonnellate.
Sebbene questi non riporti le cifre della marina mercantile d’Inghilterra (la più grande di tutte), di Francia, di Spagna, né quelle di paesi extraeuropei come Usa, Russia, Turchia, Brasile ecc., già solo il suo parziale elenco dimostra che la marina borbonica era assai piccola, inferiore a quelle di Svezia, Paesi Bassi, Austria, Grecia, Danimarca e regno di Sardegna. Non era neppure, nel 1845, la più grande d’Italia, superata dalla marineria del regno di Sardegna.
Si può citare poi uno studio dello storico Clemente, assai recente (pubblicato nel 2011), dettagliatissimo e scritto con grande abbondanza di fonti (riporta nella sua sola conclusione 20 diverse tabelle statistiche).
Esso riferisce per il 1858 dei dati molto simili a quelli sopra  riportati: il tonnellaggio totale della marina mercantile  italiana (inclusa quella “austriaca”, che però per lo più aveva armatori italiani) era di 932.785 tonnellate; il tonnellaggio totale  del regno delle Due Sicilie era di 272.305, quindi sempre meno di un terzo del totale.
Sempre lo studio di Clemente riporta, fra i moltissimi altri dati, quelli riguardanti le dimensioni medie delle navi. La marina mercantile dello stato pontificio era in assoluto quella con il tonnellaggio medio più basso, seguita a brevissima distanza da quella del regno delle Due Sicilie.
Per fare un confronto, il tonnellaggio medio della marina borbonica era di 24,6 t., contro una media nazionale di 46,3 t.. Questo significa che la marina mercantile  borbonica era, in media, più piccola e meno moderna di quasi tutte quelle italiane, con l’eccezione di quella dello stato pontificio.9
La debolezza della marina mercantile dei Borboni e la dipendenza per le importazioni ed esportazioni da flotte straniere si manifestò in maniera emblematica durante la grande carestia del 1764, che condusse alla morte per fame o malattia circa 200.000 persone in tutto il Mezzogiorno.10
Anche per questo Ferdinando I poco dopo il ritorno sul trono dopo i Napoleonidi riconfermò vecchi privilegi commerciali ad Inghilterra, Francia, Spagna, secondo cui le navi battenti bandiera di questi stati avrebbero goduto di una esenzione del 10 % sui dazi doganali per merci provenienti da quei paesi medesimi.11
Erano autentici “trattati diseguali”, in cui non vigeva l’obbligo della reciprocità fra le due parti contraenti.
Il commercio internazionale del sud Italia verso Inghilterra e Francia, che erano i maggiori importatori ed esportatori del regno borbonico, si svolgeva così anzitutto tramite flotte e marinerie di quei paesi.12

