giovedì 12 dicembre 2013

Il sacerdote – poeta Luigi Rossi martire della Repubblica Napoletana del 1799


Leggendo le motivazioni della condanna a morte del sacerdote - poeta Luigi Rossi , non si può non provare un senso di orrore per come si poteva morire per le idee espresse in forma di poesia civile.








“Luigi Rossi, per essere stato parimenti Ministro dell’Alta Commissione Militare e per essere intervenuto nelle dette tre decisioni di cause capitali; per aver dato alle stampe alcune scellerate composizioni per lo bruciamento delle bandiere e delle sacre immagini reali e di tutti gli scritti favorevoli al trono, e per il Catechismo Repubblicano, e per essere stato finalmente ascritto nei libro dei giurati della Sala Patriottica, è stato condannato ad essere afforcato nella Piazza del Mercato colla confisca dei beni.”
Come si evince dalla condanna, la colpa più grave del sacerdote Luigi Rossi non fu nelle cariche pubbliche ricoperte, ma nella sua attività pubblicistica e di poeta. D’altronde la poesia era per Luigi Rossi l’interesse principale prima e dopo la Repubblica Napoletana del 1799.

Dal 1799 le sue liriche furono dei veri e propri inni alla Repubblica.
 Luigi Rossi, originario di Montepaone in Calabria ove era nato il 20 gennaio 1769 era, come lo descrive Mariano Ayala, dopo aver osservato un suo ritratto ad olio «bellissimo nel viso, occhi scintillanti, ampia fronte, nudo il collo».
Nel seminario di Catanzaro ebbe come insegnante di matematica e filosofia l’abate Gregorio Aracri, che gli infuse il fuoco del libertarismo e al tempo stesso lo iniziò ai misteri della libera muratoria.
Passato in Napoli fu dottore in «utroque iure» e aprì uno studio legale. Ma più che la toga, lo allettarono la passione poetica e l’impegno politico supportato dalle dottrine illuministiche provenienti dalla Francia.
Poco più che ventenne fu membro della Società Patriottica e, quando questa nel 1794 si sciolse, aderì al club giacobino «Libertà o Morte».
Fondò e gestì infine una loggia massonica nel suo paese natio, nel rione Cittadella. Qui, secondo quanto riferirà in seguito l’arciprete sanfedista Gian Vincenzo della Cananea, «questo Luigi Rossi insegnava ai giovani nefande dottrine ultramontane in una misteriosa casa che tra loro chiamavano Sala di Zaleuco».
Luigi Rossi era, però, essenzialmente un poeta che mise la sua ispirazione lirica al servizio della Repubblica Napoletana, dopo un periodo precedente in cui i suoi componimenti erano stati tipicamente arcadici e neoclassici.
Basta ricordare la sua Ode “Il Bacio“ in cui ritroviamo tutto il classicismo della su apoetica. Ben diversi sono i componimenti  “repubblicani” per cui fu condannato alla forca.
“Cittadini nel sangue aborrito/ Beh venite a bagnarvi la mano/ E’ ben folle chi mostrasi umano/ Con chi tratta de’ Regi il pugnal/”Quindi un più che deciso invito a lottare contri i Troni le cui ragioni Rossi esplicita non solo nel Catechismo Repubblicano, ma nel canto “I diritti dell’uomo”:Sono dell’uomo i primi diritti Uguaglianza e Libertà/Non v’è servo né signore/ Vincitor non v’è né vinto/ Sol dall’un all’altro è distinto/ Per comune utilità/.
A seguire un riferimento chiaro allo stato di Natura di Rousseau:
Dallo stato di Natura/ Venne l’uomo alla Città/ Ma non turba il social nodo/ L’uguaglianza de’mortali /Tutti liberi ed uguali /Sono ancora in società/.
Rossi fu autore anche dell’inno ufficiale della Repubblica Napoletana, musicato da Domenico Cimarosa “l’Inno patriottico per lo bruciamento delle insegne dei tiranni”,  che gli attirò maggiormente l’ira vendicativa di Ferdinando IV.

Erano i nobili ideali dell’uguaglianza e della libertà ad animare l’opera poetica del Rossi, convinto che solo il Popolo è sovrano in una democrazia repubblicana , una tesi pericolosa per i Borbone e che avrebbe condotto il sacerdote - poeta alla condanna a morte per impiccagione.
La sentenza di morte fu emessa dalla Giunta di Stato il 10 ottobre ed eseguita  il 28 novembre.
Pubblicato sul Monitore Napoletano, l’autorevole foglio diretto da Eleonora Fonseca Pimentel, l’Inno patriottico fu riprodotto in migliaia di fogli volanti e cantato dai rivoluzionari, il 19 maggio in piazza Plebiscito, alla festa dello «bruciamento delle bandiere borboniche» allorché fu piantato l’albero della libertà.
Con quelle note sussurrate a fior di labbra «il fior fiore intellettuale e morale della nazione», come scrisse Benedetto Croce, salì il patibolo per quello che non a torto viene considerato il primo forte, ancorché debole, impulso al processo risorgimentale.
di Angelo Martino

martedì 10 dicembre 2013

La poesia di Ignazio Ciaia, patriota e martire della Repubblica Napoletana del 1799 Stampa


Ignazio Ciaia (Fasano 1776 - Napoli 1799), martire della Repubblica Napoletana del 1799, era un giovane borghese di buona famiglia che sacrificò ogni ricchezza per la libertà e la causa rivoluzionaria.
Rinchiuso a Sant’Elmo per le sue idee repubblicane nel 1794, superò quei momenti terribili , ritrovando nella poesia una forte  ispirazione al punto che, non avendo strumenti  per scrivere, memorizzava le sue liriche e le ripeteva al compatriota Mario Pagano.
Era una strenua difesa del suo essere, propria di quegli uomini liberi che sapevano ricorrere al sublime nella sofferenza dell’oppressione.
Durante i gloriosi mesi della Repubblica Napoletana Ciaia rivestì la carica di Presidente, dopo Carlo Lauberg.
Dimostrò le sue alte qualità di statista con competenza nell’organizzazione dello Stato repubblicano democratico con l’affermazione dei princìpi egualitari, come testimonia in particolare un proclama del 23 febbraio che contiene le linee generali della costituzione della Repubblica, in un ambizioso progetto di alfabetizzazione degli adulti per “dissipare le tenebre dell’ignoranza”e consentire al popolo di affrancarsi dallo stato di servitù.
Erano le idee di Montesqieu, di Voltaire, ma soprattutto dei grandi illuministi napoletani, da Ferdinando Galiani a Pietro Giannone, da Gaetano Filangieri ad Antonio Genovesi.
La passione per la poesia rappresentava per Ciaia,  un ideale di affrancamento dalla schiavitù sulle orme di Dante, Petrarca e Vittorio Alfieri. Dalla sua produzione poetica si evince il pensiero politico mirato all’instaurazione di un modello di società fondato sulla libertà, l’uguaglianza repubblicana e la giustizia.
La poetica di Ciaia consta di due “momenti”, un primo caratterizzato da toni intimistici, didascalici, e un secondo in cui prevalgono  i temi civili, politici con toni decisamente più riflessivi e sentimenti più autentici.
Una ricorrente malinconia preromantica legata al pensiero della morte pervade le opere scritte durante la prigionia.
Al primo “momento” di poesie appartengono quelle dedicate alla donna amata, Celeste Coltellini:  “Partendo da Napoli per Vienna” ed “Alla luna”,  in cui si ritrova una poetica legata alla tradizione preromantica, dove la natura costituisce una presenza costante nel suo aspetto idilliaco, arcadico.
Il passaggio tra il primo ed il secondo “momento” avviene con la lirica “Al P.D, Emanuele Caputo villeggiante in Portici” dedicata al suo maestro di filosofia, storia e letteratura, dove inizia ad emergere l’impegno prettamente civile, e la natura poetica sentimentale lascia il posto ad argomenti di trattazione propria della poesia illuministica, considerata di carattere più elevata:
“Non fia giovan Vate unica cura /Invocare l’astro condottier del canto, / Sol quando Amor l’alta possanza adopra”
Rivolgendosi al suo maestro, padre benedettino, il poeta mostra tutta la sua riconoscenza per una libertà di pensiero inculcatogli:
“Io da te l’ebbi: tu prima m’apristi Del vero i fonti, e l’avid’alma allora Vide se stessa, e a contemplarsi apprese… Leggiera e snella Vedasi mai dalla prigion dischiusa/ Sulle rinate varianti piume Uscir farfalla e con inastabil giro/ Di siepe in siepe ir visitando i campi? /Ah! Tale io fui, poiché dal lungo assorto Meditar di me stesso, al chiuso spirto/ Concessi alfin la libertà delle ali .”
La si può definire la “lirica della transizione” e  che costituirà l’incipit del secondo “momento” di componimenti degli anni 1794 - 1798, anni di impegno ideale, civile e politico del poeta al servizio della Repubblica- Ignazio Ciaia diventa “il primo poeta civile del Risorgimento”.
Tra questi ultimi componimenti ricordiamo “A Carlo Lauberg”, in cui si rivivono i momenti drammatici della repressione borbonica e della fuga di Lauberg a Parigi ,” Alla Francia” con i successi di Napoleone Bonaparte che riaccedono le speranze di libertà repubblicana. Molto marcato, in questi versi , è l’odio del poeta verso la tirannia, il profondo desiderio di una giustizia sociale, l’amore per la  libertà:
No, non fia ch’io veggia/ Con iniqui intervalli ognor distinte/ La capanna e la reggia/ Né che trapassi ancor la gloria e il merto/ Delle vetuste immagini dipinte/ Non fia che un dritto incerto/Sempre il reo ch’è forte/ assolver deggia/ Alle futuri genti Passi l’esempio di ardir la nostra etade/
“A Vincenzo Notarangelo” e l’ode “ E’ notte alfine” sono poesie intrise di sofferenza per lo stato di prigionia. Il pensiero dell’autore è rivolto alla caducità delle cose umane, la sofferenza dei patrioti, la loro dura sorte. Erano quei sentimenti che aveva avuto modo di esternare nella lettera a suo fratello il 6 marzo 1799, negli anni fulgidi della Repubblica, ma in cui si ravvisava quanta sofferenza, lotta e dolore costasse l’amore per la libertà:
 “Io sto bene ancora, ma ipocondriaco. L’anima mia avrebbe voluto ad un istante tutti felici, ma trovo che sogno sì caro non è facile a realizzarsi. Non mi perdo però di coraggio e tiro al meglio innanzi la gran soma. Dammi di te ottime nuove. Rammentando quanto ti amo, ti sarà facile intendere quanto le aspetti.”
Con la caduta della Repubblica e la restaurazione borbonica Ignazio Ciaia fu dapprima incarcerato, e nonostante una falsa promessa di espatrio in Francia, ascese al patibolo in piazza Mercato  il 29 ottobre 1799. Con lui  Domenico Cirillo, Mario Pagano e Giorgio Pagliacelli, compagni di vita e di morte.
di Angelo Martino  

