martedì 9 luglio 2013

Carmine Crocco: storia di un criminale in carriera

Quando il brigantaggio divenne una splendida occasione di bottino e di fama


Scritto da Angelo Martino
Martedì 09 Luglio 2013 14:32
La biografia del brigante lucano Carmine Crocco, scritta da Ettore Cinnella, ex docente di Storia Contemporanea presso l’Università di Pisa, "Carmine Crocco - un brigante nella grande Storia - "non fa parte di quella recente pubblicistica, a volte di successo, che sta provando a riscrivere la storia della fine del Regno delle Due Sicilie attraverso tentativi revisionisti, spesso di esclusivo taglio giornalistico, ma si mostra più che attenta ad inquadrare il brigantaggio in un serio contesto storico.

Il libro utilizza la vasta produzione erudita e la memorialistica prodotte nella seconda metà dell’800, con la successiva, consistente, bibliografia sul brigantaggio. Il risultato è un studio serio e documentato, che finalmente fa giustizia di tanti luoghi comuni che vengono ripetuti per attribuire loro un valore storico.
Quindi una lettura che appassiona, dato che, supportato da una documentazione rigorosa, il libro si fregia anche di un impianto metodologico che “legge” a sua volta la documentazione disponibile e i fatti con il necessario distacco che il secolo e mezzo trascorso impone agli eventi, soprattutto inquadrandoli in quella “grande storia” che impedisce ogni abbandono a localismi di sorta e a idealizzazioni fuorvianti dei protagonisti.

Del resto Ettore Cinnella fa da decenni il mestiere di storico in maniera egregia.

L’autore affronta già nelle prime pagine la tanto decantata questione di un brigante che da alcuni è considerato un antesignano degli eroi protagonisti di una lotta di liberazione di stampo socialista, scrivendo a pag- 40 nel capitolo “ Da Pastore a Brigante” :
“Chi si è detto sicuro della collocazione storica del pastore di Rionero, annoverandolo tra gli antesignani della rivoluzione sociale o socialista, non si è nemmeno curato di appurare come davvero egli si chiamasse e ha scambiato il soprannome (Donatelli ) con il cognome autentico.
Eppure per non perpetuare l’equivoco, sarebbe bastato leggere qualche documento originale, anziché copiare maldestramente da altri libri.”

Quindi Carmine Crocco detto Donatelli o Donatello dal nome del nome paterno Donato, già disertore della milizia borbonica per aver assassinato un commilitone, diventò un brigante nelle campagne della Basilicata.
In questo periodo Crocco iniziò ad avere i primi contatti con altri fuorilegge, costituendo una banda armata che visse di rapine e furti.
Fu arrestato e rinchiuso nel bagno penale di Brindisi il 13 ottobre 1855, ricevendo una condanna di 19 anni di carcere. Il 13 dicembre 1859 riuscì ad evadere, nascondendosi tra i boschi di Monticchio e Lagopesole.
“ Non si deve però credere – scrive Cinnella - che Crocco fosse già divenuto un bandito di strada nel vero senso della parola. Le carte processuali ci descrivono piuttosto un ladruncolo casereccio”.

Nella sua autobiografia, Crocco ci parla del suo soccorso alla sorella Rosina, insidiata da Don Peppino, un signorotto di Rionero in Vulture, che il brigante ammazzò per un delitto d’onore. Ettore Cinnella , sulla base di riferimenti storici ben precisi, smonta tale invenzione di Crocco, dimostrando che tale vicenda del delitto d'onore sia completamente priva di fondamento.

Ciononostante, la storia del delitto d'onore è stata presa sul serio, secondo lo storico Ettore Cinnella, poiché per molto tempo si è attinto alle ristampe successive dell'autobiografia di Crocco, senza le note e l'apparato critico a cura del capitano Massa che accompagnavano la prima edizione.
Dunque, fuor di ogni leggenda, anche per lo scaltro pastore di Rionero Carmine Crocco (soprannominato Donatelli), figlio di un contadino e una cardatrice di lana, nessuna particolare angheria subita dai suoi familiari da parte di aristocratici locali.
La carriera di rapinatore e grassatore comincia con la brusca fine del suo servizio militare nel 1852, quando si dà alla macchia probabilmente in seguito al regolamento di conti con un commilitone.
Una carriera che comincia rocambolescamente con arresti, condanne ed evasioni che dureranno fino alla fatidica data del 1860.
“Mentre Crocco si stava trasformando, a poco a poco, da piccolo malvivente di paese in pericoloso bandito di strada, eventi turbinosi e grandiosi si svolgevano nella provincia della Basilicata, fino allora la regione più arretrata e sperduta del Regno delle Due Sicilie”