3. L’assenza del regno delle Due Sicilie alla Esposizione internazionale dell’industria di Parigi

Il reame dimostrò una grave incapacità anche solo promozionale della propria economia, come risaltò all’Esposizione internazionale dell’industria di Parigi del 1855, svoltasi dal 1 maggio al 31 ottobre 1855.
L’Esposizione era stata ripartita in 30 diverse classi o categorie, a seconda della tipologia di attività industriale. Le prime 27 erano ritenute essere propriamente industria, mentre le restanti 3 erano considerate belle arti. È possibile e facile conoscere con assoluta esattezza quali paesi parteciparono all’Esposizione dell’industria e con quanti espositori ed in quali categorie, poiché già nel 1855 fu pubblicata la relazione ufficiale dell’Esposizione stessa.13
Le classi dell’industria erano le seguenti: settore minerario ed estrattivo; industria di  falegnameria, lavorazione prodotti caccia e pesca; lavorazione industriale prodotti agricoltura; meccanica generale applicata all’industria; meccanica speciale e materiali ferroviari e di trasporto; meccanica speciale e materiali degli opifici industriali; meccanica speciale e materiali manifatture tessuti; industria di precisione, orologeria, stampa; oreficeria, bigiotteria, gioielleria; Industria del vetro e della ceramica; industria del cotone; industria della lana; industria della seta; industria del lino; fabbricazione di maglie, tappeti,passamaneria; mobili ed arredamento; oggetti di moda e fantasia; Disegni e plastici applicati alla musica, fotografia; fabbricazione di strumenti musicali.
In tutte queste 27 classi dell’industria il numero di espositori delle Due Sicilie fu pari a zero. Non vi fu un solo espositore dalle Due Sicilie, su di un totale di 21779 partecipanti.
Il reame borbonico fui quindi completamente assente nell’Esposizione dell’industria propriamente detta. Eppure, ad essa parteciparono anche stati dell’America meridionale, dell’Africa e stati minuscoli come il principato di Baden, il ducato di Sassonia, la lega delle città anseatiche.
Il Messico mandò 107 espositori, il poverissimo Guatemala 7, la minuscola isola di Grenada 13. La spopolata Argentina del 1855, che comprendeva quasi solo Buenos Aires e dintorni mentre la sterminata pampa era quasi spopolata ed abitata in prevalenza da indios dediti alla pastorizia nomade,  mandò 6 espositori.
L’Egitto ebbe 6 espositori ed il regno delle Hawaii, il piccolo reame ancora indipendente abitato dai polinesiani, ne inviò 6. Il Lussemburgo ebbe 23 espositori, il ducato di Brunswick 16, quello di Hannover 18, la Baviera 172.
Naturalmente, la parte del leone era fatta dalle maggiori potenze industriali, per cui il Belgio ne mandò 687, l’Austria ne 1298, la Prussia 1319, il Regno Unito 1589, la Francia addirittura 10003 (ma questa cifra, più alta addirittura di quella dell’Inghilterra massima potenza industriale dell’epoca, dipendeva dal fatto che l’esposizione era organizzata a Parigi).
A scanso di equivoci, non si sono qui riportati tutti i paesi partecipanti ma soltanto una piccola parte per brevità, essendone stati ancora molti che provenivano dall’Europa, dall’Asia, dall’Africa, dall’America.
Parteciparono ovviamente anche il regno di Sardegna, con 204 espositori, il granducato di Toscana, con 197 espositori, lo stato pontificio,  con 72 espositori. Regno delle Due Sicilie, come si detto, non partecipò nemmeno.
Si possono trovare espositori delle Due Sicilie soltanto nel settore delle Belle Arti, che comprendeva tre classi: pitture, incisione, litografia; scultura ed incisione su medaglie; architettura. Vi furono due espositori delle Due Sicilie nella classe XXVIII (pittura, incisione, litografia) ed altri 2 nella classe XXIX (scultura ed incisione su medaglie). Gli espositori in queste tre classi furono in totale 2175, di cui appunto 4 (quattro) delle Due Sicilie.
L’Austria ne ebbe 108, la Prussia 111, il  Belgio 142, il Regno Unito 297, la Francia (anche qui grazie al fatto che l’Esposizione si teneva a Parigi) ben 1072. Il regno di Sardegna ne mandò 17, lo stato pontificio 16, la Toscana 10.
Si può ora riassumere. Il regno delle Due Sicilie non partecipò proprio all’Esposizione dell’industria in senso stretto, poiché non vi fu un solo suo espositore in tutte le 27 diverse categorie industriali. Si ebbero 21779 espositori delle prime 27 classi industriali, 0 (zero) provenienti dalle Due Sicilie. Esso partecipò invece al settore delle Belle Arti, con 4 (quattro) espositori su di un totale di 2175.
Il numero totale complessivo di espositori delle Due Sicilie fu inferiore non soltanto a quello delle maggiori potenze industriali (in modo abissale), non solo a quello degli altri stati italiani (regno di Sardegna 221, il granducato di Toscana 213, lo stato pontificio 82), ma persino a paesi poverissimi e minuscoli come l’isola di Grenada (13) od il regno delle Hawaii (5), i cui espositori avevano dovuto  percorrere tutta la distanza fra l’arcipelago e Parigi sulle navi dell’epoca.
L’accaduto era stato notato e compreso nel suo significato già da Giustino Fortunato, che scrisse: «Alle mostre delle industrie mondiali, prima di Londra, nel 1855, poi di Parigi, nel 1857, ove finanche la Turchia e il Giappone mandarono i loro prodotti, noi soli mancammo ...»14