martedì 26 novembre 2013

Un caso di vergogna e tradimento dei Borbone nella lotta al Brigantaggio


Lo storico Enzo Ciconte definisce l’assassinio del brigante Gaetano Vardarelli da parte dell ‘esercito borbonico nel 1818 “un omicidio di Stato, criminale , a sangue freddo”. 
Come abbiamo evidenziato, tornato nel 1815 sul trono, il re Borbone si era ritrovato già nel 1816 , con una lista di “fuorbandi”, scorridori armati” in Calabria, Basilicata, Molise e Campania, i cui principali esponenti erano i briganti Vito Caligiuri, Carlo Cironti, Paolo Negro detto Pecora, Emanuele Greco e i fratelli Vardarelli. 
La banda dei Vardarelli era così chiamata perché la famiglia dei capi esercitava l’arte del “vardaro “ che in dialetto indica gli artigiani che producono o riparano basti, selle. Il vero cognome dei Vardarelli era Meomartino e nell’ atto di nascita in Celenza Valfortore Gaetano è iscritto infatti come nato il 13 gennaio 1780 da Pietro Meomartino e Donata Iannantoni. La banda era formata anche i suoi due fratelli Geremia di anni 29 e Giovanni di anni 25, due donne, di cui una era sua sorella, e complessivamente erano 50 elementi. La compagnia aveva disciplina militare, vestiva una divisa, ognuno era armato di sciabola, fucile, baionetta. La banda si mostrava attiva e aveva sempre la meglio contro l’esercito borbonico al punto che viene mandato in Puglia Filippo Cancellier , ispettore della gendarmeria reale con poteri eccezionali. Intanto si fa strada la convinzione che la distruzione della banda per via militare è impossibile e, per suggerimento degli stessi alti ufficiali che avevano comandato le truppe, il governo borbonico , confessando la propria incapacità di sconfiggere la banda, approva il 6 luglio 1817 un patto col quale si concordava che tutti i membri della banda godessero di uno stipendio con il compito di agire contro i malviventi del Regno. L’accordo, accettato dai Vadarelli previa una Santa Messa e discorso d’occasione alla presenza delle autorità militari, fu giurato l’11 luglio 1817 nella Chiesa della Masseria Carignani. 
Tuttavia il fatto che il Valdarelli “sia diventato da brigante in sbirro al soldo dei Borbone pone più problemi di quanti ne risolva “ scrive Enzo Ciconte, facendo riferimento ad una somma ingente pagata dal governo borbonico. Il partito contrario ai Vardarelli faceva capo al generale Amato, acerrimo loro nemico e influente presso il Governo e la Corte reale. Così a Gaetano Vardarelli fu riservato un tranello ben congegnato su ordine del generale Amato e aventi quali esecutori il tenente Campofreda e Paolo Antonio Grimaldi , un ricco signorotto del luogo che lo riteneva responsabile dello strupro di una sua sorella. Il Gen. Amato, ordina al Vardarelli di recarsi in Larino , particolarmente infestato dal brigantaggio e Il 2 aprile 1918 i Vardarelli sono a S. Martino in Pensilis e qui il capo Gaetano, la compagna Annamaria Durante e il segretario particolare, sono ospiti del sindaco Antonio Sassi. La mattina dell’ 8 aprile la Durante con 12 armati si trasferì in Ururi ove prese alloggio nella casa del compare Emanuele Occhionero. D’accordo col sindaco Giovanni Musacchio si provvide agli alloggi per la notte e il capo Gaetano Vardarelli ordinò ai suoi di trovarsi pronti all’appello alle ore 8 del mattino successivo in Piazza della Porta ed egli stesso cenò e pernottò in casa degli Occhionero. E la mattina di domenica 9 aprile e Gaetano Vardarelli stava passando in rassegna i suoi tra una calca di popolo riunitosi per assistere. Il Vardarelli aveva terminato l’appello e il trombettista aveva dato il segnale di partenza, quando dalle finestre della casa Grimaldi e dal palazzo Vescovile tutti gli appostati, al segnale fatto con un panno bianco da una delle finestre dei Grimaldi , scaricarono contemporaneamente i fucili sui fratelli Vardarelli che caddero insieme con altri tre loro fedeli. Grande fu lo scompiglio tra la popolazione che provocò solo qualche ferito e nel trambusto la banda riuscì a fuggire. Si è scritto che ad uccidere Gaetano Vardarelli fosse stato lo stesso signorotto Paolo Antonio Grimaldi il quale, scese in piazza e sì lavò le mani e il volto col sangue della vittima agonizzante gridando a gran voce “ l’ho lavata “ con evidente allusione ad una offesa patita dalla sorella.. Nei libri parrocchiali di Ururi si legge indata 9 aprile 1818:” Gaetano De Martino figlio di Pietro e Donataannantoni del Comune di Celenza, domiciliato in Castelnuovo è morto ammazzato a colpi di schioppettate, in età di 40 anni circa, senza ricevere alcun sacramento, verso le ore 15 di detto giorno. Ilsuo cadavere è stato seppellito nella Congregazione dei morti di questo suddetto Comune. In tal modo si attua ciò che lo storico Enzo Ciconte definisce “vergogna e tradimento borbonico” 
Angelo Martino.

domenica 29 settembre 2013

la regola e l’eccezione nella lotta al brigantaggio

Quante furono le vittime della lotta al brigantaggio nell’ex Regno borbonico subito dopo l’unità d’Italia?

Quale ruolo ebbe la legge Pica (moderare gli eccessi o favorire la repressione)? Alla prima domanda è quasi impossibile rispondere, ma nel quinquennio che va dal 1861 al 1865 il conteggio oscilla tra 18.250 e 54.750 «briganti morti in combattimento, fucilati in seguito, arsi vivi, o uccisi in altro modo». A questi andrebbero aggiunti le vittime del secondo quinquennio (1866-1870) quando operarono nel Mezzogiorno piccole bande che ancora non si erano arrese ai carabinieri (le valutazioni qui oscillano da 1.825 a 20.075). «Aggregando i due quinquenni», scrive Roberto Martucci nel saggio molto denso e articolato, “La regola è l’eccezione: la legge Pica nel suo contesto”, sulla «Nuova rivista storica» diretta da Gigliola Soldi Rondinini e Eugenio Di Rienzo, si arriva a cifre oscillanti tra una «minima di 20.075 e una cifra massima di 73.875». Come mai una oscillazione così ampia dei dati? Secondo Martucci, che ha considerato tutta la letteratura sull’argomento, a partire dallo studio che egli ritiene fondamentale, “Storia del brigantaggio dopo l’unità” di Franco Molfese (Feltrinelli 1964 e 1983), non si potrà fare un bilancio serio finché non «si avrà uno spoglio sistematico dei documenti contenuti negli archivi provinciali».
Riguardo alla domanda sulla legge Pica, in vigore dall’agosto 1863 al 1865, l’autore contesta l’interpretazione che ne ha dato Salvatore Lupo ne “Il grande brigantaggio” («Annali della Storia d’Italia», Einaudi) di una legge che avrebbe «affermato per la prima volta un qualche principio di legalità, il diritto cioè anche dei briganti catturati con le armi in mano a un processo, davanti a una corte legalmente costituita». In realtà secondo Martucci siamo di fronte a «una legge di abilitazione all’esercizio dei poteri d’emergenza travestita da legge penale speciale… la cui portata continua a sfuggire alla storiografia generalista che ne dà una fuorviante lettura attenuativa in termini di “legalizzazione d’eccezione”».

venerdì 13 settembre 2013

La camorra nell’esercito borbonico: una preoccupazione per i governanti italiani

Il 28 ottobre 1860 Antonio Scialoja, nativo di San Giovanni a Teduccio, che era stato nel governo provvisorio di Giuseppe Garibaldi, aveva scritto al conte Cavour, denunciando il discredito di cui si era reso responsabile il governo di Garibald dato che certi ministri si erano circondati di "quei capi-popoli canaglia, che qui diconsi camorristi".
Il testo I prigionieri dei Savoia di Alessandro Barbero dedica un intero capitolo, alla presenza della camorra nell’esercito borbonico che preoccupava i nuovi governanti italiani per una possibile penetrazione nelle carceri e nello stesso esercito italiano.

“L’annessione delle province meridionali nel 1860 - scrive Alessandro Barbero - rappresentò un momento decisivo per la presa di coscienza, a livello nazionale dell’esistenza della camorra”.

L’autore cita lo studio di Marcella Marmo per evidenziare come l’opinione pubblica del Nord venne a conoscenza di una “ realtà ignorata”.
In particolare i rapporti dedicati alla questione erano incentrati sulla presenza della camorra nelle carceri e nelle esercito borbonico su cui l’abruzzese Silvio Spaventa, esponente della Destra Storica aveva redatto, su richiesta dello stesso Cavour tramite Costantino Nigra, un dettagliato rapporto che il 20 maggio 1861 era così compendiato:

“Nelle carceri, nell’esercito, nelle amministrazioni, in tutti i luoghi pubblici esercitata largamente la camorra”.