Come racconta nella sua autobiografia, partecipò alla spedizione dei Mille del 1860, e per lui era un tentativo di riabilitarsi e accreditarsi, magari ritagliandosi un ruolo nel nuovo Stato.
E’ un momento storico in cui tratto peculiare della rivoluzione lucana del 1860 è “ la partecipazione del Clero al movimento costituzionalista e poi a quello risorgimentale”. Infatti a Rionero in Vulture, il paese di Crocco, vi fu una vera insurrezione prima dell’arrivo delle truppe garibaldine.
Nella sua autobiografia, Crocco racconta di essersi unito ai battaglioni di Garibaldi, che provenivano dalle Calabrie, seguendo il generale fino a Santa Maria Capua Vetere, anche se l’autore scrive che “ nulla si sa sulla partecipazione di Crocco alle battaglie garibaldine del 1860”.
Tuttavia alcune missioni gli furono conferite e conobbe il colonnello Boldoni, da cui ricevette l’assicurazione del “ perdono” delle sue azioni criminali, ma tali promesse si mostrarono fallaci e Crocco ritornò alla vita da brigante.
Fu il momento della delusione in quanto non si attuarono quelle riforme “rivoluzionarie”, sociali che tanti contadini attendevano. Si scelse la strada del compromesso con Garibaldi che fu persuaso della bontà dei Plebisciti, consegnando di fatto il Regno a Vittorio Emanuele e ritirandosi a Caprera.
La reazione dei Borbone trovò terreno fertile, e iniziarono le più importanti campagne brigantesche del 1861, un misto di operazioni militari e di restaurazione legittimistica, in realtà caratterizzate da innumerevoli rapine, saccheggi e omicidi, mentre le questioni demaniali, tensioni sociali, conflitti ideologici tra liberalismo e legittimismo, portavano nel Meridione una sorta di revanscismo riguardo al quale Ettore Cinnella è chiaro: la dinastia borbonica seppe approfittare degli errori e della “stolida politica vessatoria, messa in atto nelle contrade meridionali dai funzionari del governo di Torino” reagendo in maniera dura e poliziesca:

“Sulla carta la causa borbonica disponeva di prestigiosi e devoti paladini, i quali però preferivano ai rischi della guerra la tranquillità e gli agi della Roma papalina (…) A scendere in campo e a rischiare la vita (…) furono per lo più, alcuni aristocratici e ufficiali stranieri” sovente abbandonati a loro stessi. E non a caso, il fallimento di quel moto insurrezionale, mal organizzato e diretto, e l’esecuzione di Don José Borges (Borjes), fecero cadere la “foglia di fico” con cui la reazione colorava politicamente le gesta brigantesche di cui doveva forzatamente servirsi.”

Lo stesso Crocco ricorda nell’autobiografia che i burattinai della sollevazione armata contro il nuovo governo andassero ricercati tra i notabili nostalgici del vecchio Regime, dal brigante definiti “serpenti velenosi”.
Lo stesso Crocco, d’altronde, era uno dei maggiori protagonisti dell’insurrezione in combutta con i comitati borbonici locali, pur non lasciandosi completamente sedurre dalla causa borbonica. Come era avvenuto in relazione alla sua partecipazione alle vicende garibaldine, l'insurrezione contro il Nuovo Governo aveva poco di politico, di ideale. L’autore la definisce “ disincantata” .
“Quella mia condiscendenza alla distruzione, al saccheggio, era fornite per me di maggior forza l’avvenire, l’esempio del fatto bottino traeva dalla mia altri proseliti anelanti di guadagnar fortuna col sangue”
Così Crocco diventò il generale dei Briganti e il suo destino si incrociò con quello di un generale vero, qual era Don José Borges, convinto sostenitore della causa legittimista fino alla morte , un rappresentante degli ideali della conservazione .
Invece l’etichetta della rivolta politica non si mostra calzante per Carmine Crocco e le sue bande.
Scrive Cinnella che “l’etichetta di “politico” si adatta ad alcuni episodi e situazioni locali”, ma è fuorviante attribuirlo a Carmine Crocco e alle sue bande. Lo stesso generale Borjes aveva evidenziato tale assenza.
I rapporti “ burrascosi" tra Borjes e Crocco non riguardavano solo questioni di natura militare, ma “il modo d’intendere l’azione brigantesca”.
Mentre per il generale spagnolo, la guerriglia partigiana brigantesca doveva essere intesa quale lotta partigiana, per il “capobrigante lucano rappresentava una splendida occasione di bottino e di fama”.
A proposito del ruolo del brigante che primeggia su quello di carattere politico – sociale, è lo stesso Crocco a scrivere nell’autobiografia:
“I miei compagni anelanti di sangue e più ancora di bottino, appena penetrati in paese cominciarono a scassinare porte per rubare tutto ciò che di meglio capitava nelle case. Chi resisteva, chi rifiutava di consegnare il denaro od i gioielli, era scannato senza pietà.”
Cade l’equivoco sulla guerriglia partigiana e lungi dal rivelare, successivamente, la sua natura di moto sociale, il brigantaggio resta a questo punto per quel che fu sempre nella mente dei suoi protagonisti: “una splendida occasione di bottino e di fama”, pur nella consapevolezza che tanti errori erano stati commessi dai nuovi governanti, tante ingiustizie erano state perpetrate e il “ gattopardismo” aveva avuto la sua apoteosi.
Eppure, su Crocco – scrive l’autore - è fiorita un’altra leggenda, meno diffusa ma non meno fantasiosa di quella che ha fatto del pastore di Rionero un ardimentoso campione del riscatto sociale…Secondo questa visione, Carmine Donatelli Crocco, era “fin che si vuole brigante, ma anche guerrigliero per il suo Re e per la sua Terra”.
Ettore Cinnella sostiene che “ se si vuole attribuire al brigantaggio postunitario un qualche afflato sociale, non bisogna fissare lo sguardo sulle bande più grosse e famose (come quelle di Crocco), ma scavare gl’interstizi del fenomeno principale, cioè le comitive più piccole, alcune delle quali riuscivano talora a vivere in simbiosi con il mondo contadino”.
Questa lunga fase del brigantaggio, apertasi tra la fine del ’61 e il ’65, travolge anche Crocco che, a differenza di molti suoi compagni d’avventura, sfuggì alla morte e fu arrestato definitivamente nel 1870.