4. La frammentazione del mercato interno e la sua debolezza

Non esisteva un vero mercato unitario interno nelle Due Sicilie, quanto una pluralità di aree commerciali rurali separate fra di loro. Molti sono le ricerche che conducono a questa conclusione, fra cui si può citare ciò che scriveva Aurelio Lepre, asserendo che la mancanza di un sistema di comunicazioni terrestri adeguato impediva la formazione di un’area commerciale comune all’interno del reame borbonico.15
Il “regno senza strade”, come era soprannominato quello borbonico in Europa, era notoriamente deficitario in fatto di vie. Nel 1860 esistevano nel regno borbonico 1848 comuni, ma di questi solamente 227 erano collegati da strade. Gli altri si servivano di mulattiere o piste per il bestiame.
Il commercio interno era prevalentemente locale e collegato alle diverse fiere paesane, mentre in confronto era assai più ridotto il cosiddetto “commercio stabile”. Anche per questo, vi erano grosse difficoltà a commercializzare all’interno dei confini dello stato gli stessi prodotti nazionali esportati.16
Le congiunture commerciali incidevano anche in modo grave, persino politicamente, sul regno. Questo riguardava anzitutto il settore granario, da cui dipendeva l’alimentazione della maggioranza della popolazione.
Il governo ne era consapevole e cercava di consentire l’esportazione di grano soltanto qualora vi fosse una eccedenza rispetto alle esigenze interne, mentre al contrario favoriva la sua importazione qualora ve ne fosse scarsità ovvero se i prezzi interni salissero.
La politica governativa aveva in questo una sua logica, che però non si poneva come obiettivo l’aumento di una produzione cerealicola che chiaramente non assicurava rese tali da garantire l’autosufficienza alimentare. Il mercato del grano rimase quindi sospeso per anni fra Scilla e Cariddi, perché consentire l’esportazione rischiava di provocare sottoalimentazione nelle classi povere (o di aggravare quella esistente …) mentre autorizzare l’importazione minacciava di far abbassare troppo i prezzi e danneggiare i coltivatori.
S’intona con questo quadro l’osservazione del generale Carascosa, che ipotizzava un collegamento fra la rivoluzione del 1820 ed il disagio sociale provocato dall’importazione di cereali dalla Russia, che era stata decisa in seguito alla carestia del 1816-1817, ma che aveva abbattuto il valore del grano nel Mezzogiorno.17
Anche per questo il Mezzogiorno, con un mercato interno asfittico e frammentario, aveva maggiore necessità di sbocchi esterni per le sue eccedenze e era perciù più dipendente dai mercati stranieri.
  

5. I dati quantitativi sul commercio internazionale delle Due Sicilie

Lo storico Augusto Graziani ha pubblicato nel 1960 una monumentale documentazione statistica sul commercio estero delle Due Sicilie, che copriva in modo ininterrotto più di due decenni di importazioni ed esportazioni di  questo reame con una serie quasi ininterrotta dal 1832 al 1855, distribuita in vari «gruppi merceologici» sulla base dei parametri Istat allora vigenti per la classificazione delle attività economiche.18  
I dati quantitativi riportati, davvero abbondanti ed assai analitici e precisi, offrono un quadro esauriente del commercio con l’estero del regno borbonico.
Esso era in tutta Europa (in tutta Europa!) il paese con il più basso commercio estero pro capite, ossia in percentuale al numero di abitanti.
Il suo commercio internazionale annuo nel 1858 era di soli 6,52 ducati per abitante. Tutti gli altri stati italiani avevano livelli assai superiori, che andavano dai 40,13 ducati pro capite del regno di Sardegna (sei volte quello del reame borbonico!) sino ai 9,06 dello stato pontificio.
Anche tutti gli stati europei dell’epoca avevano indici di commercio pro capite superiori a quelli del regno  delle Due Sicilie, con la sola eccezione della Russia che aveva 5,14 ducati per abitante ma che per geografia e storia difficilmente si poteva considerare quale europea ad ogni effetto. Ad esempio, l’Austria (incluso il Lombardo-Veneto) era ad 11 ducati pro capite, la Francia a 35, l’Inghilterra a 71 etc. In ogni caso, il regno borbonico era l’ultimo in Italia per commercio pro capite e, fatta eccezione per la Russia, anche in tutta Europa.
Il panorama negativo era completato da altri dettagli ancora, come un saldo commerciale che rimase costantemente in passivo o lo squilibrio interno fra la capitale e l’entroterra.
La città di Napoli da sola convogliava l’88% delle importazioni, anche se la metropoli in quanto tale quasi non esportava nulla. Al contrario, le poche regioni esportatrici (come la terra di Bari per l’olio e quelle di Enna e Caltanissetta per lo zolfo) non erano importatrici.
L’amplissima ricerca documentaria di Graziani conferma ciò che è largamente ammesso nella storiografia riguardo all’economia delle Due Sicilie. Il regno aveva un’economia quasi soltanto agricola, con un’industria solo embrionale. Al suo interno esisteva poi uno squilibrio notevole fra la capitale, (in cui si concentravano gli investimenti pubblici e risiedeva la classe dirigente, così risucchiando buona parte delle risorse disponibili) e tutto l’entroterra del Meridione continentale. La posizione di questo paese nel commercio internazionale era periferica e rispecchiava la sua arretratezza economica.