Silvio Spaventa era un liberale meridionale il cui impegno si era rivelato molto attivo nei moti napoletani del 1848, per cui l’anno seguente fu arrestato e rinchiuso nelle carceri di S. Francesco e della Vicaria per poi essere condannato all’ergastolo e inviato a Santo Stefano insieme a Settembrini.
Solo dieci anni dopo il suo ergastolo fu mutato in esilio a Torino, che aveva lasciato per ritornare a Napoli dopo l’arrivo di Giuseppe Garibaldi.
Egli farà parte di quegli intellettuali, che, allontanati dal Meridione, lottarono per l’unificazione italiana e per il liberalismo e per la costituzione parlamentare.
La relazione di Spaventa evidenzia che la primaria attività estorsiva è il pizzo sul gioco e che il luogo ove la camorra ha “la sua sede principale è nei luoghi di custodia e di pena”.
Il rapporto completo di Silvio Spaventa si può ritrovare nel testo di Marcella Marmo Il coltello e il mercato alle pagg. 31-57.
Riguardo alla presenza della camorra nell’esercito borbonico Marc Monnier, in uno studio del 1862, conferma che “ l’armata tosto si corruppe, la camorra vi si stabilì, e presto passò nella marina".
Francesco Barbagallo nel suo saggio Storia della camorra fa risalire la diffusione della camorra nell’esercito borbonico al “secondo quarto dell’ottocento”.
Dopo aver analizzato le possibili origini dell’etimologia del termine, lo storico Barbagallo scrive a pag. 6 di  Storia della Camorra.

"La camorra, come attività ed organizzazione distinta dalla criminalità comune, si diffuse nella città di Napoli, e in particolare nelle carceri e nell’esercito, dove spesso erano arruolati i criminali detenuti, presumibilmente nel secondo quarto dell’Ottocento".
Dunque la preoccupazione che, tramite gli ex soldati borbonici , la camorra potesse attecchire nell’esercito italiano fu molto sentita dall’opinione pubblica, data il risalto che la stampa ne dava.

Già il 23 agosto 1861 un articolo in prima pagina della Gazzetta del Popolo riportava:


"E’ noto che la camorra esisteva su vasta scala nell’esercito borbonico, e contribuiva potentemente ad accrescerne la demoralizzazione", riportando successivamente di "un ospedale militare dove una dozzina di soldati e bass’uffiziali napoletani erano già riusciti a stabilire un principio di camorra, ed anche alcuni de’ nostri settentrionali s’erano lasciati imporre per modo, che se talvolta giuocavano, chi guadagnava pagava il tributo al camorrista precisamente come a Napoli!"

Marc Monnier, nel suo studio del 1862, elenca una serie di provvedimenti, punizioni, per contrastare tale minaccia.

Il 12 marzo 1863, un Regio Decreto, introduceva norme anticamorra, come riporta il Giornale Militare del 1863, che facevano seguito a tale iniziale constatazione della relazione ministeriale:

“Una delle piaghe sociali nelle Province meridionali che in questi ultimi tempi maggiormente preoccupa l’opinione pubblica dell’universale e fermò l’attenzione del Governo, fu senza dubbio la Camorra. Questa setta, del tutto ignota nelle altre Provincie Italiane, esercitava la sua influenza e metteva anche le sue funeste radici nell’Esercito dell’ex Regno delle Due Sicilie…”

Nel prosieguo il capitolo ottavo del libro “I prigionieri dei Savoia”, da cui abbiamo primariamente attinto le informazioni del presente scritto, tratta di vari i casi di camorra nella fortezza di Fenestrelle e dei relativi processi. 


Bibliografia:
Alessandro Barbero, I prigionieri dei Savoia, Laterza, 2012

lunedì 9 settembre 2013

Quei musici girovaghi che divennero massoni

Da Francesco Pizzo ricevo e pubblico volentieri questa recensione su un aspetto poco conosciuto della nostra storia.
Viggiano: Alta Vald’Agri, provincia di Potenza, Lucania.
Un piccolo paese con una grande tradizione di musicisti girovaghi in tutto il mondo, effigiati già nel settecentesco presepe “Cuciniello” di Napoli fino alle imprese concertistiche, didattiche e musicali di gente del calibro di Alberto Salvi – arpista del Metropolitan con Toscanini e Mahler – e di Leonardo De Lorenzo, che cambiò il modo di suonare il flauto nello scorso secolo.
La maggior parte di questi “miracolosi” musicisti furono massoni, giacchè nel paese della laterale Lucania della fine ottocento fiorì la loggia “Mario Pagano”, una delle più importanti, per numerosità ed attività, del mezzogiorno – alcuni dicono la seconda dopo quella di Bari.
Franco Angeli nel 2012, nella collana “Temi di storia” ha pubblicato il saggio di Vittorio Prinzi e Tommaso Russo “La Massoneria in Basilicata”, con il sottotitolo “Dal decennio francese all’avvento del fascismo”, che testimonia con metodo inappuntabile – da annalisti francesi – questa pagina di storia latomistica e negletta.
E’ un saggio a due mani, in cui Vittorio Prinzi ricostruisce la vita delle due Logge di Potenza e Viggiano e Tommaso Russo inquadra il tutto nella cornice più ampia della storia delle idee che percorsero, come tutto il mezzogiorno napoletano, anche la regione in questione.
Viene così descritto con un piglio sempre avvincente il mordente delle idee illuministiche ed innovative che, dalla fine del settecento, dettero vita a Napoli a quel fenomeno sorprendente delle illuminazioni della ragione rivoluzionaria, portate avanti dai nobili – dal principe di Sangro fino alla Sanfelice – passando per l’elaborazione filosofica e politica degli emergenti intellettuali espressione delle provincie del Regno, i vari Rinuccini, Tanucci, Genovesi, Pagano.
L’intreccio ed il vario dispiegarsi dei rapporti tra logge massoniche di varia osservanza ed i circoli carbonari, liberali e rivoluzionari sono sminuzzati, per così dire, da Tommaso Russo; una nuova luce viene così a dispiegarsi sulle congiure, sulle connivenze tattiche dei circoli intellettuali, fino all’altrettanto rapporto “doppio” con l’unificazione della penisola sotto i Savoia e gli atteggiamenti difformi di strati della nobiltà e del notabilato nei confronti del brigantaggio postunitario.
Vittorio Prinzi, nella sua parte, più centrata sulla Basilicata, illustra o meglio svela come, nonostante il relativo isolamento della regione, lo “spirito del secolo” permeò nell’ottocento anche le case private della non numerosa borghesia urbano-comunale più avanzata e sensibile, sotto il profilo della cultura e della politica.
L’aspetto più sorprendente rasta per me quello della Loggia Mario Pagano di Viggiano: il grosso dei suoi adepti erano “musicanti”, sopravanzavano nettamente i possidenti, i negozianti, gli artigiani, come invece avveniva nella Loggia di Potenza – più fedele questa ai canoni dell’appartenenza massonica da parte delle classi medie e piccolo-borghesi delle professioni e degli impieghi.
La Loggia massonica di Viggiano quindi si qualificò come una fucina di appartenenza, sviluppo e solidarietà della cultura musicale, molla potente anche per il reimpiego dei capitali accumulati nel girovagare per il mondo, dalla musica di strada fino all’accademia ed a i teatri di rinomanza mondiale.
Grandi emigranti e viaggiatori i viggianesi con questo particolare senso di amore per la tradizione di Mozart e delle logge illuministiche: Leonardo De Lorenzo ad esempio suonò in Sud Africa e negli Stati Uniti, ma prima di partire si affiliò alla Loggia, al pari di tanti altri musicanti.
Il Gran Maestro Venerabile fu per decenni un professore di Norcia, Gaetano Argentieri, il quale lasciò un’impronta fortissima nella cultura e nella musica del luogo.
Ma non è il caso di svelare l’articolata trama delle tante attività massoniche nel piccolo centro del Val d’Agri, basta leggere l’avvincente saggio di Prinzi e Russo…
LA MASSONERIA IN BASILICATA
Dal decennio francese all’avvento del fascismo
Franco Angeli editore 2012

venerdì 30 agosto 2013

I FANTASMI DEL MONTE MALEDETTO

IL VIAGGIO

Legioni di insepolti giacciono ancora nelle gallerie del termitaio che fu la cima del Pasubio. Tutto si giocò in un brandello di montagna che fece 4500 morti
Ma qui almeno la guerra ebbe un senso, gli italiani compirono un capolavoro nella primavera del ’16 bloccando la Strafexpedition a un soffio dalla pianura

La Grande guerra/23


PAOLO RUMIZ
MONTE PASUBIO

Eccola in mezzo ai tuoni la caldaia delle streghe, il luogo dove vivere fu più duro che morire. Sfiata lingue di vapore da rocce gialle e sinistre, forse non ha mai smesso di fumare da allora, come un vulcano che dorme dopo la grande eruzione. Sopra uno sterminio di canaloni, pinnacoli e gole da racconto nero di Buzzati, la sua cima biforcuta tocca i 2200 metri, ma non si sa quanti ne abbia persi con le esplosioni tra il ‘16 e il ‘18. Cinquanta, cento, qualcuno dice centottanta. I massi enormi — alti fino a trenta metri — spostati lassù parlano di un evento inumano, qualcosa da inserire negli annuari della geologia più che nella storia. È la montagna dal nome di tenebra: il Pasubio.

Legioni di insepolti giacciono ancora nelle gallerie del termitaio che fu la cima. Tutto si giocò in un brandello di montagna di duecento metri per ottanta che fece 4500 morti, tanti che per farceli stare tutti insieme — scrisse il generale austriaco von Ellison — si sarebbe dovuto impilarli, e forse non sarebbe bastato. I corpi fatti a pezzi erano così numerosi che si aspettò il 1921 per riaprire la montagna agli umani. Ventisei mesi c’erano voluti per sgomberarla dai corpi. Ma le ossa biancheggiarono così a lungo nei burroni che fino agli anni ‘50 si piazzarono dei cestini perché i gitanti le deponessero. A fine stagione gli alpini col cappellano militare ne portavano via carrettate.

Anche sulla mappa ha una forma sinistra la montagna maledetta. Niente a che fare con il blocco isolato del Pelmo o la divina scogliera delle Tofane. Nelle Piccole Dolomiti il Pasubio disegna un polipo i cui tentacoli si ramificano in tutte le direzioni. Su quello che si protende verso il Novegno, a monte di Schio, corre il famoso sentiero delle 52 gallerie. Golgota dei soldati e sublime capolavoro degli ingegneri, dice cosa è capace di fare l’uomo per costruire la propria morte. Qui ci si ammazzò di fatica per mesi, come schiavi delle piramidi, solo per camminare sulla rampa di un’inevitabile crocefissione
.
Bocca di Campiglia, quota 1179. Salgo nella pioggia con l’alpinista di Recoaro Franco Perlotto e il gestore del rifugio Campogrosso, Davide Ferro. L’inizio è sacrilego: due muri di cemento rosa eretti per imbottigliare i turisti verso una biglietteria che non c’è, costo mezzo milione di euro. S’era pensato di ripagare quella follia con l’obolo d’ingresso, ma poi s’è lasciato perdere nel timore di dover risarcire i visitatori per eventuali incidenti su una montagna, per così dire, privatizzata. Solo per questo oggi il “bip” di un cancelletto non uccide la leggenda del Pasubio. Figurarsi se era per rispetto dei morti.

