sabato 27 novembre 2010

Il «generale dei briganti» che tenne in scacco il Nord


DAL MOVENTE POLITICO FILO-BORBONICO ALLA CRIMINALITÀ COMUNE. FINÌ ALL’ERGASTOLO E MORÌ IN CELLA

Carmine Crocco instaurò a Melfi un governo provvisorio


Carmine Crocco Donatelli non era un ufficiale dell’ultimo re di Napoli, bensì un umilissimo pastore di Rionero in Vulture, che aveva disertato nel 1852 dall’esercito borbonico dandosi alla vita brigantesca. Perché l’avesse fatto, non è chiaro: con ogni probabilità, in seguito all’uccisione da parte sua d’un commilitone (o d’un superiore) per ragioni che ignoriamo. Nessun fondamento ha invece la storiella (da lui narrata nell’autobiografia e ancor oggi ripetuta da molti) del delitto d’onore, ch’egli avrebbe commesso per salvare la sorella Rosina, insidiata da un signorotto locale. Già nel 1903 Eugenio Massa, pubblicando le memorie del brigante, dimostrò che a Rionero non aveva avuto luogo nessun omicidio all’epoca e nelle circostanze indicate da Crocco.
Un gruppo di briganti


Pur non avendo mai ottenuto un grado superiore a quello di caporale, nel 1861 Crocco si faceva chiamare «generale di Francesco II» e assegnava galloni militari ai suoi più fidi collaboratori (tra cui Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco-Nanco). Né si trattava solo del frutto del suo temperamento megalomane, ché per davvero Crocco seppe dirigere con ferma disciplina militare e con abile visione strategica la formidabile masnada brigantesca, da lui creata con il sostegno e il finanziamento dei comitati borbonici. Nel giro di pochi giorni, Crocco conquistò militarmente numerosi paesi della regione del Vulture (il maestoso vulcano spento della Basilicata nord-occidentale), facendo il suo trionfale ingresso a Melfi la sera del 15 aprile 1861, acclamato dalla plebe e dai notabili del posto. Anche se la «reazione » non durò che poche settimane, presto domata dall’arrivo di truppe regolari e di guardie nazionali, il rivolgimento politico d’aprile segnò l’avvio d’una lunga sequela di furiose sollevazioni popolari contro il nuovo governo in altre province meridionali. La «reazione» nel Melfese fu l’inizio della sanguinosa guerra civile, che funestò il neonato Regno d’Italia, e diede l’abbrivio al «grande brigantaggio», protrattosi fino al 1865.

I fatti clamorosi della primavera 1861 mostrarono quanto fragili fossero, nel Mezzogiorno, le basi politiche dello Stato italiano appena sorto. Ma solo pochi mesi prima, alla vigilia dello sbarco di Garibaldi in Calabria, la Basilicata era stata teatro di ben altri avvenimenti, con la vittoriosa insurrezione contro i Borboni. Ancorché pochissimo nota, la rivoluzione lucana del 1860 fu una delle pagine più belle del Risorgimento. Il centro politico e l’anima del movimento risorgimentale in Basilicata, all’epoca della spedizione dei Mille, fu la cittadina di Corleto Perticara. Oggi questo nome non dice granché agli storici del Risorgimento. Eppure, in un articolo apparso il 21 settembre 1860 nella New-York Daily Tribune, Friedrich Engels seppe individuare proprio in «Carletto Perticara» (com’egli scriveva erroneamente) il centro del movimento insurrezionale in Lucania, basandosi sulle scarne notizie a sua disposizione.
Briganti in una stampa d’epoca


A Corleto, Carmine Senise e Domenico De Pietro reggevano le fila della cospirazione antiborbonica, tenendo i contatti con i liberali di Potenza e delle altre cittadine, nonché con i patrioti napoletani. Se l’obiettivo politico del comitato di Corleto s’ispirava al liberalismo moderato, i mezzi di lotta da esso scelti erano invece rivoluzionari. La provincia di Basilicata venne suddivisa in 10 gruppi operativi, ciascuno dei quali guidato da un responsabile. Grazie alla vasta rete organizzativa costruita dai patrioti lucani, tra luglio e agosto il regime borbonico cominciò a dissolversi in Basilicata dove, qua e là, venne a formarsi un doppio potere (quello ufficiale dei rappresentanti di Francesco II, e il nuovo, dei cospiratori liberali). Il 18 agosto, a Potenza, ebbe luogo l’insurrezione da tempo programmata: nel capoluogo di provincia, a dare man forte ai rivoltosi, confluirono le colonne di armati provenienti dagli altri paesi. Il giorno successivo venne formato, in nome di Vittorio Emanuele II e di Garibaldi, un governo prodittatoriale, guidato da Giacinto Albini e Nicola Mignogna. Un tratto peculiare della rivoluzione lucana fu la partecipazione di non pochi esponenti del clero al moto risorgimentale. Quando, a settembre, la brigata lucana sfilò a Napoli lungo la via Toledo assieme alle camicie rosse garibaldine, ai cittadini partenopei si offrì un bizzarro spettacolo: come narra il cronista, «fra gl’insorti spiccavano moltissimi frati e preti, portando la tricolore bandiera, ed avendo il Crocifisso ed il pugnale alla cintura».