Processato e condannato a morte, pena commutata nei lavori forzati a vita, Crocco si spense negli stessi "panni" del suo esordio, dopo aver conosciuto la fama di più importante brigante della storia d’Italia.

Ultimo aggiornamento Martedì 09 Luglio 2013 14:58 http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1253:carmine-crocco-storia-di-un-criminale-in-carrieraquando-il-brigantaggio-divenne-una-splendida-occasione-di-bottino-e-di-fama&catid=85:storia-del-risorgimento&Itemid=28

sabato 6 luglio 2013

Il Regno di Napoli, tra i Vicerè e i Borbone

Scritto da Antonella Orefice


Sabato 06 Luglio 2013 14:19
Dopo due secoli in cui l’operato dei viceré Spagnoli si era distinto per immobilismo e malgoverno, nel  Settecento il Regno di Napoli visse un risveglio culturale, artistico ed economico.
I vicerè  avevano considerato Napoli un territorio di conquista, una colonia da cui trarre ricchezze, in gran parte sperperate da una burocrazia corrotta ed avida.
Il sistema sociale si era fondato  su una aristocrazia estranea al potere politico ed impegnata solo a conservare gli atavici privilegi, e su una potente borghesia formata da un consistente numero di giudici, notai, medici ed avvocati, che di fatto deteneva il potere amministrativo, perché professionalmente mediava tra interessi dei nobili e del clero e la condizione sociale di un popolo, sempre più oppresso da imposizioni e tributi vari.
Napoli era la città degli opposti eccessi e la sua popolazione si ripartiva, in linea generale, in due gruppi numericamente molto disuguali: i privilegiati, clero e nobiltà da una parte, e dall’altra i non privilegiati, popolino e plebe.
Il popolo avrebbe lavorato se avesse potuto trovare lavoro: Napoli attirava tutti i poveri del regno, ma non dava loro una occupazione.
L’insensata politica del periodo dei viceré aveva distrutto il commercio e l’industria ed inoltre il sistema fiscale colpiva e stroncava i veri lavoratori.
Soltanto il parassita era onorato e protetto. In un tale stato di cose la legge della facilità, del minor sforzo era divenuta una legge fondamentale della popolazione: procacciarsi i mezzi di sostentamento con il minor  lavoro, anche senza lavoro, era la regola di condotta alla quale si uniformava la maggior parte dei napoletani e che essi applicavano con modalità diverse, a seconda della loro categoria sociale.
Ingannare, truffare, era dunque il principio dell’attività del napoletano: non trovava in ciò nulla di male, era la regola del gioco.
Così la parola buscare, che aveva una significato che stava tra guadagnare e rubare, era una delle parole più correnti del vocabolario popolare tutt’ora in uso.
C’erano mille maniere di buscare: una delle più singolari e molto fiorente era l’industria della falsa testimonianza.
Pullulava a Napoli una schiera di uomini rapaci di ogni genere, che provocavano l’imbroglio e la giustizia si vendeva. Il diritto napoletano era dunque una foresta inestricabile e, come la foresta favorisce il brigantaggio, così il diritto napoletano, con i suoi inghippi offriva il mezzo più propizio per qualsiasi azione disonesta.
La città contava un avvocato o un notaio ogni centocinquanta abitanti, proporzione superiore a quella di tutte le altre città d’Italia.
Tutti erano dottori in legge, ma questa laurea, il più delle volte comprata a buon denaro contante al Collegio dei Dottori e non concessa dall’Università, non era affatto una garanzia di competenza. Tuttavia si univano ad essa dei vantaggi fiscali ed onorifici: una tale laurea conferiva una specie di dignità che permetteva al beneficiario di bazzicare con la nobiltà.
Gli uomini di legge vestivano secondo la moda spagnola: giacca nera con le maniche strette, calzoni neri, un lungo mantello ed il cappello senza fregi.
Poi conservarono il vestito nero per i giorni feriali ed adottarono per quelli festivi e di gala la moda francese al fine di confondersi con la nobiltà.
La Vicaria era il dominio di questo mondo del tranello dove lanciavano urla spaventose nel proferire ingiurie più grossolane. Da lì un altro modo di dire ancora in uso nel vocabolario popolare per indicare chi con toni alti prevarica gli interlocutori: voce da tribunale.
Il soprannome di paglia o paglietta, proveniente dal cappello di paglia che gli avvocati usavano portare d’estate, fu il nomignolo che il popolo diede a questa corporazione ignorante, venale ed odiata.
Tuttavia, si trovavano tra costoro anche persone amabili e colte che, sotto l’aspetto esteriore grezzo che avevano contratto a Napoli, nascondevano uno spirito sottile e cortese ed un cuore eccellente.
L’arrivo nella capitale il 10 maggio del 1734 di Carlo di Borbone, dopo un breve periodo di occupazione austriaca (1707- 1734 ) segnò l’inizio della rifondazione morale ed istituzionale del Regno.
Carlo di Borbone riuscì a dare un nuovo impulso economico e politico al Regno grazie alla collaborazione dello spagnolo Josè Joaquin Guzman del Montealegre, nominato Segretario di Stato, di formazione culturale riformatrice e convinto estimatore dei nuovi indirizzi economici che si stavano affermando in Europa.
Il nuovo Segretario di Stato per attuare le sue idee si circondò di numerosi esperti, alcuni dei quali provenienti dalla Toscana, tra cui Bartolomeo Intieri e Bernardo Tanucci, ed altri presenti nel mondo accademico del Regno, come Celestino Galiani e Antonio Genovesi.
Tutto ciò venne favorito principalmente dal pieno appoggio e dal consenso di Elisabetta Farnese, conosciuta anche come Isabel de Farnesio, moglie di Filippo V, il primo re di Spagna della dinastia dei Borbone, che inviò direttamente dalla Spagna cospicue risorse finanziarie indispensabili per creare un nuovo esercito, per la costruzione in breve tempo della strada per la Calabria, del teatro San Carlo, dei palazzi reali di Portici, Caserta e Capodimonte dell’Albergo dei Poveri e per dare inizio agli scavi archeologici di Ercolano e Pompei, che destarono l’ammirazione e l’invidia delle altre corti europee.
Dal punto di vista culturale, grazie all’impegno di Celestino Galiani si diede un nuovo impulso all’Università degli studi con l’istituzione di nuovi insegnamenti a carattere scientifico e, grazie a Bartolomeo Intieri, venne introdotta la cultura illuministica.
Gli intellettuali plaudivano al nuovo principe che era riuscito a ricostruire ed a dare dignità ad un Regno, per il quale valeva fornire il massimo impegno per l’attuazione di soluzioni scientifiche moderne nell’attività amministrativa, nel campo economico ed in quello legislativo.
Questo processo di sviluppo sociale ed economico ebbe però un’inversione di tendenza a partire dal 1759, quando Carlo di Borbone, dopo la morte del fratello Ferdinando IV, si trasferì sul tono di Spagna col titolo di Carlo III ed affidò il Regno di Napoli al suo terzo figlio, Ferdinando IV che,  per la sua giovanissima età venne affiancato da un Consiglio di Reggenza in cui spiccava la figura del ministro Bernardo Tanucci.
La parte di Ferdinando IV nel risveglio intellettuale di Napoli fu del tutto  insignificante: per quanto egli avesse il buon senso di rendersi conto della sua nullità e di rendere omaggio alla scienza, in fatto di cultura dovette lasciare campo libero alle fantasie intellettuali della consorte Maria Carolina d’Austria, così come approvò più tardi costei quando consacrò l’intelligenza al sacrificio.
Maledetti furono nei secoli tutto coloro che avrebbero riportato alla luce i sei mesi della Repubblica Napoletana, un momento indimenticabile nella storia di Napoli che ci pose all'avanguardia in fatto di cività in tutta l'Europa.
La maledizione di Maria Carolina oggi onora tutti noi ricercatori di verità. Nonostante l'ondata controrivoluzionaria che ancora opera per metterci a tacere e manipolare la storia, noi continuiamo nel nostro impegno, affinchè la memoria degli eroi del 1799 sia ricordata, compresa e conservata, quale bene inestimabile ed esempio per tutta l'umanità.