Tuoni lontani, verso il Baldo. Salita lenta, col magone. Il più cupo è Perlotto. Ha speso una vita in zone d’emergenza, con la Cooperazione italiana. «Dopo i bombardamenti nel Sud Sudan e soprattutto dopo tre attentati a Kabul, conosco l’odore della morte. Sangue, merda e decomposizione. Posti così mi mandano in ansia. Qui i ragazzi salivano pallidi come Cristo, sapendo di non tornare. E intanto Cadorna si sbarbava in albergo».

Ma qui, almeno, la guerra delle cime ebbe un senso, qui non si visse l’inutilità della morte in salita come sul Col di Lana o l’Ortigara. Sul Pasubio, come sul Grappa, gli italiani compirono un capolavoro nella primavera del ‘16, bloccando la Strafexpedition a un soffio dalla pianura. Lo fecero con forze minime, nonostante Cadorna fosse stato messo sull’avviso con anticipo. Il generalissimo non aveva ascoltato nessuno, nemmeno Cesare Battisti, che pure era nato su quelle montagne e aveva notizie precise dal Trentino. «Il generale — gli fu detto dopo una lunga anticamera — non ha bisogno del tenente Battisti».

Nebbia da Giro d’Italia, tornanti che s’attorcigliano su un purgatorio di anime perse. Non un uccello che canti, oppressione nell’aria. Davide conosce a memoria il terreno, lo descrive a voce bassa, come per non disturbare. «Qui risento i racconti di mio padre. Ma il vero tuffo al cuore arriva quando in Sardegna o Abruzzo leggo su un monumento la parola Pasubio».

Sulla cima, storie di fantasmi. Ne sa qualcosa Mauro Zattera, un trentino che ha speso mesi attendato sul Pasubio a studiarne la complicata topografia. «È un monte corteggiato dalle folgori, ti accorgi subito che c’è qualcosa di strano. Una sensitiva belga che è stata portata al rifugio Papa, ex posto di comando italiano, si è rifiutata di entrare. Il gestore ti narra storie che poi ti raccomanda di non riferire, “se no — dice — ci prendono per ubriaconi”».

«Una sera — dice il Mauro — siamo saliti a dormire e, verso le due di notte, una tremenda baldoria ci ha svegliato tutti. Veniva dalla stanza di sotto. Urla, canti, risate. È durata a lungo, e stavamo già per scendere a insultare i maleducati, quando è tornato il silenzio. Al mattino abbiamo detto al gestore che cose simili non erano tollerabili. Lui ci ha guardato strano e ha risposto ridendo: ma se siete soli in tutto il rifugio! Siamo rimasti senza parole. E poco dopo, quando abbiamo filmato, lì vicino, il luogo della cattura di Battisti, la telecamera ci ha restituito un filmato buio».

In cima i resti di un’intera città di baraccamenti appesi a strapiombi, a trecento metri dal luogo del combattimento. Quella italiana era così grande che la chiamavano “il Milanin”, la piccola Milano. In quella sul dente austriaco la vedetta, per dare ai reparti la certezza di non essere stata soppiantata da attaccanti italiani, doveva sparare un colpo ogni minuto. Se dopo due minuti il silenzio proseguiva, le riserve scattavano in automatico per rimpiazzare l’uomo, sicuramente accoppato da un cecchino. Era uno scontro millimetrico, segnato — scrisse un superstite — da “un formichio di esseri... sovrannaturali demoni... che correvano fra le rovine..., le fiammate delle bombe a mano e le eruzioni delle granate”.
Faccio sogni orrendi quella notte al rifugio Campogrosso. Qualcosa di innominabile mi sta entrando dentro: l’orrore cimiteriale di una guerra immobile per topi, calata nella putredine di fogne. All’alba mi salva solo la neve. Scende benedetta e silente tra le guglie e le forcelle.
(23 - continua)

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Donato De Donatis. Le imprese per nulla eroiche di un capobanda borbonico


Uno dei principali capimassa sanfedisti fu il famigerato Donato De Donatis, il maggiore alleato del capobanda Giuseppe Costantini, detto Sciabolone.
Donato De Donatis nacque nel 1761 a Fioli, frazione di Rocca Santa Maria (città nel territorio di Teramo), da Gregorio e Annantonia Bilanzola di Acquaratola e fu avviato al sacerdozio dai familiari.

Sebbene fosse stato consacrato sacerdote, egli colse l’occasione offertagli dai disordini del 1799 per costituire una banda di briganti che si dedicava a saccheggi, accompagnati sovente da stupri ed assassini.
Curiosamente questa comitiva di delinquenti era capeggiata da tre sacerdoti, il capobanda don Donato De Donatis appunto, assieme a don Carlo Emidio Cocchi ed a don Donato Naticchia.
Era presente anche un ex frate, di nome Vincenzo Benignetti, originario di Camerino, che aveva praticamente le funzioni di giullare nella banda ed era un pregiudicato diverse volte incarcerato perché colpevole di truffe e furti.

De Donatis era in teoria un ecclesiastico, ma il suo comportamento era decisamente contrario alle norme morali cattoliche, giacché, oltre agli atti briganteschi in senso proprio (stupri inclusi), era anche un bestemmiatore ed un bisessuale con un’amante francese fissa ed una predilezione per i ragazzini.
Non sorprende pertanto che il vescovo di Teramo avesse finito con lo scomunicarlo.
Mediante le sue azioni brigantesche questo ex sacerdote s’impadronì delle cittadine di Campli e di Civitella del Tronto.
Di quest’ultimo paese egli prese possesso il giorno della festa del santo patrono, sant’Ubaldo, e per festeggiarlo non trovò di meglio che far fucilare pubblicamente 17 uomini. In teoria questo brigante avrebbe dovuto soltanto aiutare il comandante borbonico regolare, il generale De Cossio, a controllare la città, ma il capobanda in breve tempo riuscì ad esautorare il rappresentante dell’autorità monarchica a cui, in astratto, egli professava obbedienza.
Don Donato De Donatis provò anche ad impadronirsi di Teramo, ma fu respinto da altri briganti che avevano assunto controllo di questa città, i fratelli Fontana, gli stessi che si resero responsabili dell’eliminazione fisica d’una intera banda brigantesca rivale, quella dei fratelli Rondinoni.
La presa d’Ascoli da parte dei briganti di De Donatis vide un saccheggio di grandi proporzioni e scene di sequestro di persona e ricatto: era sufficiente possedere dei beni per venire catalogato quale “giacobino” e derubato, cosicché l’ideologia diventava un semplice pretesto per il furto, il sacco e l’estorsione, secondo un modus operandi comune alle truppe sanfediste.
Prima di dare l’assalto alla città d’Acquaviva questo brigante la minacciò, fra l’altro, di saccheggio, che poi effettivamente avvenne, accompagnato da massacri e da incendio d’abitazioni.

La banda di Donato De Donatis fu responsabile di tante e tali violenze che nel territorio di Teramo il nome Donato, in precedenza piuttosto diffuso in Abruzzo, per molto tempo non fu più imposto ai neonati.
Addirittura lo stesso re Ferdinando IV, nonostante avesse al suo servizio intere bande brigantesche ree di fatti criminali (fra cui il cannibale e probabile satanista Gaetano Mammone, a cui il sovrano scriveva chiamandolo “amico”), fece sapere tramite un suo messaggio a questo ex sacerdote che disapprovava la sua condotta.

Nonostante ciò, don Donato De Donatis al termine delle sue imprese brigantesche rivolse una supplica a re Ferdinando di Borbone affinché egli ed i suoi accoliti (indicati in un elenco) fossero ricompensati per ciò che avevano fatto.
La richiesta fu accolta e furono riconosciute loro rendite vitalizie.
Questo capobanda si vide così accordare dal “re dei lazzaroni” una pensione di 1200 ducati all’anno ed una sorta di liquidazione di molte decine di migliaia di ducati, in aggiunta al possesso d’alcuni beni fondiari.
Scritto da Marco Vigna 

PS. Alla faccia del Regno giusto e solidale! 

giovedì 29 agosto 2013

IL BOSCO DEI RAGAZZI DEL ’19

IL VIAGGIO

La Grande guerra/22

Gli alberi sono cresciuti sulla pelle scorticata dell’Ortigara, del Monte Fior e delle Melette, segni di vita che ricomincia. Hanno fatto il nido nelle tombe dei nostri nonni
Con gli anni la voce dei morti s’è fatta più flebile e i villaggi sono ricresciuti su uno sterminato cimitero. Se i fantasmi fossero un problema per i vivi Asiago non esisterebbe


PAOLO RUMIZ
ASIAGO

Scendo nella pioggia da Malga Zebio e la foresta ha qualcosa di strano, qualcosa che manca. Niente alberi bambini. E poi gli abeti, tutti eguali. Bestioni di quaranta metri, immobili nella pioggia come granatieri. Che è successo quassù? Poi capisco. Quegli alberi sono i “ragazzi del ‘19”, cresciuti sulla pelle scorticata dell’Ortigara, del Monte Fior e delle Melette. Segni benedetti di vita che ricomincia, ma anche figli della desertificazione. Coscritti della stessa classe di leva, uguali perché nati nello stesso anno, armata di anime generate dalla stessa tabula rasa e dalla stessa ecatombe.
Diciannove. Che primavera fu quella. Non una pianta, non un passero che cantasse. Ossa dappertutto, talmente tante che se ne sarebbero trovate per cinquant’anni. Fu allora che centomila sementi fecero il nido nelle tombe dei nostri nonni perché altro spazio non c’era. Oggi sono gli alberi nati da quei semi la più bella delle sepolture. Quando il Mario (qui “il Mario” era e rimane solo il Rigoni Stern) trovava un soldato morto ancora negli anni ‘50, non lo diceva a nessuno, perché i morti bisognava lasciarli in pace, farli diventare bosco.