L’avviso di taglia per Crocco (20 mila lire)


Crocco il quale, al momento dell’insurrezione d’agosto, era un piccolo bandito di strada, decise d’unirsi al movimento garibaldino, nella speranza di redimersi e di cominciare una nuova vita. Divenne guardia del corpo del nuovo sottintendente di Melfi, ed eseguì con zelo le missioni affidategli. Ma fu tutto vano. Il perdono promessogli non giunse; ed egli, deluso e incattivito, si diede ancora una volta «alla campagna».

La situazione generale era, nel frattempo, mutata. La mancata assegnazione delle terre demaniali ai nullatenenti e l’introduzione dell’invisa coscrizione obbligatoria disamorarono la povera gente dal nuovo governo; e la stolida e brutale reazione dei funzionari piemontesi al crescente malcontento popolare diede alimento alla propaganda borbonica. Anche il basso clero, che aveva simpatizzato per il moto risorgimentale, mutò atteggiamento in seguito alla improvvida legislazione antiecclesiastica del 17 febbraio 1861. Nella primavera 1861 i notabili filoborbonici trovarono il loro capitano di ventura in Crocco, vellicandone lo smisurato amor proprio e usandolo per i loro fini. Sulle prime, il pastore di Rionero, stregato dagli onori ricevuti e dalle mirabolanti promesse, credette davvero nel suo ruolo di «generale di Francesco II». Ma, ben presto, dopo la sconfitta della «reazione», egli prese ad agire per conto proprio, mirando soprattutto a salvare e consolidare il suo esercito brigantesco.
Crocco eroe popolare nelle tavole dei cantastorie (Immagini del museo «La Taverna R Crocc»)


Cessato il brigantaggio cosiddetto «politico»(ma il termine è improprio), le masnade di Crocco non furono animate da nessun ideale, neppure sociale. Solo nelle bande minori troviamo, a volte, forme di simbiosi con il mondo contadino; ma si trattava, per lo più, di frammenti dell’antico brigantaggio, fenomeno endemico delle province meridionali. Il nuovo e apocalittico brigantaggio postunitario, pur traendo anch’esso origine dalla secolare tragedia sociale del Mezzogiorno, trovò alimento nell’atteggiamento dei nuovi funzionari venuti dal Nord, incapaci di comprendere ragioni e mentalità locali. I piccoli focolai briganteschi, da sempre presenti, poterono così moltiplicarsi e ingrandirsi a dismisura, grazie al malcontento popolare e alla propaganda borbonica.

Condannato all’ergastolo nel 1872, Crocco morì nel 1905 nel bagno penale di Portoferraio. In carcere egli tenne una condotta irreprensibile, nella speranza di poter rivedere un giorno la sua Rionero. Non gli fu concesso. Lo Stato unitario, la cui insana politica era stata per molti versi responsabile della grande mattanza, mostrò con lui il suo volto più implacabile e ferrigno. Lo psichiatra Pasquale Penta, il quale visitò Crocco in carcere, scrisse di lui nel 1901 che non era un «folle morale» né un «delinquente nato»: era «capace di bene e di male, di generosità e di malvagità, di affetto e di collera cieca, che potevano mostrarsi o prevalere, a seconda le circostanze e gli uomini». Il professor Penta vide giusto: furono le circostanze storiche a fare di Crocco il più famoso e temuto masnadiero dell’Italia unita.
Autore del volume Carmine Crocco. 
Un brigante nella grande storia

Ettore Cinnella


27 novembre 2010

La regione spopolata e il sogno della fabbrica


1861-2011 Visioni d' Italia 1861-2011 il Paese di Oggi nei Luoghi della Memoria 41. Melfi