A.A.VV., Il Settecento, a cura di G. Pugliese Caratelli, Napoli 1994, p. 42 e ss.
R. Bouvier A. Laffargue,  Vita napoletana del XVIII sec., Napoli, 2006, p.31 e ss.
B. Croce, Storia del Regno  di Napoli, ristampa a cura di G. Galasso, Milano, 1992, p.259.
A. Orefice, Giorgio Vincenzio Pigliacelli, Avvocato tra Massoneria e Rivoluzione, Ministro e Martire della Repubblica Napoeltana del 1799, Napoli, 2010
http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1250:il-regno-di-napoli-tra-i-vicere-e-i-borbone&catid=86:storia-xviii-sec&Itemid=28

lunedì 1 luglio 2013

MISERIA E OPPRESSIONE NEL REGNO DELLE DUE SICILIE (1847)



Gli stranieri che vengono nelle nostre contrade, guardando la serena bellezza del nostro cielo e la fertilità de' campi, leggendo il codice delle nostre leggi, e udendo parlar di progresso, di civiltà e di religione, crederanno che gl'italiani delle Due Sicilie godono di una felicità invidiabile. E pure nessuno Stato di Europa è incondizione peggiore della nostra, non eccettuati nemmeno i turchi, i quali almeno sono barbari, sanno che non hanno leggi, son confortati dalla religione a sottomettersi ad una cieca fatalità, e con tutto questo van migliorando ogni dì; ma nel Regno delle Sicilie, nel paese che è detto giardino d'Europa, la gente muore di vera fame e in istato peggiore delle bestie, sola legge è il capriccio, il progresso è indietreggiare ed imbarberire, nel nome santissimo di Cristo e oppresso un popolo di cristiani. Se ogni paesello, ogni terra, ogni città degli Abruzzi, de' Principati, delle Puglie, delle Calabrie, e della bella e sventurata Sicilia, potesse raccontare le crudeltà, gl'insulti, le tirannie che patisce nelle persone e negli averi; se io avessi tante lingue che potessi ripetere i lamenti e i dolori di tante persone, che gemono sotto il peso d'indicibili mali, dovrei scrivere molti e grossi volumi; ma quel pochissimo ch'io dirò farà certo piangere e fremere d'ira ogni uomo, e mostrerà che i pretesi miglioramenti che fa il nostro governo, sono svergognate menzogne, seno oppressioni novelle più ingegnose. Questo governo è un'immensa piramide, la cui base è fatta da' birri e da' preti, la cima dal re: ogni impiegato, dall'usciere al ministro, dal soldatello al generale, dal gendarme  al ministro di polizia, dal prete al confessore del re, ogni scrivanuccio è despota spietato, e pazzo su quelli che gli sono soggetti, ed è vilissimo schiavo verso i suoi superiori. Onde chi non è tra gli oppressori, si sente da ogni parte schiacciato dal peso della tirannia di mille ribaldi: e la pace, la libertà, le sostanze, la vita degli uomini onesti, dipendono dal capriccio, non dico del principe o di un ministro, ma di ogni impiegatello, di una baldracca, di una spia, di un birro, di un gesuita, di un prete.  