6. Alcune osservazioni conclusive

Il quadro complessivo delineato dal commercio nelle Due Sicilie appare inconfondibile: esportazione solo di materie prime o di semilavorati con importazione di manufatti, quindi esportazione di merci di basso valore ed importazione di merci di alto valore; trattati commerciali diseguali; controllo della filiera dei propri prodotti d’esportazione da parte di società imprenditoriali straniere; presenza di colonie di mercanti ed imprenditori stranieri che erano rappresentanti locali di società ramificate internazionalmente ed aventi sedi all’estero: ingerenza di stati stranieri nella politica economica interna allo stato borbonico; assenza di un mercato interno nazionale unificato ed esistenza di reti commerciali strutturate ed organizzate soltanto con l’estero; incapacità statale di sfruttare le proprie risorse naturali e di promuovere i propri prodotti all’estero.
È un insieme organico di caratteristiche che si ritrova sovente in paesi subalterni economicamente, come ha avuto modo di sottolineare più volte Galasso. Il controllo di società straniere sul commercio estero delle Due Sicilie ha contribuito ad impedire un processo di industrializzazione ed in generale di sviluppo economico.


 
 Homan, Pianta di Napoli 1734


Note 
D. Abulafia, The two Italies. Economic relations between the norman Kingdom of Sicily and the northen Communes, Cambridge 1977; Idem, Southern Italy and the Florentine Economy (1265-1370), in «The Economic History Review», 1981, n. 3.  - - Questo rapporto esisteva già nel Medioevo e su di esso si è soffermato anche un Fernand Braudel nel suo celebre e celebrato studio sul Mediterraneo all’epoca di Filippo II. - G. Galasso, Momenti e problemi di storia napoletana nell'età di Carlo V, in Mezzogiorno medievale e moderno, Torino 1975, pp. 167-77; F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Torino 1976, vol. I, pp. 621 sgg. 
Il commercio inglese nel Mediterraneo dal '500 al '800. Corrispondenza consolare e documentazione britannica fra Napoli e Londra, a cura di G. Pagano de Divitiis, Napoli 1984, pp. 29 sgg.; Eadem, II Mediterraneo nel XVII secolo; l'espansione commerciale inglese e l'Italia, in «Studi storici», 1986, n. 1; P. Bevilacqua, Il Mezzogiorno nel mercato internazionale (secoli XVIII-XX), in “Meridiana”, n. 1, 1987, pp. 19-45. 
3 D. Demarco, Il  crollo del regno delle Due Sicilie. La struttura sociale, Napoli 1960, pp. 76-77. 
4 R. Romano, Napoli: dal Viceregno al Regno, Torino 1976.
5 Riguardo alla politica economica nel Decennio francese A. Valente, Gioacchino Murat e l’Italia meridionale, Torino 1965; P. Villani, Italia napoleonica, Napoli 1978; C. Zaghi, Napoleone e l’Italia,  Napoli 2001.
6 Lo zolfo di Sicilia. Questione tra l'Inghilterra e Napoli, da Annali universali di statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio. Milano, Società degli editori degli annali universali delle scienze e dell'industria, 1840. G. Pescosolido, L’economia siciliana nell’unificazione italiana, in “M e d i t e r r a n e a  R i c e r c h e s t o r i c h e” Anno VII - Agosto 2010, p. p. 225.
7 M. Di Gianfrancesco, La rivoluzione dei trasporti in Italia nell’età risorgimentale, L’Aquila 1979, p. 230. I dati quantitativi sui bastimenti del regno delle Due Sicilie sono contenuti nelle raccolte statistiche degli «Annali civili del Regno delle Due Sicilie» per gli anni 1833, 1834, 1839 e 1852; dal 1841 al 1855 nelle “Statistiche generali commerciali”a cura dell’Amministrazione generale dei dazi indiretti, conservate nel fondo del Ministero delle Finanze dell’Archivio di Stato di Napoli. Naturalmente, sono tutte “fonti dirette” ovvero “fonti primarie”, secondo il lessico storiografico, che risalgono direttamente ai documenti ufficiali del regno delle Due Sicilie.
G. Bursotti, Biblioteca di Commercio, Anno II, vol. III, Napoli 1845. 