Quando Giani Stuparich, medaglia d’oro, venne a cercare i luoghi dove era morto il fratello, maledisse la freddezza degli ossari dove avevano trasferito il corpo di lui, ma anche il bosco che in pochi anni s’era ripreso spazio a spese della memoria. Pareva impossibile che il monte non dovesse portare scolpito in eterno il segno della tragedia. Invece era possibile. Con gli anni la voce dei morti s’è fatta più flebile, è diventata fruscio di foresta e i villaggi son ricresciuti su uno sterminato cimitero. Ma certo: se i fantasmi fossero un problema per i vivi, se le notti di quassù fossero popolate di lamenti, Asiago non esisterebbe.

Lontano, tra le nubi, la cima pelata delle Melette mostra una greca segnata di neve fresca: trincee. E intanto tuona sopra la Val di Nos, gli abeti oscillano come alberi maestri. Dal sentiero vedo un filo di fumo uscire dalla tana del Gianni Rigoni, sopra il piccolo aeroporto di Asiago. Il figlio del Mario mi apre la porta alle sette, quando le dieci pendole sparse nelle stanze di casa sua si mettono a suonare in ordine sparso e la minestra d’orzo già fuma in pignatta. Uomo di boschi come il padre, lamenta l’avanzata del più spudorato degli arbusti: il mugo. Tentacoli che mangiano tutto, pascoli e trincee. Roba che non estirpi nemmeno col fuoco.

Caminetto acceso e vino rosso, ecco dove si rintana la memoria. Mappe, vecchi libri, racconti. Identificazione perfetta di toponomastica e storia. Cima Saette, dove un fulmine incenerì sette alpini. Campo Gallina, dove il generale austriaco Mecenseffy fu disintegrato da una granata sparata a caso. Le Melette, ancora loro, dove i reggimenti bosniaci gridarono “Urrah” alla vista della laguna di Venezia prima di essere fermati dai fanti della Sassari. Il Monte Zebio, dove gli austriaci, nauseati da un massacro a senso unico, implorarono gli italiani di smetterla di farsi ammazzare.

Dove, dove, dove. Non c’è punto della carta che non raccordochiuda storie, il dito del Gianni la percorre febbrilmente, passa dal 1916 al 1918, sale e scende per fasce di isoipse, segue strade e mulattiere, vola da Emilio Lussu a Paolo Monelli, e a tratti mi par di sentire la voce del padre, come se il ri- preferisse seguire i sentieri misteriosi dell’oralità, il più possibile lontano dalle lapidi e dalle polverose biblioteche. Il Mario è con noi, la sua voce ci abita più che i suoi scritti. Ora ne sono certo: è lui il filo che ci collega all’Evento, il tramite della leggenda. Lui che, avendo vissuto un’altra guerra, poté intendere la voce delle foreste, dei ruscelli e delle pietre.

Letto preparato in mansarda, la pioggia tuona, sembrache tutte le valli di questo misterioso fortilizio boscoso si sveglino per raccontare, la notte pare un canto di ossa bagnate, di corpi ancora intrappolati nel crollo delle mine. Un’estate simile non s’era mai vista. Aria cupa, malsana. Fulmini, la luce va via, le pendole matte del Gianni si rimettono in agitazione. Sere fa si è visto un cimitero ardere a Bocchetta Paù, ultimo balcone in fondo alla Bärental. Cento croci in fiamme, visibili anche dalla base Nato di Vicenza. Cento croci di legno piantate lì da un’anima partigiana amata dal Mario, il libraio Alberto Peruffo, per simboleggiare il rogo della memoria perpetrato da un potere che ha venduto l’anima per una ciotola di lenticchie. In mille hanno visto, trepidanti, le croci cadere una a una nel crepitar delle fiamme, trac-tunf,come abbattute dal cecchino.

L’indomani un tregua del temporale benedice la cerimonia con la banda al sacrario di Asiago. Ci sono delegazioni straniere: alpini sloveni, baffuti figuranti austriaci in divisa storica, due ungheresi, uno slovacco. Un migliaio di turisti aspetta che il corteo inizi lungo il vialone rettilineo che sale al bastione dove sono schierate le falangi dell’aldilà. All’esterno, statuari simboli fascisti, mascelle volitive, ma anche un giovane soldato sbracato, che pretende ordine fumando con arroganza una sigaretta. Mi chiedo perché non ci sia nulla fra questi estremi, la retorica totalitaria e lo sfascio del consumismo. Qualcosa di silenzioso e composto come gli alberi-granatieri del Monte Zebio.
Dentro la casa dei 54 mila penombra da obitorio, luce alneon, eco di passi e di respiri. Nulla di legno, nemmeno un passamano. Sono ammessi solo il marmo e il ferro. Ma proprio quando sto per andarmene dalla catacomba, fuori attaccano i tamburi, la banda imbocca il viale seguita da un mezzo migliaio di penne nere in borghese con labari e bandiere; e nel momento in cui vedo arrivare i “veci” bene inquadrati per salutare i ragazzi di ieri, allora mi si rompe qualcosa, piango come un vitello per quel grumo di sentimenti che mai capirò e che è tutto meno che sciagurata esaltazione della guerra o estetica della morte.

(22 — continua)

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mercoledì 28 agosto 2013

E IL GRAPPA DIVENTÒ IL MONTE SACRO

ILVIAGGIO

Qui si combattè cima per cima fino all’ultimo giorno. Gli austriaci dovettero ribattezzare i luoghi per non deprimere i loro soldati. E il Monte Tomba si trasformò nel Monte Rosa
Il paradosso degli italiani: mentre Cadorna accusava i suoi di disfattismo, i memoriali del nemico rendono onore al coraggio degli ufficiali “mai venuti meno alla loro dignità”

La Grande guerra/21


PAOLO RUMIZ

BASSANO
Ancora freddo, pioggia, notte da coperte. Vento e neve sopra i 1800. Al mattino il Grappa è infarinato, lo vedo negli squarci di nebbia salendo per i tornanti della Strada Cadorna, percorsa da greggi e poco raccomandabili cani pastori. Sui pascoli di quota la neve portata dal vento esalta ogni minimo corrugamento, svela trincee altrimenti invisibili. Allo stesso modo, i cespugli di erica indicano i crateri delle granate, anche se il tempo li ha quasi interrati. Più che i buchi, il fiore viola delle brughiere ama la roccia frammentata. Da un secolo ha imparato a fare il nido nelle bombe. Non c’è bisogno di libri sul Grappa. La terra parla da sola.

La cima e l’ossario, come astronave nella nebbia. Non si vede nulla intorno. Niente che dica: questo è il bastione, il pilastro. «Ma nelle belle giornate — spiega il bravo Roberto Tessari pilotandomi senza Gps in un labirinto di mulattiere — puoi vedere tutto il fronte. Seicento chilometri di linea del fuoco dall’Hermada all’Adamello». In nessun altro punto hai una simile visione di sintesi. Specie d’inverno, l’affaccio sulla pianura è sconvolgente. Dopo Caporetto, fu quella vista a galvanizzare gli austriaci, ma anche a trasformare gli italiani, che per la prima volta sentirono nelle loro mani, con evidenza trigonometrica, i destini del Paese. Ecco perché la battaglia fu tremenda.

Si narra che gli austriaci dovettero ribattezzare i luoghi per non deprimere i soldati destinati a questo fronte con l’annuncio di luoghi malfamati. Posti come Salaroli, Val di Roa e monte Pertica furono cancellati dai dispacci. Il Monte Tomba divenne Monte Rosa. Gli italiani, invece, li esibivano come emblema e spauracchio. «Quassù si ingaggiò uno scontro cima per cima, fino all’ultimo giorno di guerra — racconta Tessari — uno scontro che talvolta ebbe le caratteristiche del derby». Fu quanto accadde sul Pertica, che gli Alpenjäger vollero riconquistare per un solo giorno pur avendo avuto già l’ordine di ritirata generale.

Poche settimane dopo lo sfondamento del novembre 1917, scrive Erwin Rommel, «i fucilieri da montagna ebbero di fronte nella zona del Grappa truppe italiane che si batterono benissimo e seppero, sotto ogni punto di vista, compiere il proprio dovere. Là non poterono essere conseguiti successi come quelli di Tolmino». Conferma il generale Kraft von Dellmensingen, capo di stato maggiore della 14.a Armata: «Così si arrestò, a breve distanza dal suo obiettivo, l’offensiva ricca di speranze e il Grappa divenne il Monte Sacro degli italiani, i quali, a buon diritto, possono andar fieri di averlo vittoriosamente difeso contro le migliori truppe austro-ungariche e i loro camerati tedeschi».

È strano come il valore del soldato d’Italia sia riconosciuto nei memoriali del nemico con più frequenza che nei rapporti dei suoi alti comandi. Mentre Cadorna accusava i suoi di disfattismo, il generale Svetozar Borojevic li difese dicendo che essi avevano ceduto semmai «perché avevano sentito venir meno il comando». Una bella immagine daTappe di una disfatta di Fritz Weber riguarda un gruppo di fanti fatti prigionieri durante un assalto sul Carso al Monte Hermada, che è il Grappa degli austriaci, il loro bastione imprendibile. «Laceri, sanguinanti, sporchi di terra...
piccoli di statura ma ben piantati... Gli ufficiali sono silenziosi, tristi, amareggiati... Guardano davanti a sé con un’espressione cupa. Lo spirito militare che li anima è identico al nostro. Non ho mai veduto un ufficiale italiano che sia venuto meno alla sua dignità. Erano e sono tutti avversari cavallereschi, valorosi, implacabili».

Squarcio nella nebbia, praterie di neve marcia, primule e soldanelle alpine in ritardo di due mesi sulla normale fioritura. Petali e fili spinati, rocce, fulmini ed esplosivi: un grumo inestricabile di storia e natura. Si diceva: la terra parla sul Grappa. E sul Grappa i fanti e gli alpini tennero duro perché era la terra che difendevano. Quando il battaglione Val Cismon, sfuggito alla cattura di Rommel in zona Longarone, passò per i pascoli di casa sua marciando a tappe forzate verso il Grappa, il comandante diede loro due ore di libertà per salutare le famiglie. Due ore dopo i ragazzi erano tutti pronti a ripartire. Non ne mancava nessuno.