Luigi Settembrini 1847

mercoledì 26 giugno 2013

1794, Tommaso Amato, condannato a morte dal borbone per una bestemmia

Scritto da Antonella Orefice   

Mercoledì 26 Giugno 2013 14:22
Una decapitazione di cadavere: Caravaggio, David con la testa di GoliaNel 1794, negli ambienti di corte il terrore dei giacobini fu  tale che ogni episodio, anche il più insignificante, suscitò eccessive preoccupazioni ed ingiustificati allarmi, per cui non fu possibile tollerare neppure il gesto di un folle, quale in effetti  fu  il messinese Tommaso Amato.
In una innocua manifestazione di singola intemperanza si ravvisò un grave delitto di lesa maestà.
Tommaso Amato fu giustiziato il 17  maggio 1794  in piazza Mercato solo per aver  inveito verbalmente contro la monarchia durante una funzione religiosa nella chiesa del Carmine Maggiore.
Arrestato con l’accusa di lesa maestà divina ed umana,  non solo gli furono recise  mani  e  testa, ma prima subì lo “strascino” e l’estirpazione della lingua, di poi il cadavere fu bruciato e le ceneri sparse al vento.
(In esclusiva per i lettori del Nuovo Monitore Napoletano, si allega alla fine al presente articolo il documento originale sulle modalità di esecuzione della sentenza di morte, tratto dai Registri della Congregazione dei Bianchi della Giustizia)
Il processo di sviluppo sociale ed economico nel regno delle due Sicilie ebbe un’inversione di tendenza a partire dal 1759, quando Carlo di Borbone, dopo la morte del fratello Ferdinando IV, si trasferì sul trono di Spagna col titolo di Carlo III ed affidò il Regno di Napoli al suo terzo figlio, Ferdinando IV che, per la sua giovanissima età venne affiancato da un Consiglio di Reggenza in cui spiccava la figura del ministro Bernardo Tanucci.
La parte di Ferdinando IV nel risveglio intellettuale di Napoli fu del tutto  insignificante: per quanto egli avesse il buon senso di rendersi conto della sua nullità e di rendere omaggio alla scienza, in fatto di cultura dovette lasciare campo libero alle fantasie intellettuali della consorte Maria Carolina d’Austria, così come approvò più tardi costei quando consacrò l’intelligenza al sacrificio.
Maria Carolina, più matura negli anni rispetto a Ferdinando, di carattere forte, autoritario e molto ambiziosa, riuscì ad avere un rapporto di collaborazione costante con gli intellettuali napoletani, a differenza del marito che non aveva ricevuto una formazione culturale adeguata al suo rango.
Mentre Ferdinando IV continuava a coltivare i suoi interessi per la caccia e le feste di corte, così come era abitudine della gran parte della aristocrazia napoletana, ben presto la direzione amministrativa del Regno passò alla moglie.
Nuovo impulso fu dato all’istruzione, dopo la cacciata dei Gesuiti e la confisca dei loro beni nel 1767, con l’istituzione di scuole in ogni comunità, di convitti per nobili in ogni provincia e nuove cattedre universitarie.
L’arrivo di Maria Carolina favorì anche la rinascita della Massoneria napoletana, messa al bando da Carlo di Borbone con un editto nel 1751, e la stessa Carolina vi aderì come adepta.
Ciò acuì i contrasti con il ministro Tanucci, ma la regina riuscì, con accorta diplomazia, ad allontanare quel ministro troppo vecchio, pretendendo di partecipare a pieno titolo al Consiglio di Stato, circondandosi di esperti stranieri vicini alla Corte Austriaca, tra cui Giovanni Acton.
Il rapporto tra monarchia e riformatori raggiunse l’apice nel 1789 con l’inaugurazione della Colonia di San Leucio: la parte iniziale di un progetto ben più ambizioso e mai completamente realizzato, che doveva concretizzarsi nella costruzione della nuova città di Ferdinando, concepita con criteri urbanistici innovativi ed una moderna organizzazione sociale, frutto delle elaborazioni teoriche propagandate nel circoli riformatori.
Il connubio tra monarchia e riformatori iniziò a vacillare dal luglio del 1789, quando giunsero dalla Francia notizie relative alla presa della Bastiglia e la decapitazione della regina Maria Antonietta, sorella di Maria Carolina.
Le idee di Libertà Uguaglianza e Fratellanza divenute irrefrenabili, echeggiavano nei neo club repubblicani napoletani formatisi in seno alla Massoneria.
Iniziò così il decennio delle congiure e delle persecuzioni: la rivoluzione e la Repubblica Napoletana del 1799.
Introdotta come legge dello Stato con rescritto del 21 luglio del 1771, la Lex Julia majestatis prevedeva pene severissime per chiunque partecipava ad una congiura, escludendo ogni beneficio o diminuzione della pena e contro i rei si procedeva ad modum belli.
Era questo  un rito eccezionale in cui il termine a difesa era brevissimo: conclusa rapidamente l’istruttoria senza osservarne i normali termini, comunicata la sentenza, venivano concesse poche ore al difensore per prendere visione degli atti e preparare la memoria difensiva.
Difensore celebre per gli accusati di Lesa Maestà  del 1794 fu Mario Pagano. Contro la dottrina e la consolidata giurisprudenza napoletana, il Pagano sostenne l’insussistenza dell’illecito nel tentativo di cospirazione, in altre parole, sostenne il principio che non si poteva ritenere reo colui che non veniva raggiunto da prove che dimostrassero l’accusa.
Tentò inoltre di richiamare l’attenzione di chi doveva giudicare sullo stato di tensione in cui si trovavano  coloro che avevano finito per ammettere tutto ciò che avevano voluto gli inquirenti, sotto tortura.
Stimata regina tormentorum per l’intenso dolore che essa procurava, era la tortura acre con funicelle. Si allacciavano dapprima i polsi rivolti dietro la schiena del  reo con una cordella rotonda e la si stringeva fino a lacerarne le carni. Poi se ne allacciava un’altra alle braccia e lo si sollevava.
Difensore impavido di una causa perduta, Mario Pagano tentò di demolire l’accusa ponendo in evidenza contraddizioni che soltanto la passione del difensore riusciva a vedere in un processo che invece dimostrò la sussistenza di un fatto che le leggi del tempo ritenevano un grave delitto di lesa maestà punibile con le pene più severe. I giudici si attennero alla legge ed alle prove raccolte e la sentenza fu quella più temuta: tre condannati a morte, Emmanuele De Deo, VincenzoVitaliano e Vincenzo Galiani e molti condannati a vita o a lunghe pene detentive.
Emmanuele De Deo, Vitaliano e Galiani, sono stati considerati i primi martiri della rivoluzione napoletana e si omette di ricordare che il primo martire fu, invece, Tommaso Amato.