Il primo ministro Giuseppe Zanardelli nel settembre 1902 visitò la Basilicata: il suo viaggio, scrisse, si svolse attraverso paesi «senza alcuna strada rotabile» dei quali certi «non hanno neppure vie mulattiere e loro servono di strada i letti dei torrenti» Nel 1861 la Basilicata aveva circa mezzo milione di abitanti, come ora E la presenza della Fiat non ha portato quella svolta storica in cui tutti speravano

Quei discoli di «Cuore», anni fa, riuscirono a riderci su: «Italia: tu tilato noi ploplio glosso pacco». Si raccontava la storia di un' impresa concepita per fare catenine e monili d' oro e via via battezzata e ribattezzata con nomi sempre diversi e soci sempre diversi fino ad attirare l' attenzione di un consorzio pechinese, il Bejing Art & Craft. Il tutto senza mai nascere. Senza mai assumere gli operai promessi. Senza mai produrre una sola catenina. Al punto di scatenare un' inchiesta dell' allora Pm di Potenza Henry Woodcock (finita col rinvio a giudizio dei vari protagonisti per bancarotta fraudolenta) e di lasciarsi dietro uno strascico di polemiche per l' enormità dei soldi buttati e l' irritazione dei cinesi che, convinti d' esser stati bidonati, avrebbero oggi deciso di lasciar perdere l' oro e di tornare a batter cassa (incentivi su incentivi) con l' obiettivo di passare all' argento. Chi avesse ragione o torto, tra i cinesi e gli italiani, non è chiaro. Ma certo anche il giornale satirico faticherebbe oggi a ridere di quell' imbroglio. Perché l' odissea della «Sinoro» (ultimo nome assunto dalla fabbrica mai nata) è solo la metafora di una storica sconfitta. Quella del tentativo di portare in Basilicata le industrie con i soldi piovuti dopo il terremoto del 1980. Tantissimi soldi. L' illusione è durata pochi anni. Giusto il tempo per accorgersi che la Basilicata sarebbe stata risucchiata di nuovo nel gorgo delle regioni europee più depresse. L' emigrazione, che nel secolo scorso aveva spopolato interi paesi, è ripresa alla grande. Tanto che la regione ha perduto in meno di vent' anni, dal 1991 al 2010, ben 23 mila abitanti: da 611 mila a poco più di 588 mila. Un dato dice tutto. Al momento dell' Unità, nel 1861, negli attuali confini italiani vivevano 27 milioni di persone: sono più che raddoppiate. In Basilicata ce n' erano circa mezzo milione. Sono rimaste più o meno le stesse. Il reddito pro capite è intorno al 72% della media nazionale. E da qualche anno la Lucania, dopo essere stata faticosamente tirata fuori con robusti flussi di denaro dalle regioni depresse classificate dalla Ue con la sigla «Obiettivo uno», sta tornandoci dentro. Sta cioè scivolando di nuovo tra le aree che hanno un Pil pro capite inferiore ai tre quarti della media continentale e che perciò vengono aiutate dall' Unione. Media, si badi bene, abbassata da Paesi come Cipro, Polonia, Estonia, Romania... Un guaio. Perché quei soldi, stando alle regole attuali, non arriveranno più. Neanche se la Basilicata tornerà a essere una regione povera. Uno smacco. Che spazza via decenni di illusioni. Alimentate soprattutto dal petrolio dell' Eni, che doveva trasformare la Basilicata nel Texas d' Italia. Dalle aree attrezzate per attirare le fabbriche del Nord. Dallo sbarco della Fiat. Quando l' allora sindaco di Melfi Tommaso Bufano, una mattina del 1990, ricevette la telefonata di Romiti, pensò a uno scherzo. Chi aveva ricevuto la chiamata, alle otto meno qualche minuto, neppure aveva capito il nome: «Ha chiamato un certo Romita». «Romita chi? Il ministro?». Finché il telefono squillò di nuovo: «Sono Cesare Romiti. Volevo dirglielo di persona, prima che lo apprendesse dalla televisione. Abbiamo deciso di fare un grande stabilimento a San Nicola di Melfi». Poco mancò che Bufano svenisse. La svolta storica, pareva. Quella definitiva. Che chiudeva una volta per tutte con la Basilicata descritta nel 1899 in «Eroi e Briganti» da Francesco Saverio Nitti, lucano, meridionalista, sostenitore della tesi che solo l' industrializzazione avrebbe risollevato il Sud. Quando nel settembre 1902 (affrontando un viaggio attraverso paesi «senza alcuna strada rotabile» dei quali certi «non hanno neppure vie mulattiere e loro servono di strada