Pioggia, vento. Terriccio talmente intriso di balistite che ne raccolgo una nera manata in dieci minuti, cercando nelle zolle umide. Avvicino un fiammifero e i frammenti bagnati prendono ancora fuoco, come se un secolo fosse ieri. Il Grappa è impregnato di guerra, ne è infettato come il corpo di un lebbroso. Sono questi i segni forti, assai più della pazzesca rete stradale militare che lo imbriglia, delle teleferiche, delle gallerie e degli acquedotti. Un anno fa un escursionista vide un elmetto sporgere dall’erba e, dissotterrandolo, tirò fuori anche la calotta cranica ancora agganciata al sottogola. Quassù i recuperanti si sparerebbero per un pezzo raro. Quelli di Vicenza e quelli di Treviso devono stare attenti a non sconfinare, o son botte da orbi.

Il fatto è che quassù la guerra non è finita, perché non si è ancora ben capito di chi è la montagna. Tessari mi racconta di una tempesta di simboli e di interessi in competizione per la supremazia sulla cima. Il Grappa è dei soldati che vi sono sepolti? È il luogo dei partigiani che quassù ebbero le loro tane? È il monte dello stato laico e della borghesia legata alla memoria delRisorgimento,di cui il rifugio Bassano è l’emblema? O è piuttosto il bastione dell’anticomunismo sovietico annidato nei bunker della Nato, il padre nobile della contestata doppia base americana di Vicenza?Oppure è l’altare del nazionalismo italiano dove i fascisti vollero piantare la statua della dea Roma?

Ricomincia a piovere, armate nere spremono lampi e cannonate sopra la Valsugana. Che cos’è questa montagna senza pace: la casa della Madonnina colpita dalle bombe e poi dichiarata “prima mutilata d’Italia”? O più banalmente il simbolo di un Veneto pievanesco e baciapile, la colonia estiva della diocesi più potente d’Italia? Certamente quassù vi è qualcosa che va molto oltre la Grande guerra. Il segno di una sacralità millenaria. Luogo di fulmini, sacrifici e anime vaganti.

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Sul sito diRepubblica,le immagini tratte dal videoreportage di Paolo Rumiz realizzato con il regista Alessandro Scillitani

giovedì 22 agosto 2013

Il suono dei cannoni diventa eco





; border: 0px; font-size: 15px; margin: 0px; outline: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;">Il suono dei cannoni diventa eco

La Grande guerra/16 .  La guerra in montagna cambia acustica nell’anfiteatro della Fiscalina. E anche il fronte è diverso. La prima linea si è staccata dalla frontiera politica con l’Austria. Ora, attaccati al perimetro del Trentino Alto-Adige, il confine non è meno

FALZAREGO - APPENA OLTRE IL PASSO DI MONTE CROCE DI COMELICO, LA FERRIGNA CRODA DEI TONI CHIUSA IN UNA MORSA DI NEMBI SVELA L’ARCANO DEL SUO NOME. "TUONI", EVIDENTE. TUONI CHE FAN RIMA CON CANNONI E CREPITANO NELL’ANFITEATRO DELLA FISCALINA, REGINA DEI FULMINI. LA GUERRA IN MONTAGNA CAMBIA ACUSTICA, DIVENTA ECO. BOMBOROMBON FA IL CANNONE, TA-PUM IL COLPO DEL CECCHINO







Cambia anche il fronte. Ora i "crucchi" stanno a Occidente, e fa impressione vedere il sole scendere dalla loro parte. Tutto s’è invertito rispetto all’Isonzo. La mappa parla chiaro: la prima linea s'è staccata dalla frontiera politica con l’Austria per incollarsi al perimetro amministrativo del Trentino-Alto Adige e disegnare un cuneo tra Veneto e Lombardia, verso la Pianura padana, a Sud.

Non per questo il confine è meno netto. Anzi. In Tirolo la cura meticolosa dei prati, i fiori alle finestre, la pulizia delle strade, tutto è dichiarazione di diversità. Esci da un mondo dove le regole sono fatte per essere aggirate per entrare in un pianeta dove tutto è regolamentato e lo strappo alla regola diventa, un po' noiosamente, inconcepibile. Dio solo sa come a Roma potessero pensare che queste fossero terre italiane ansiose di liberazione.

Si entra anche in un mondo immobile, così incollato al proprio stereotipo e così intento a lucidare se stesso, da rendere impossibile la nostalgia. È paradossale: se a Padola i bellunesi parlano del pusterese Sepp Innerkofler come di un mito, in Tirolo l’eroe che guidò gli austriaci sulle crode più pazzesche diventa piuttosto icona, insegna d’albergo o pasticceria.

Eh sì, il Tirolo non è Italia. Ma non è nemmeno la cara vecchia Austria. Quella era arcipelago di nazioni. Era il Kaiser che si rivolgeva ai "suoi popoli" al plurale. Era cartoline dal fronte stampate in dieci lingue. Era ruteni, cechi, dalmati e ungheresi inquadrati negli stessi reggimenti, con cucine da campo separate per ebrei, cristiani e musulmani. Il Tirolo è lontano come la Luna da tutto questo lontano dai Carpazi, dalla Transilvania e anche dalla mia Trieste. Lontano dalla sua stessa capitale.

"Vedi figliolo — dice un adagio locale — oltre quei monti c’è Vienna e la Cina". È vero: qui è solo Holzer, Appacher, Trenker, Kiniger, mentre nell’idillico cimitero militare asburgico di Monte Piana (Nasswand) sulla strada di Cortina, hai polacchi, rumeni e slovacchi insieme a prigionieri russi e serbi inumati in modo altrettanto degno. Tombe perfette sul bordo del fiume mormorante. Tanto di cappello alla fondazione Fuchs che cura questo presidio della memoria.

Il cielo si riapre sul Cristallo, svela canaloni di neve con tracce di sci. Il fuoristrada del Generale zigzaga sul filo del fronte, emerge in vista dell’Antelao e delle Tofane, attacca il Falzarego in un sole sfolgorante, destinazione rifugio Col Gallina. Ci aspetta un veneto che potrebbe essere nostro figlio: Luca Turchetto, 33 anni, nipote di una penna nera del '15-18 e appassionato rievocatore della guerra bianca. Eccolo, ci viene incontro con la faccia bruna e il pizzo da satanasso in mezzo a un attendamento di Alpini pronti alle esercitazioni sulle rocce del Lagazuoi. Ci porta nel suo regno segreto, la "Edelweiss Stellung" — postazione Stella Alpina — in una conca protetta dal Sass d'la Stria, all’imbocco della Valparola. Un villaggio militare annidato fra i massi, nel regno incantato delle marmotte.

C’è anche la guida Franz Pozzi- Brunner, 56 anni e divisa da Alpeniäger, sudtirolese di Trafoi. È il primo che ha adottato questo posto, quattro anni fa, dopo un inverno di grandi nevicate. Con l’aiuto di Luca ha restaurato alcune baracche, e ora nei vecchi ripari tutto è di nuovo come allora. Le cuccette, la stufa, le cartoline per la morosa, la lanterna a petrolio, il ritratto dell’imperatore. Persino l’odore. "Questo è un luogo di pace, qui fa bene vivere e dormire", racconta Franz. Sa che ci sono posti dove non tornerebbe mai: come il terribile Col di Lana lì a due passi, il colle con un cratere al posto della cima, dove si respira sempre la morte.

"Tutto è cominciato qualche anno fa, quando ho rischiato di morire sul lavoro e ho deciso di cambiar vita" racconta Turchetto mostrando una cicatrice a un centimetro dalla giugulare. "Sono venuto qui, ed è stato come superare un confine. Oltre, tutto riacquistava senso. Lavarsi al torrente, scrivere al lume di candela, sentire i rumori della notte. Ho visto arcobaleni di notte, sentito il crepitio della stufa e il peso della neve sul tetto. Quanti libri ho capito raggomitolato sotto queste coperte di lana! Sai, quando senti i piedi che gelano, cambi opinione su molte cose. E poi tutto ritorna: i racconti del nonno, le lacrime versate, le donne non avute... E torna, lo dico con la pelle d’oca, la presenza di quelli che hanno vissuto qui un secolo fa".

"In guerra ho passato alcune delle ore migliori della mia vita, di quelle che mi hanno dato oblìo e compiuta immedesimazione del mio essere con la mia idea: questo, anche se la terra trema, si chiama felicità". Così Carlo Emilio Gadda.

"Noi siamo i cantori, i bardi, ma anche i difensori di questo luogo. E impediremo che sia invaso dallo strepito del mondo". Il tirolese è diventato improvvisamente serio. Dice "noi", e mette i brividi quel pronome che stringe i nipoti di due nemici. È così che si fa l’Europa, nei luoghi dove fu lacerata. "La Edelweiss è la nostra piccola patria e la difenderemo: qui non sentirete mai il bip delle seggiovie". Intuisco l’incombere di qualcosa di innominabile, qualcosa nascosto dietro quella strana pace dei contemporanei che sa essere peggio della guerra. In battaglia, almeno, sai chi sono i nemici e la distruzione non si traveste di parole come "sviluppo". Per questo stare trincea, oggi, è forse più difficile di ieri.