Sentenza di morte per Tommaso Amato. Archivio Storico Diocesano di Napoli.
Registri della Congregazione dei Bianchi della Giustizia.
Anno 1794, Vol.371, p. 27v.


Nel giorno di domani, Sabato 17 dell’andante mese, devesi eseguire la sentenza di morte nella Piazza del Mercato, precedente trascino in persona di Tommaso Amato messinese, con l’espiazione di pena di strapparvi la di lui lingua, recidere la testa e mani ed indi bruggiarvisi tutto, con di pio spargersi per aria la cenere giusta la sentenza proferita dalla Suprema Giunta di Stato per il suo reato di Lesa Maestà Divina ed Umana, che perciò prego V.S. Ill.ma…  di mandare Codesta Regia Compagnia de’ Padri in Vicaria, alle ore diciassette in punto, acciocchè li fanno la Carità di esortarlo a ben morire. Condona V.S. Ill.ma…  di tal incomodo, sempre fidato alla sua Carità, teggo umilmente baciante le sacre mani. Di VS. Ill.ma…

Bibliografia
A. Orefice, G. V. Pigliacelli, Avvocato tra Massoneria e Rivoluzione, Ministro e Martire della Repubblica Napoletana del 1799, Guida, Napoli 2010
B. Croce, Storia del Regno  di Napoli, ristampa a cura di G. Galasso, Milano, 1992
T. Pedio, La congiura giacobina del 1794  nel Regno di Napoli, Bari, 1986
M. Pagano, Progetto di costituzione della Repubblica napoletana presentato al Governo Provvisorio dal Comitato di Legislazione. Introduz. A. Maria Rao, Gorizia, 2008
Ultimo aggiornamento Mercoledì 26 Giugno 2013 15:01

giovedì 20 giugno 2013

1799 - Per ordine di "sua maestà" far sparire tutte le carte dai processi e dagli archivi

Nessuno doveva più ricordare. Tutto doveva essere messo a tacere.
La Repubblica Napoletana ed i martiri del 1799 dovevano essere sottratti alla memoria dei posteri.
Per la loro rarità, i documenti dell’epoca, sfuggiti al rogo della censura borbonica, sono divenuti dei veri e propri oggetti sacri; nonostante, infatti, la brevità della parabola temporale, nonché la feroce repressione, la Repubblica Napoletana segnò la storia del Meridione indelebilmente e, più in generale, quella dello sviluppo della democrazia in Italia.
Questa la trascrizione dell’ordine emanato dal Cardinale Ruffo il 18 settembre 1799. Di seguito pubblichiamo il documento originale.

Alla Curia per la pronta esecuzione.  Ill.mo sign. Da sua Eminenza il Cardinal Ruffo si è comunicata a questa Reale  Seg.ria di Stato e all’Ecclesiastica.
La sua  risoluzione al tenor seguente = Avendo rassegnati al Re la Rapp.a di S. Em.za al ‘17 dello scorso Agosto relativa alle decisioni fatte nel tempo della papata Rivoluzione dai Tribunali della Capitale e al Regno a nome della corrutta sedicente Repubblica Napoletana;
S. M. ha risoluto, e comanda che le decisioni proferite secondo le leggi formate dal preteso Governo Provvisorio, o secondo lo spirito degli infami principi democratici , tanto dagli antichi Magistrati quanto dai giudici novellamente eletti dalla sedicente Repubblica, o per effetto dei di lei imbrogli, restino del tutto nulle e si abbiano come non fatte =

Volendo poi S.M. far uso della sua Clemenza ed Autorità, si è degnata e viene in accordare una sanatoria a quei decreti, decisioni ed ordini emanati a tenore delle leggi Monarchiche vigenti nel tempo della invasione de’ Francesi.
A qual uopo vuole e comanda la M.S. che si commetta alla R.Camera di Santa Chiara, perché proponga i mezzi da operarvisi per togliere dai Processi tutte le carte  confacenti: la qual norma deve essere ancora eseguita per le scritture di simile natura esistenti negli Archivi ed altri luoghi pubblici, ed anche per le scritture dei privati che ne vogliono far uso in Giudizio.
La suddetta R. Segreteria Ecclesiastica lo partecipa di tal ordine  a E.S.V per l’intelligenza della curia di Napoli, e alla congregazione Apostolica delegata per l’uso che conviene per la corrispondente esecuzione. Palazzo 18 settembre 1799.