i letti dei torrenti») ci andò il bresciano Giuseppe Zanardelli, il primo capo di governo settentrionale che cercò davvero di conoscere il Sud, restò ammutolito. Il mondo conosceva già da 77 anni il treno, da 68 il telegrafo, da 47 il motore a scoppio, da 23 la lampadina, da 18 il tubo catodico, da 12 la metropolitana elettrica. E a Matera, scriveva una relazione presentata dal Comizio Agrario a Zanardelli, «cinque sesti della popolazione materana abitano in tugurii scavati nella nuda roccia, addossati, sovrapposti gli uni agli altri, in cui i contadini non vivono ma a mò di vermi brulicano squallidi avvoltoi nella promiscuità innominabile di uomini e bestie, respirando aure pestilenziali». Oltre mezzo secolo dopo, nel 1963, nonostante la prima legge speciale per la Basilicata (liquidata da Gaetano  Salvemini come «paccottiglia») Giovanni Russo spiegava sul Corriere che non era cambiato nulla: «In tutta la regione l' analfabetismo è ancora elevato, le abitazioni sono per il 70% tuguri inabitabili e poco meno della metà dei paesi sono forniti di fognature». Le industrie piemontesi e lombarde, tedesche e francesi, attiravano emigranti offrendo «90.000 o 100.000 lire al mese, una somma favolosa per un contadino lucano che ottiene ancora, al massimo, un reddito di 120.000 lire all' anno». Tanti paesi, chiudeva con un groppo in gola, «sono diventati dei presepi deserti». Immaginatevi ora l' impatto della notizia: la Fiat a Melfi! Il piano era stato studiato a lungo dai vertici della casa torinese. In ballo c' erano i quattrini, un fiume, destinati alle grandi imprese che avessero investito al Sud. L' euforia colse la città e l' intera Regione, che già avevano sperimentato una bella iniezione di denaro pubblico. Grazie ai fondi del terremoto dell' Irpinia era stata creata un' area industriale a San Nicola di Melfi, una decina di chilometri dal paese dominato dal castello di Federico II. Erano sorti uno stabilimento di piastrelle, una industria tessile, anche un albergo. Tanti tentativi, risultati così così... Ma la Fiat, quella era un' altra cosa. Non solo per i 2.884 miliardi di contributi statali che avrebbero portato lavoro per migliaia di persone e decine di imprese per la costruzione della fabbrica. Il grande stabilimento di automobili avrebbe trascinato con sé anche un gigantesco indotto. Senza considerare l' effetto emulazione. Fu così che la pioggia di denaro cadde allegra anche sulla Barilla, che ebbe 218 miliardi di lire per la sua fabbrica melfitana. Su Gaspare Marcora, figlio del defunto leader dc Albertino Marcora, destinatario di un contributo di 21 miliardi per la sua azienda tessile Marcofil. Sulla modenese Stilgres del gruppo Giacobazzi, che raddoppiò la fabbrica di piastrelle. L' entusiasmo era tale che l' amministrazione comunale prefigurò un piano di sviluppo come se la città dovesse triplicare gli abitanti, da 16 mila a 50 mila persone. E poi strade, ferrovie, promozioni... Come potevano, ora, negare a Melfi lo status di capoluogo di provincia? Il sindacato accettò deroghe al contratto nazionale: salari un po' più bassi, condizioni di lavoro un po' più flessibili... Perfino la Fiom fece buon viso a cattivo gioco. In un' area ad alta disoccupazione si trattava di dare lavoro a migliaia di giovani. Sperimentando una nuova strategia industriale: quella della fabbrica integrata just in time, con grande impiego di robotica. Un unico insediamento avrebbe ospitato i produttori di componenti e lo stabilimento Fiat, abbattendo i costi delle scorte e dei trasporti per assicurare una competitività giapponese. Non a caso la Punto, macchina della svolta dopo la grande crisi dell' inizio degli anni Novanta, uscì da Melfi. E lì è sempre stata prodotta. Non a caso per fare quello stabilimento si creò una società apposita distinta dalla Fiat auto, battezzata Sata: Società automobilistica tecnologia avanzata. Ma quella fabbrica aveva anche altre particolarità. Per esempio il modello partecipativo, con l' introduzione di frammenti di cogestione dei ritmi di lavoro. Per esempio, una percentuale elevatissima di donne, almeno il 20%, rispetto agli impianti tradizionali. Doveva essere uno stabilimento nuovo