Mentre parliamo davanti alla capanna, mi accorgo che una marmotta, a cinque metri, ci osserva tranquilla da un masso. Ci riconosce come amici e si fida. Anche lei, come le anime dei ragazzi sepolti quassù.
(16 - continua)

martedì 13 agosto 2013

Le violenze antisemite durante l'invasione borbonica del Lazio





Scritto da Marco Vigna   
Sabato 10 Agosto 2013 20:48

Ferdinando Il CattolicoIn epoca moderna le comunità ebraiche dell’Italia meridionale, risalenti sino all’Antichità romana e molto numerose (nel regno di Napoli costituivano il 2,5% della popolazione, in quello di Sicilia il 5%), furono condannate all’esilio ed alla dispersione da una serie di decreti d’espulsione dei sovrani iberici: nel 1492-1493 fu ordinata la loro cacciata dalla Sicilia.
Il 23 novembre 1510 re Ferdinando il Cattolico emise una prammatica sanzione con la quale s’ordinava agli ebrei ed ai neofiti di lasciare il regno di Napoli entro quattro mesi; ad alcune famiglie a cui era stato concesso eccezionalmente di restare fu intimato d’andarsene dal reame napoletano con un altro editto, emesso il 31 ottobre del 1541.
Queste norme rimasero in vigore nei secoli seguenti e furono conservate anche dopo la conquista militare del Mezzogiorno da parte della dinastia borbonica. Carlo di Borbone permise temporaneamente agli ebrei di ritornare nel suo reame, ma l’editto, emesso il 3 febbraio del 1740, fu ben presto abrogato, già nel 1747, cosicché da allora e sino al 1831 non fu concessa alcuna presenza ebraica nel regno di Napoli ed in quello di Sicilia. (1)
L’assenza d’ebrei nel Meridione, derivante da questa operazione di pulizia etnica, non impedì la conservazione negli strati sociali a cui s’appoggiava la monarchia borbonica d’un rabbioso antigiudaismo d’impronta religiosa, tanto che fra le cause della cancellazione del suddetto editto di tolleranza di Carlo di Borbone vi furono le pressioni congiunte di parte del clero e della popolazione stessa.

Mezzo secolo più tardi, l’antisemitismo di Ferdinando I di Borbone e dei suoi sostenitori ebbe modo di manifestarsi in modo violento nel 1798-1799. Negli anni finali del secolo XVIII quella che viene definita la “prima emancipazione” degli ebrei italiani, conseguente alle dottrine rivoluzionarie, fu seguita da una controrivoluzione che colpì duramente le comunità ebraiche, con il saccheggio di ghetti, la cacciata d’intere collettività dai propri insediamenti aviti, massacri, assassini ed altre sopraffazioni.
I territori dello stato pontificio furono quelli in cui avvennero gli accadimenti più rilevanti contro gli ebrei, con gravi violenze a Pesaro, Urbino, Ancona, Lugo e con tre autentici pogrom, a Roma e Velletri nel 1798 ed a Senigallia il 18 giugno 1799.(2) Ebbero un ruolo fondamentale in questo le truppe borboniche e sanfediste, che avevano invaso la Repubblica Romana. (3)
Durante la disastrosa (per l’esercito borbonico) campagna militare intrapresa nel 1798, in cui il regno di Napoli mosse guerra alla Francia e fu totalmente sconfitto da forze nemiche di gran lunga inferiori numericamente alle sue, per un brevissimo periodo re Ferdinando con il suo esercito prese possesso di Roma.
Il “re dei laCarlo di Borbonezzaroni” ebbe cura di riportare gli ebrei allo stato di discriminazione anteriore, giacché «aveva […] ripristinato tutti gli antichi divieti e restrizioni»(4), come la reclusione nel ghetto con la chiusura dei suoi portoni ed il “segno giallo” da indossare sui vestiti, che erano stati aboliti dalla repubblica, la quale aveva concesso l’equiparazione dei cittadini di religione ebraica a tutti gli altri romani. Inoltre la breve permanenza del Borbone e del suo esercito nell’Urbe fu segnato da gravi violenze.
Il De Felice scrive che «la plebe sanfedista scatenata assalì il ghetto», (5) mentre il governo provvisorio definiva questo pogrom come frutto d’un eccesso di zelo (sic!) e si limitava ad annunciare in modo blando provvedimenti contro perturbatori dell’ordine pubblico, con un risultato prevedibile:
«Naturalmente le aggressioni e i saccheggi non cessarono». (6)
Le autorità militari inoltre accollarono agli ebrei il costo esorbitante dell’occupazione, per un totale di 32.914 scudi e 22 baiocchi, imponendo una cifra enorme in rapporto ad una comunità così piccola: per dare un termine di paragone, nel 1797 le entrate comunitarie erano state di circa 6000 scudi, quindi meno di un quinto di quanto fu ingiunto come esazione bellica dai comandanti borbonici nel giro di pochi giorni. (7)
Al contempo la famelica truppa d’un «esercito straccione»,(8) costituito arruolando alla rinfusa gente d’ogni sorta in una condizione di profonda disorganizzazione (9) e senza assicurare neppure l’approvvigionamento, cosicché «i soldati e i cavalli intanto morivano di fame»,(10) si diede al saccheggio delle proprietà ebraiche, non risparmiando neppure vestiti e polli.(11)
Ferdinando I di BorboneLe milizie di re Ferdinando avevano una cattiva nomea presso la popolazione prima ancora che arrivassero a Roma («pessima fama», scrive la studiosa Manuela Militi)(12) ed erano costituite in parte da criminali comuni liberati o graziati con l’istituto giuridico cosiddetto del “truglio”, che rimetteva loro ogni pena a patto che prestassero servizio nell’esercito borbonico.
La medesima prassi fu poi seguita nella costituzione dell’armata della “Santa fede” del Ruffo ed ancora nel 1806.(13)
È in questo modo che il noto Michele Pezza, alias fra’ Diavolo, fu arruolato nelle forze del “re nasone” proprio nel 1798, così ricevendo il condono degli assassinii che aveva compiuto in precedenza.(14)
Anche al di fuori di Roma vi furono violenze antiebraiche, che ebbero il proprio apice a Velletri dal 26 al 28 novembre, con una vera caccia all’uomo accompagnata dalla consueta messa al sacco di case e negozi. I caporioni del pogrom furono il pescivendolo Gioacchino Savelli, detto Cimarra, che già a Roma aveva istigato un’insurrezione contro gli ebrei durante il periodo repubblicano ed era poi ritornato nel Lazio dietro alla protezione offerta dalle baionette borboniche, ed il facchino Antonio Caprara, soprannominato “Senza culo” (sic!), che in seguito s’arruolerà nell’armata della “Santa fede” del Ruffo. (15)
Facilmente disfatte fra il dicembre del 1798 ed il gennaio del 1799 le armate di re Ferdinando da un esercito francese diverse volte inferiore di numero,(16) bisognerà attendere il ritorno delle forze borboniche molti mesi più tardi, dopo la ritirata francese provocata dalle vittorie austro-russe in Svizzera ed Italia settentrionale, per assistere ad altre scene di sopraffazione contro gli ebrei di Roma.
Si provvide a restaurare nuovamente la reclusione nel ghetto, il distintivo giallo ed in generale la legislazione antiebraica anteriore, come già era avvenuto durante la prima invasione borbonica del Lazio nell’anno precedente. L’armata del Borbone impose inoltre agli ebrei, ancora una volta, il pagamento delle spese d’occupazione militare, per un totale superiore a 26 mila ducati.(17)
Ancora, non appena l’esercito del “re lazzarone”, costituito da una miscellanea di truppe regolari, mercenari stranieri, criminali comuni, briganti ecc. entrò nell’Urbe, s’ebbero molte violenze contro gli ebrei, che videro la partecipazione congiunta di truppe borboniche e popolaccio. I disordini furono solo in parte repressi dalle autorità militari, che in buona misura lasciarono fare.
Fabrizio RuffoIl Ruffo avrebbe infatti promesso alle “masse”, ossia ai reparti irregolari della sua armata, il saccheggio di Roma, secondo la prassi seguita da questo esercito. Un capomassa sanfedista, il Rodio, avrebbe ricevuto dal cardinale stesso con una lettera l’autorizzazione a procedere in tal senso:
«Il Ghetto sarà la prima parte della Città, che esporrete al saccheggio». (18) Anche gli uomini di fra’ Diavolo, in forza nell’esercito sanfedista ed accampatosi nei pressi del Tevere, rivendicavano ciò che gli sarebbe stato assicurato dal Ruffo ossia la licenza di saccheggiare, secondo quanto conferma nel suo diario l’allora abate e futuro cardinale Giuseppe Antonio Sala. (19)
Fra i sanfedisti compariva anche Antonio Caprara, che già era stato l’istigatore del pogrom di Velletri del 1798 e si trovava ora quale capobrigante sottoposto a Michele Pezza. Così questa coppia di personaggi era descritta nelle parole d’un nipote del cardinale Borgia:
«il famoso Fra Diavolo, brigante fuoriuscito, omicidario imbastaro di professione, che davasi titolo di generale, avendo come capo di briganti un tale Antonio Capraro, alias senza culo, uomo villano ignorante, mulattiere e facchino di professione e si intitolava coman­dante».(20)
Commenta il De Felice che durante l’occupazione borbonica di Roma del 1799 soltanto «superiori motivi di politica […] salvarono il ghetto e preservarono gli ebrei da un vero e proprio massacro».(21)
Insomma, se non si ripeterono anche nell’Urbe le scene che avevano regolarmente accompagnato l’avanzata dell’armata detta della “Santa fede” dalla Calabria sino a Napoli fu solo perché non parve opportuno che la città del papa, capitale d’uno stato amico ed alleato come quello pontificio e centro universale della religione cattolica, subisse un eccidio di grandi proporzioni.
Questo non impedì comunque che s’avessero gravi disordini provocati dalle indisciplinate ed incontrollabili turbe che componevano l’esercito del Ruffo.
L’avvocato Antonio Galimberti, uno dei principali testimoni degli eventi legati alla Repubblica Romana ed alla sua fine, ricorda che le masse sanfediste si resero colpevoli di violenze e saccheggi sia a Roma, sia nel territorio limitrofo, nonostante alcuni tentativi di porre freno alle loro azioni.(22)
Al di fuori della Città eterna gli invasori poterono usare meno riguardi nei confronti della popolazione e specialmente degli ebrei, odiati dai sanfedisti per intolleranza religiosa. I fatti più gravi avvennero a Senigallia il 18 giugno del 1799 e nei giorni immediatamente successivi.
Michele PezzaUna forza congiunta di russi, turchi e sanfedisti, gli stranieri giunti per mare, gli altri da terra, bombardarono la città e la conquistarono, sottoponendola poi a saccheggio per cinque giornate. Furono numerosi i cittadini assassinati ed ancora di più quelli depredati, ma l’accanimento dei sanfedisti e dei loro alleati raggiunse il culmine contro la comunità ebraica locale. Tutte le case e tutti i negozi dei ebrei furono saccheggiati, mentre la sinagoga fu profanata, devastata e depredata.
La «sfrenata canaglia», così definita da una dettagliata cronaca dei fatti come quella di Domenico Bossi nella sua Enarazione di quanto è accaduto in Sinigaglia nell’invasione dei Turchi e Russi, si comportò come uno stuolo di cavallette, vuotando completamente le abitazioni e gli esercizi commerciali, sino ai «cocci più vili e i chiodi più rugginosi. Lo persone restarono ignude affatto, e la massima parte senza camicia. Le abitazioni colla sola paglia sparsa sul terreno». (23)
Molti ebrei furono trucidati, ancora di più feriti. Tutti i membri superstiti della comunità ebraica, cinquecento o seicento circa, fuggirono nella notte. Dopo le devastazioni e le stragi del 1799 la comunità degli ebrei di Senigallia non riuscì più a riprendersi e decadde rapidamente. (24)
L’operato di re Ferdinando, del cardinale Ruffo e delle loro truppe nei territori pontifici ovvero della Repubblica Romana conferma, cronica debolezza militare a parte, il tratto fondamentale della reazione borbonica e sanfedista, che ha visto l’esigua oligarchia dominante cavalcare la tigre di masse amorfe accortamente aizzate e provenienti dal sottoproletariato e dal crimine comune, per le quali l’asserita e conclamata difesa della fede, interpretata in modo radicalmente intollerante, diveniva occasione o pretesto per atti puramente delinquenziali come saccheggi, stupri e vendette private.
Bandiera dei SanfedistiIn questo contesto gli ebrei, piccolissima minoranza religiosa emarginata e discriminata, costituirono un bersaglio ideale per gli insorgenti, così come era avvenuto nel Medioevo e nell’era moderna nel corso di molte sollevazioni popolari in Germania, Francia ed Europa orientale, che avevano abbinato ostilità verso il “diverso” ed avidità.(25)
La differenza risiede nel fatto che nel 1798-1799 fu la stessa monarchia borbonica a sobillare ed appoggiare gli insorti, in questo modo ottenendo di sfruttare a proprio vantaggio l’aggressività anarchica degli strati più poveri della popolazione, che fu indirizzata verso i nemici veri o presunti dell’apparato di potere dominante nonostante essa fosse provocata dalla marginalità sociale e dall’estrema miseria causate proprio dalle politiche e dallo sfruttamento del ristretto ceto egemone.
La comunità ebraica divenne così un capro espiatorio offerto ai sanfedisti dai loro burattinai, secondo quelle dinamiche psicologiche descritte da René Girard ed altri antropologi.(26)
Anche per questi meccanismi ed il loro interessato sfruttamento da parte di scaltri propagandisti l’antigiudaismo fu largamente condiviso dai cosiddetti insorgenti dell’era napoleonica.
Ad esempio, pochi anni più tardi il 1799 la rivolta dei tirolesi guidata da Andreas Hofer nell’area alpina vide i pogrom antiebraici di Trento e d’Innsbruck: emblematicamente, anche la piccola minoranza dei protestanti fu duramente colpita e quasi interamente scacciata.(27)
La Restaurazione fu tale anche nei confronti degli ebrei, segnando per loro un ritorno alle condizioni dell’antico regime. Bisognerà attendere l’Unità d’Italia per vedere in tutta la penisola la cosiddetta “seconda emancipazione” ebraica, con la piena parificazione giuridica e sociale degli ebrei al resto della comunità nazionale italiana.(28)