Ultimo aggiornamento Domenica 23 Giugno 2013 20:44


Scritto da Antonella Orefice   e tratto da: http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1236%3A1799-per-ordine-di-qsua-maestaq-far-sparire-tutte-le-carte-dai-processi-e-dagli-archivi&catid=64%3Aarticoli-sul-1799&Itemid=28

mercoledì 19 giugno 2013

Antonella Orefice risponde al cialtronume analfabeta dello spagnolismo


La Storica napoletana Antonella Orefice
Antonella Orefice "colpevole" di avere scritto un libro sulle stragi borboniche, nel microcosmo napoletano, si accosta a  Salman Rushdie che nel 1988 venne perseguitato e condannato per i suoi "Versetti Satanici".
Insultata e minacciata da questi neo - ayatollah", la storica napoletananon si lascia intimidire e risponde con una lettera al giornalista del "Il Mattino", Gigi Di Fiore, che ha ospitato nel suo blog un convegno di agguerriti neoborbonici.
E ' una vicenda molto grave perche' riemerge la intolleranza e il fanatismo di certi personaggi che per qualche motivo hanno terrore della verità.
Centinaia di messaggi di solidarietà sono pervenuti alla storica da parte di esponenti del mondo accademico, storici ed amici dei network.
scritto  da Pasquale Nuccio Benefazio   

" Gent.mo Dott. Di Fiore,

probabilmente lei è venuto a conoscenza del mio nome solo in queste ultime ore, a seguito della polemica innescata dalla recensione che Mario Avagliano ha scritto su Il Mattino per il mio ultimo lavoro.
Non le nascondo che la cosa (la polemica intendo), mi sorprende e non poco, dal momento che non è la prima volta che i miei studi di ricerca hanno occupato le pagine culturali delle testate nazionali.
Non sono venuta a rispondere sul suo blog perchè già sono stata abbastanza "lapidata" da insulti, minacce e diffamazioni da parte del movimento neoborbonico, per il quale si è smosso finanche un sedicente "parlamento delle due sicilie" (il minuscolo è voluto perchè non riconosco altro parlamento se non quello della Repubblica Italiana).

Con Gennaro De Crescenzo, il presidente del movimento neoborbonico, dopo una serie di botte e risposte,  la polemica si è chiusa (spero) con un pacifico "tu ti tieni i tuoi ideali io mi tengo i miei".
Non entro ora con lei nel merito della storia del 1799, posso comprendere la divergenza di opinioni, ma mi preme farle tener presente che taluni personaggi (presenti in queste ore a commentare sul suo blog) si sono arrogati il diritto di offendere a più riprese, oltre che il mio operato, anche la mia persona.
Cosa incivile ed intollerabile che mi riservo di perseguire ai fini di legge. Dopodichè hanno avuto anche il coraggio di venirmi a proporre dibattiti. Ma con chi? Su cosa? Sul 1799 o sulle loro palesi velleità politiche? Nessuna persona di buon senso ed a cui è stato insegnato soprattutto il rispetto e la buona educazione, accetterebbe un confronto con gente che non tollera chi esprime un dissenso e usa la violenza verbale.
I lavori di ricerca che pubblico da anni anche per i maggiori enti culturali di Napoli (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Società Napoletana di Storia Patria, Archivio per la Storia delle Donne) e riviste nazionali ed internazionali (Studium, Officinae) sono tutti corredati di documenti di archivio riprodotti in anastatica.
Mi attaccano, mi danno della sedicente storica, dell'azzeccagarbugli etc.. etc.. ma da questo blaterare ciò che si evince è che nessuno degli intervenuti al convegno neoborbonico apertosi sul suo blog, ha mai letto alcuno dei miei libri. Parlano tutti per odio preconcetto, luoghi comuni.
Antonella Orefice è la "giacobina" da mandare al patibolo, Mario Avagliano anche, e loro incarnano quel popolo che gridava "Viva o Re". Voglio sperare che non si daranno anche a scene di cannibalismo come accadde allora (sic)
Vi lascio fare, è evidente che non hanno altre occupazioni nella vita e la disoccupazione dilaga.
Umanamente capisco che c'è bisogno ogni tanto di una valvola di sfogo, e che questa gente ha bisogno di qualcosa in cui credere e difendere. La sottoscritta, con il suo ultimo libro, e Mario Avagliano con la sua recensione, hanno osato mettere in discussione il loro dio. Mi dispiace per loro, ma non sarà certo questo che censurerà i miei lavori di ricerca.
Come loro hanno i loro ideali io ho i miei, che vanno anche oltre lo specifico del 1799. Amo la verità, i documenti veri e soprattutto credo nella giustizia del tempo. La damnatio memoriae inflitta dal Borbone sui fatti del 1799, con la maledizione di Maria Carolina annessa, non mi ha mai intimorita.
Non pubblico chiacchiere, ma documenti veri da cui si evince quel pezzo di storia a cui, ora come allora, si cerca di mettere il bavaglio. Per me la grandezza della gente di Napoli non sta nei Borbone, ma in quelle menti lungimiranti che persero la vita sul patibolo.
Concludo ringraziandola per aver dato ai signori neoborbonici un luogo in cui sfogare la loro rabbia. La ringrazio sinceramente perchè sono stanca di stampare messaggi di offese e bannare decine e decine di diffamatori.
Dal suo blog a stampare faccio prima, anzi, lo lascio fare a chi di dovere perchè, francamente, ho delle cose più importanti a cui pensare. Le chiacchiere degli esaltati mi deprimono e poi... siamo sinceri... lasciano il tempo che trovano.
Detto questo le auguro un buon proseguimento e divertimento".