9 A. Clemente, “La marina mercantile napoletana dalla Restaurazione all’Unità”, Il Mezzogiorno prima dell’Unità. Fonti, dati, storiografia, Napoli, 1° dicembre 2011 (CNR-ISSM, in collaborazione con l’Università di Napoli “L’Orientale” e l’Università di Catanzaro “Magna Græcia”). 
10 Le dimensioni quantitative della carestia, che colpì sia il regno di Napoli, sia lo stato pontificio, sono inevitabilmente approssimative. A. Caracciolo, La storia economica, in Dal primo Settecento all’Unità, in «Storia d’Italia», III, Torino 1973, p. 522;  G. Galasso, Mezzogiorno medievale e moderno, Torino, 1965, pp. 309-310] Il governo borbonico dovette provvedere all’acquisto all’estero di cereali, che furono trasportati nel  regno da navi inglesi. [De Divitiis, Il commercio inglese cit., pp. 10-11.
11 G. M. Monti, La espansione mediterranea del Mezzogiorno d'Italia e della Sicilia, Bologna 1942 pp. 363-364. 
12 P. Frascani, Il Mare, Bologna 2008, pp. 25–26. 
13 Si tratta della relazione intitolata “Exposition universelle; Industrie; Produits industriels”, Paris 1855. 
14 Giustino Fortunato, La questione meridionale e la riforma tributaria, in Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Discorsi politici (1880-1910), nuova edizione a cura di Umberto Zanotti Bianco, Firenze, Vallecchi, 1926, volume secondo, p. 335.
15 A. Lepre, Contadini, borghesi ed operai nel tramonto del feudalesimo napoletano, Milano 1963.
16 B. Salvemini, Ceti mercantili e crescita urbana in terra di Bari (1815-1830), in Atti del 3° convegno di studi. Ill Risorgimento in Puglia. L’età della Restaurazione (1815-1830), Bari 1983, pp. 539-562. 
17 L. Palumbo e B. Salvemini, Aspetti del mercato del grano nell’Ottocento borbonico, in A. Massafra (a cura) Mezzogiorno preunitario, pp. 201-227. 
18 A. Graziani, II commercio estero del Regno delle due Sicilie dal 1832 al 1858, in Archivio economico dell'Unificazione italiana, Roma 1960, serie I, vol. X.

venerdì 17 marzo 2017

Una data da ricordare

Propongo ai lettori del Blog questo interessante articolo a firma di Marco Vigna, studioso provetto della storia risorgimentale.

La festa del 17 marzo commemora la data in cui fu proclamato il regno d’Italia nel 1861 sotto Vittorio Emanuele II. Si sente talora affermare che questo sarebbe l’inizio dell’Italia stessa, poiché secondo alcuni tale nazione non sarebbe esistita affatto in precedenza, o quantomeno non sarebbe esistito uno stato italiano. Simili visioni, care in particolar modo ai secessionisti o comunque a coloro che contestano lo stato nazionale predicandone la dissoluzione e la scomparsa, non hanno in realtà fondamento storico alcuno. 
È appena il caso di precisare che nazione e stato non sono sinonimi e che la patria o gruppo etnico continua ad esistere qualunque sia la forma politica in cui si trova. L’Italia ha un’esistenza più che due volte millenaria che si esprime sul piano della lingua, dell’onomastica, della toponomastica, della letteratura, dell’architettura, dell’urbanistica, della musica, delle strutture giuridiche, della coscienza collettiva ecc. Essa non nasce quindi nel 1861, essendo pienamente esistente quantomeno dal I secolo avanti Cristo.
Non è neppure vero che l’Italia non fosse mai stata unita prima del Risorgimento. Il 17 marzo del 1861 è il momento in cui il regno d’Italia viene ad essere ufficialmente e giuridicamente ri-costituito, non costituito, poiché esso era già esistito in precedenza e per lunghi secoli. Prima ancora del medievale regno d’Italia questa regione e la sua nazione italiana erano state ambedue unificate da Roma antica per un periodo plurisecolare.
L’Italia viene ad essere unificata sul piano giuridico già sotto l’imperatore romano Ottaviano Augusto, il quale così facendo non fa altro che riconoscere l’ormai raggiunta unità culturale ed etnica nella penisola.