Note
[1] M. ArchivioL'editto di espulsione degli Ebrei dal Regno di Napoli (1510) e la loro breve riammissione nel Settecento, in La Rassegna Mensile di Israel terza serie, vol. 43, n ° 1/2 (Gennaio - Febbraio 1977), pp. 32-35; F. VenturiSettecento Riformatore. Da Muratori a Beccaria, Einaudi, Torino, 1998, pp. 86‐89.
R. G. Salvadori, 1799: gli ebrei italiani nella bufera antigiacobina, Firenze 1999. Per un inquadramento generale della condizione degli ebrei italiani nel periodo compreso fra l’assolutismo illuminato e gli anni della rivoluzione, cfr. M. CaffieroGli ebrei italiani dall’età dei Lumi agli anni della Rivoluzione, in Storia d’Italia. Annali 11. Gli ebrei in Italia, a cura di C. Vivanti, tomo II, Dall’emancipazione a oggi, Einaudi, Torino 1997, pp. 1089-1132.
3 Un’ottima sintesi d’insieme della condizione giuridica e sociale degli ebrei di Roma dall’Antico Regime alla Repubblica Romana, prima della temporanea restaurazione posteriore, è offerta da un articolo di Renzo De Felice: cfr. R. De FeliceGli ebrei nella Repubblica romana del 1798-99, in Rassegna storica del Risorgimento, 1953, pp. 327-356.
4 De FeliceGli ebrei, cit., p. 354.
5 Op. cit.
6 Op. cit.
7 De FeliceGli ebrei, cit., p. 332; M. Militi, Il costo della Repubblica “sorella” per gli ebrei di Roma (febbraio 1798settembre 1799)in Eurostudium3w, aprile-giugno 2012, n. 23, Roma, pp. 100-105.
8 Sia consentita qui la citazione, di per sé d’origine letteraria ma corrispondente alla realtà storica: R. NigroI fuochi  del Basento, Milano 1988, p. 38.
9 Sulla disorganizzazione dell’armata di re Ferdinando basti una breve descrizione dal Colletta: P. CollettaStoria del reame di Napoli, Torino 1975: «I soldati, se allora coscritti, scontenti; se antichi, peggiori, perché usati alle male discipline di milizia sfaccendata o ribalda; gli usi di guerra nessuni, l'ordinarsi negli alloggiamenti, preparare il cibo, ripararsi dalle inclemenze delle stagioni, provvedere al maggior riposo, e, insomma, tutte le arti del miglior vivere, necessarie al sostegno delle forze, non praticate, né conosciute ne' campi. L'amministrazione mal regolata ingrandiva i disordini; le distribuzioni incerte, il giungere dei viveri non misurati coi bisogni, sì che spesso vedèvi l'abbondanza dove mancava chi la consumasse, e presso a lei la penuria.»
10 Il Cuoco osserva che durante la campagna borbonica nel Lazio del 1798 «i viveri mancarono del tutto», cosicché «i soldati e i cavalli intanto morivano di fame»; V. CuocoSaggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Bari 1976, p. 68.
11 Militi, Il costo della Repubblica, cit., pp. 100-101.
12 Ibidem, p. 100.
13 Sul truglio sono utili le considerazioni del professor Francesco Gaudioso dell’Università degli Studi del Salento: F. Gaudioso, Brigantaggio, repressione e pentitismo nel Mezzogiorno preunitario, Galatina 2002, pp. 11 sgg.
14 Su questa figura: B. AmanteFra Diavolo e il suo tempo, Firenze 1904.
15 A. Damascelli, Cimarra e gli ebrei nella Repubblica romana del 1798-1799, in La repubblica romana tra giacobinismo e insorgenza 1798-1799, Roma 1992, pp. 39-60; Militi, Il costo della Repubblica, cit., pp.105-106.
16 A. Cretoni, Roma giacobina. Storia della Repubblica Romana del 1798-99, Roma 1971, pp. 275-291.
17 De FeliceGli ebrei, cit., p. 355.
18 Il Monitore di Roma. Foglio nazionale, n. XXIII, 21 fruttifero anno VII repubblicano e II della Rep. Romana, (7 settembre 1799). Il De Felice giustamente commenta che i borbonici non contestarono l’autenticità di tale ordine, cosicché, sia esso stato dato o meno nella forma riportata da Il Monitore, pure doveva corrispondere ad intenzioni  reali. De FeliceGli ebrei, cit., p. 355.
19 G. A. SalaDiario romano degli anni 179899, in Scritti di Giuseppe Antonio Sala pubblicati sugli autografi da Giuseppe Cugnoni a cura di V. E. Giuntella, Società romana di storia patria, Roma, 1980; vol. III, p. 122: « dicono esser stato loro promesso il saccheggio del Ghetto».
20 A. LeoneG. Murat e Fra' Diavolo a Velletri. Con documenti inediti, Torino 1912, p. 791.
21 De FeliceGli ebrei, cit., p. 355.
22 A. GalimbertiMemorie dell’occupazione francese in Roma dal 1798 alla fine del 1802, Roma, Istituto nazionale di studi romani, 2004.
23 D. Bossi, Enarazione di quanto è accaduto in Sinigaglia nell’invasione dei Turchi e Russi, citato in De FeliceGli ebrei,, cit., pp. 354-355.
24 A. CastracaniGli ebrei a Senigallia tra Settecento ed Ottocento, pp. 155-187in S. Anselmi-V. Bonazzoli (a cura di), La presenza ebraica nelle Marche. Secoli XIII-XX, quaderno 14 di “Proposte e ricerche”, Ancona 1993.
25 Sull’argomento, per il quale esiste ampia bibliografia, si forniscono qui solo alcuni riferimenti: G. FourquinLe sommosse popolari nel Medioevo, Milano 1976; G. GalassoLe rivolte contadine nell’Europa del secolo XVII, Napoli 1970; S. Lombardini,Rivolte contadine in Europa (secoli XVI-XVII), Torino 1983.
26 Uno studio che offre una sintesi di molte prospettive ed analisi sul rapporto fra violenza e sacrificio è quello di R. G. Hamerton-Kelly (a cura di), Violent Origins: Walter Burkert, René Girard, and Jonathan Z. Smith on Ritual Killing and Cultural Formation, Stanford 1987.
27 Una raccolta di 680 documenti di Hofer, fra atti, lettere, appunti, è Andreas Hofer (1767-1810). Dalle fonti alla storia (Trento 2010). Si tratta d’uno studio elaborato da un ricercatore dell’Università di Innsbruck, Andreas Oberhofer, e curato nell’edizione italiana da Rodolfo Taiani e Valentina Bergonzi.
28 A. CanepaConsiderazioni sulla seconda emancipazione e le sue conseguenze, in La Rassegna Mensile di Israel terza serie, Vol. 47, No. 1/6, Numero speciale a cura del Centro Documentazione Ebraica Contemporanea (Gennaio-Giugno 1981), pp. 45-89; F. della PerutaGli ebrei nel Risorgimento fra interdizioni ed emancipazione, in Storia d’Italia, Annali II. Gli ebrei in Italia, a cura di C. Vivanti, Torino 1997.
Ultimo aggiornamento Martedì 13 Agosto 2013 11:48