di zecca, anche nella cultura dei lavoratori. Perciò, contrariamente alle abitudini aziendali che accordavano il trasferimento al Sud agli operai degli impianti settentrionali desiderosi di tornare nelle zone d' origine, si decise di assumere tutti ex novo. Proprio per evitare che la mentalità di Mimì metallurgico, e anche un certo sindacalismo, potessero contaminare la creatura. Quindici anni dopo, cosa resta del grande sogno? Mah... La fabbrica «partecipativa» ha lasciato il posto a una fabbrica «normale». Gli abitanti di Melfi, che dovevano triplicare, sono passati da 15.757 a 17.433: nel 1961 erano 18.208. Eppure a San Nicola lavorano più di 10 mila persone: in rapporto agli abitanti è la più grande concentrazione industriale d' Italia. Solo gli addetti della Fiat sono 5.693. Ma con le 17 industrie dell' indotto si arriva a 8.263. Perché la città allora non è cresciuta? Il dibattito va avanti da anni. L' opposizione, nell' unica città lucana governata dal centrodestra fin da quando è iniziata l' era Fiat (si pensi che a dispetto della spropositata massa operaia Rifondazione e i Comunisti italiani hanno preso insieme alle ultime regionali l' 1,15%!), dice che è colpa dell' inerzia del Pdl. Racconta che per trasformare Melfi in una città moderna era stato interessato perfino l' architetto Renzo Piano «ma poi non se ne fece nulla». Come non si fece nulla del previsto raddoppio della strada che collega Candela a Potenza. E di un piano di 8 mila alloggi che avrebbero dovuto essere concessi a riscatto agli operai. «Secondo i nostri calcoli il Comune ha incassato solo di Ici dell' area industriale una  cinquantina di milioni di euro», accusa Bufano, «ma non mi risulta che siano stati spesi». E la Fiat? Che ne è stato della Fiat? Dopo quella del 1992-1993 c' è stata una nuova crisi, poi un' altra ancora. E anche  l' illusione della fabbrica modello è pian piano svanita. Un primo brusco risveglio c' è stato nel 2004, quando l' impresa chiese di introdurre un meccanismo di turnazione particolare, la «doppia battuta». Un sistema di turni notturni continui che avrebbe consentito di recuperare fino a cinque giornate di lavoro l' anno a dipendente. Le reazioni furono durissime: scontri, scioperi, cortei con il vescovo in testa. Nel sindacato, che si era spaccato, il travaglio fu dolorosissimo. Ancora più brutto il secondo risveglio, con la crisi seguita al crac finanziario mondiale del 2008. E non solo per ciò che è capitato qui, con i nuovi contrasti interni al sindacato e il licenziamento di tre operai, poi reintegrati dal giudice mentre l' azienda si rifiutava di farli entrare in fabbrica dicendosi disposta a pagar loro lo stipendio purché rimanessero a casa fino alla sentenza definitiva. Uno strappo clamoroso, seguito dalle scioccanti dichiarazioni dell' amministratore delegato Sergio Marchionne, secondo il quale non un euro di utile per la casa torinese proviene dagli stabilimenti italiani. Parole interpretate come la premessa per il disimpegno (smentito) della Fiat dall' Italia. Ma sono i numeri che lasciano poco spazio all' immaginazione. Con circa 30 mila addetti e un indotto di altre 120 mila persone, gli stabilimenti italiani hanno una capacità produttiva teorica di un milione e mezzo di vetture l' anno. Ma oggi ne escono 650 mila. Più o meno quante ne produce lo stabilimento Fiat in Polonia con 6 mila operai (più l' indotto). Melfi è di gran lunga la fabbrica più produttiva della casa torinese in Italia: basti dire che una Punto assemblata lì costa 500 euro meno che a Termini Imerese e 300 in meno rispetto a Mirafiori. Lì si potrebbero produrre 450-500 mila auto l' anno. Invece non se ne fanno che 220 mila, anche per tenere in piedi le altre fabbriche. La Lancia Y, per esempio, usciva dalle linee di Melfi: poi è stata spostata a Termini Imerese. Per questo Melfi ha paura. Teme di fare le spese di tutto il resto. Fino al 2004 neanche sapevano, qui, il significato delle parole Cassa integrazione. Nel solo secondo semestre 2010 i giorni di «Cassa» sono stati 40. Anche l' indotto si è fermato. In quei giorni la gigantesca zona industriale melfitana si era trasformata in una città fantasma, percorsa