Antonella Orefice

venerdì 14 giugno 2013

Quei massacri ordinati dai Borbone


Il patriota Luigi Settembrini così descriveva nel 1847 il Regno delle Due Sicilie

«Nel paese che è detto giardino d’Europa, la gente muore di vera fame e in istato peggiore delle bestie, sola legge è il capriccio». E Carlo Pisacane, in una lettera a Giuseppe Fanelli, uno dei pugliesi dei Mille, affermò che anche il Sud aveva dei doveri tremendi perché “ha sul collo una di quelle tirannidi che degradano chi le sopporta”.

Gianni Oliva nel suo recente saggio Napoli e la Sicilia: un regno che è stato grande (Mondadori), ha invece sostenuto che dal 1734 al 1861 il Mezzogiorno visse un grande fervore intellettuale e di rinnovamento sociale, non negando però che il regime borbonico si distinse per la sua opera di repressione dei patrioti.
Ma chi furono davvero i Borbone? Sovrani illuminati, mecenati del progresso, costruttori di un Mezzogiorno moderno e avanzato, oppure regnanti dispotici e illiberali, pronti a sopprimere ogni anelito o aspirazione alla democrazia e alle riforme, anche ricorrendo a mercenari e banditi? 

I ghigliottinati
Un nuovo lavoro di Antonella Orefice, Termoli e Casacalenda nel 1799. Stragi dimenticate (Arte Tipografica Editrice, pp. 101, euro 12), appena pubblicato, fornisce nuovi elementi a chi propende per la seconda tesi, proponendo la ristampa anastatica di due manoscritti dell’epoca che parlano delle stragi avvenute nel febbraio di quell’anno in due città del Molise che, durante i mesi della nascente Repubblica Napoletana, furono devastate dalle orde sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo di Calabria, al quale i Borbone, per tentare di arginare il fenomeno rivoluzionario, avevano affidato il duro compito della repressione.
L’esercito del cardinale, sbarcato il 7 febbraio in Calabria, si macchiò di efferati delitti nella sua avanzata verso Napoli (che occupò nel mese di giugno). Gli omicidi in primo piano in questo libro sono quelli dei fratelli Brigida, due giovani patrioti che furono trucidati, assieme ad altri compagni, a Termoli, e quello di Domenico De Gennaro, un giudice di Casacalenda che aveva sostenuto le idee repubblicane.
Le storie sono narrate nei dettagli: la strage di Termoli, da un testimone oculare dei fatti, Teodosio Campolieti, e quella di Casacalenda, da padre Giuseppe La Macchia, il parroco del paese, che fu anche protagonista dei fatti.
Gli elementi che accomunano i due memoriali sono essenzialmente tre: i patrioti vittime di tradimenti ed inganni, la devastazione dei luoghi, e la pietas cristiana invocata sia per i vincitori che per i vinti, nel memoriale su Termoli, dalla madre dei fratelli Brigida, ed in quello su Casacalenda, dal sacerdote La Macchia.
Si tratta, insomma, di due testimonianze forti delle atrocità commesse in Calabria, Puglia, Molise e Basilicata dall'esercito dei sanfedisti, costituito da mercenari albanesi, contadini del luogo ed avanzi di galera liberati per l'occasione dal cardinale Ruffo con la promessa di un lauto bottino di guerra.

Altamura, ad esempio, venne sottoposta ad assedio e a causa dell’intenso cannoneggiamento, dovette soccombere. Non vennero risparmiati vecchi, donne e bambini; alcuni conventi di suore furono profanati e la città venne data alle fiamme e saccheggiata dalle truppe sanfediste. Le stesse stragi si ripeterono ad Andria e a Trani e Gravina venne saccheggiata e data in premio ai mercenari.
Altre stragi o fucilazioni sommarie si registrarono nei decenni successivi. Un caso esemplare: nel Cilento, definito dalla polizia borbonica la “culla del ribellismo meridionale”, nel 1829 i fratelli Patrizio, Domenico e Donato Capozzoli, tutti e tre patrioti, catturati, furono fucilati a Palinuro e le loro teste mozze portate in giro nei paesi vicini per servire da monito alle popolazioni.

Il libro della Orefice segue quello precedente, Il Pantheon dei Martiri del 1799,  e i manoscritti proposti nel libro provengono dallo stesso fondo archivistico di Mariano D'Ayala, con annessa trascrizione e note introduttive della Orefice, dello storico fiorentino Luigi Pruneti e dell'avvocato Mario Zarrelli.
I fratelli Brigida e Il giudice Domenico De Gennaro sono tre dei tanti patrioti oscuri e sconosciuti del Mezzogiorno che tra la fine del Settecento e la seconda metà dell’Ottocento animarono le lotte riformiste contro i Borbone e il Risorgimento italiano. Spiega la Orefice: “La mia vuole essere una risposta a chi,  negli ultimi tempi, sta tentando un revisionismo storico sul Risorgimento, santificando i briganti e considerando traditori del regno i nostri martiri del 1799. Dai memoriali traspare la vera natura di quanti combatterono per il Borbone, perché lo fecero e da quanto vero "amore per la terra" furono mossi. Come sempre ho lasciato parlare i documenti, quelli veri, quelli scomodi”.
di Mario Avagliano

(Il Mattino, 14 giugno 2013)