Inoltre, la caduta di Roma non pose termine realmente ad ogni forma di unificazione giuridica dell'Italia, almeno sul piano formale ed ideale. L’impero romano per gli uomini del Medioevo, non era scomparso, ma continuava ad esistere, soltanto in forma mutata. Semplificando al massimo grado per ragioni di sintesi, l’imperium era ritenuto essere stato ordinato da Dio stesso per l’umanità intera ed avrebbe continuato ad esistere sino alla fine dei tempi. L’imperatore quindi non era sovrano soltanto d’alcuni territori, ma di tutta la terra. Di fatto però, era evidente che l’autorità dell’imperatore era riconosciuta solo in alcune regioni e, si badi bene, non perché imperatore, ma in quanto principe, duca ecc. di determinati territori. Il titolo imperiale però era collegato, sempre e necessariamente, a quello di rex Italiae, poiché l’Italia era il centro dell’impero con Roma. Non è un caso che un altro tentativo di ripristinare l’unità politica della nazione italiana avvenne con Federico II di Svevia, che a detta di Ernst Kantorowicz, suo massimo biografo, pensava a sé stesso come “romano” e che fu sia fra i patrocinatori della riscoperta dell’antico, sia fra i promotori dell’italiano letterario. Questo sovrano progettava l’“unio regni et imperi”.
Seppure solo sul piano simbolico e formale, il regnum Italiae (che si era costituito subito dopo la fine di Roma, ma prendendo a base e modello l’anteriore ripartizione politica e giuridica romana) ha conservato la sua esistenza sotto longobardi, carolingi, ottoni ecc. ed anche nell’evo moderno, tanto che la famosa Corona Ferrea venne usata dal VI secolo sino al XIX per l'incoronazione dei re d'Italia.
Inoltre anche nel periodo compreso fra il 568 (data con cui s'interrompe per secoli l'unità politica dell'Italia) ed il 1861 la consapevolezza d’una medesima appartenenza nazionale e l’idea di un organismo politico che riunificasse l’Italia intera non vennero mai meno. Vi furono infatti diversi tentativi in tale direzione: Liutprando, Astolfo, Desiderio, Arduino d’Ivrea, Federico II di Svevia, Cola di Rienzo, Ladislao di Napoli, la repubblica di Venezia furono tra coloro che cercarono di ricreare uno stato nazionale italiano.
Né il concetto di patria italiana, né quello di stato nazionale sono quindi creazioni storicamente recenti, come talora si sente dire. Non solo la nazione italiana esiste da 2000 anni e più, ma la concezione di uno stato italiano unitario è altrettanto antica ed ha continuato ad esistere come aspirazione ideale anche nell’intermezzo fra l’unificazione di Roma antica e quella del Risorgimento.

martedì 28 febbraio 2017

La pena di morte secondo le leggi penali borboniche

Carlo di Borbone, con la Prammatica del 14 marzo 1738, aveva proibito la tortura e l’uso di pozzi sotterranei per l’isolamento dei detenuti. Ma la Lex Julia majestatis, introdotta dal suo successore Ferdinando IV come legge dello Stato con rescritto del 21 luglio del 1771, prevedeva pene severissime e torture per chiunque partecipava ad una congiura, escludendo ogni beneficio o diminuzione della pena, e contro i rei si procedeva ad modum belli. Era questo un rito eccezionale in cui il termine a difesa era brevissimo: conclusa rapidamente l’istruttoria senza osservarne i normali termini, comunicata la sentenza, venivano concesse poche ore al difensore per prendere visione degli atti e preparare la memoria difensiva. 

Stimata regina tormentorum per l’intenso dolore che essa procurava, era la tortura acre con funicelle. Si allacciavano dapprima i polsi rivolti dietro la schiena del reo con una cordella rotonda e la si stringeva fino a lacerarne le carni. Poi se ne allacciava un’altra alle braccia e lo si sollevava. Il destino dei rei non era mai definitivo e poteva mutare in qualsiasi momento o per intercessione diretta del sovrano, spesso su richiesta di un familiare o di persona influente, o tramite la «Giunta per il destino dei condannati». 
Tra i luoghi di detenzione napoletani più noti furono la Vicaria, un carcere situato nei sotterranei del Castel Capuano, e quello di S. Francesco, fuori le mura di Porta Capuana, oltre il distretto di Napoli i penitenziari di Procida e di S. Stefano destinati agli ergastolani. Il Codice per lo Regno delle due Sicilie, promulgato per editto da Ferdinando I di Borbone nel 1819, pur nel formale ripudio di alcune pene, persisteva in tratti ancora profondamente reazionari adottati nelle prammatiche sanzioni dei precedenti anni di reggenza.
Le pene criminali per il nuovo codice erano soltanto l’ergastolo, i ferri, la reclusione, la relegazione, l’esilio dal regno, la interdizione da’ pubblici uffizii, la interdizione patrimoniale e la morte. Le norme per le esecuzioni capitali erano stabilite nei seguenti articoli:
  • Art.4. La pena di morte si esegue colla decapitazione, col laccio sulle forche e colla fucilazione. 
  • Art.5. La pena di morte non può che eseguirsi in luogo pubblico. Quando la legge non ordina letteralmente che la pena di morte debba essere espiata col laccio sulle forche, espiar si deve colla decapitazione. La pena di morte si esegue colla fucilazione quando la condanna sia fatta da una Commissione militare, o da Consigli di guerra ne’ casi stabiliti dallo Statuto penale militare. 
  • Art.6. La legge indica i casi ne’ quali la pena di morte si debba espiare con modi speciali di pubblico esempio. I gradi di pubblico esempio sono i seguenti: 
  1. Esecuzione della pena nel luogo del commesso misfatto, o in luogo vicino: 
  2. Trasporto del condannato nel luogo delle esecuzione a piedi nudi, vestito di giallo, con cartello in petto a lettere cubitali indicante il misfatto: 
  3. Trasporto del condannato nel luogo della esecuzione, a piedi nudi, vestito di nero, e con un velo nero che gli ricopra il volto:
  4. Trasporto del condannato nel luogo della esecuzione, a piedi nudi, vestito di nero, e con velo nero che gli ricopra il volto, e trascinato su una tavola con piccole ruote al di sotto, e con cartello in petto in cui sia scritto a lettere cubitali: l’uomo empio.[1] . 
 [1] Codice per lo Regno delle Due Sicilie – Leggi Penali, Parte Seconda, Tip. Domenico Capasso, Napoli, 1848, pp.1-2. Abstract: A Orefice, I giustiziati di Napoli, D'Auria, Napoli, 2015 Giustizia del Capitano Santolo Castaldo. Esempio di crudeltà nell’esecuzione. Anno 1646 Archivio Storico Diocesano di Napoli, Bianchi della Giustizia, vol.87, c.40 r

 Trascrizione documento A di 7 di maggio uscì la giustizia da S. Giacomo per eseguirsi come fu eseguita nel largo del Castello in persona di Capitan Santolo Castaldo della Fragola quale fu decapitato e non lascia alcuni. Questo Povero afflitto passò molto travaglio nel morire perché la mannaia le colse sopra le spalle onde fu necessario secargli il collo con un coltello nel che ci volle un pezzo che fu cosa di molta compassione vi intervennero li seguenti fratelli…


Dettagli Categoria principale: Storia Categoria: Storia XVIII sec. Creato Martedì, 28 Febbraio 2017 18:51 Ultima modifica il Martedì, 28 Febbraio 2017 18:51 Pubblicato Martedì, 28 Febbraio 2017 18:51 Scritto da Antonella Orefice Visite: 2399