solo dai cani randagi. Va da sé che anche la pace sindacale è finita. Come è finita la tregua fra gli stessi sindacati. La Fiom, che ha la maggioranza relativa ma è in minoranza per il gioco delle alleanze, è sulle barricate. Gli altri sindacati sperano. Sperano che arrivi la nuova linea di produzione dell' Alfa Mito, che la Y cinque porte non emigri in Polonia, che la promessa di Marchionne, intenzionato a produrre in Italia almeno un milione 200 mila auto, si avveri... Fatto sta che la situazione non è mai stata così difficile. Anche perché gli operai assunti vent' anni fa sono ancora troppo giovani perché inizi il turnover. E il panorama intorno è desolante. Allarga le braccia il sindacalista della Cisl Antonio Zenga: «Tutti i giorni governiamo chiusure di fabbriche». Nel 2009, dice uno studio Unioncamere, «gli effetti della crisi globale sono risultati amplificati dalle fragilità strutturali dell' economia locale» con un calo del Pil pro capite del 7%. Nettamente superiore alla già allarmante media italiana. E mentre si segnalano preoccupanti infiltrazioni della criminalità organizzata, pare riacutizzarsi l' antica piaga dell' emigrazione. Se ne vanno al Nord o all' estero perfino i giovani laureati rom di Melfi. Ragazzi appartenenti a una comunità di «zingari» fra le più antiche, colte e meglio inserite d' Italia. Una comunità che ha visto Saverio Bevilacqua, uno dei commercialisti più in vista della città, diventare non solo consigliere provinciale ma presidente del locale Rotary. Una comunità che già ai tempi di Zanardelli, quando l' analfabetismo qui era al 79%, come dimostra un libro di Jessica Boccia e Mauro Tartaglia, mandava i bambini a scuola. Per non parlare della politica. La carenza di leadership, dopo l' autunno del patriarca Emilio Colombo, è drammatica. Destra o sinistra, i lucani a Roma pesano sempre meno. Figurarsi a Bruxelles. E forse mai come ora la regione, nonostante possa dire con fierezza d' essere l' unico pezzo del Sud dove le mafie e le camorre e la ' ndrangheta e le sacre corone non sono mai riuscite a impossessarsi del territorio, si è sentita lontana da Roma, lontana dall' Europa. Non è facile, mentre ti senti risucchiato dentro le aree depresse dell' «Obiettivo uno», guardare al futuro con ottimismo. Il panorama delle nove aree industriali allestite in provincia di Potenza coi finanziamenti seguiti al terremoto del 1990, tolta la Fiat, è sconfortante. Certo, qualche insediamento è stato benedetto dalla fortuna. Come lo stabilimento, che va benissimo, della Ferrero a Balvano. Per attirarlo lassù sulle montagne, come ricorda Antonello Caporale nel suo ultimo libro «Terremoti spa», costruirono l' area industriale, a prezzi salatissimi, a mille metri sul mare. È ancora leggendaria la risposta che diede il sindaco alla commissione parlamentare d' inchiesta: «Come mai lassù in cima?». «Ce l' ha chiesto la Ferrero per farci lo stabilimento. Dice che lassù le merendine lievitano meglio». Quello che non è lievitato è il grande sogno industriale. Basti dire che a Baragiano, 638.570 metri quadri di area attrezzata dove dovevano essere assunti almeno 1.500 operai, dopo una via crucis di nascite e fallimenti, lavorano oggi in 125 nonostante i 250 milioni di euro in valuta attuale investiti complessivamente in quel progetto. Due milioni di euro a posto di lavoro. Un divario drammatico, tra sogno e realtà. Viene in mente la storia della ricottella che raccontava il vecchio Colombo: «La villanella con la ricottella se ne andava bel bella e lungo la strada, sempre con ' sta ricottella sulla testa e le mani sui fianchi, già se la godeva: mò mi vendo al mercato ' sta ricottella, coi soldini comincio a farmi la dote, con la dote mi trovo un marito, col marito mi fo la casa... Finché inciampò e...».
Stella Gian Antonio, Rizzo Sergio

martedì 23 novembre 2010

Sui risarcimenti al Sud


Un lettore del Corriere della Sera scrive  a Sergio Romano e dice che

In una risposta a un lettore che parlava, in caso di secessione, di risarcimenti dovuti a questo e a quello, lei non ha fatto cenno al diritto del Sud a un risarcimento per i danni subiti nella forzata annessione al Nord, danni che vanno dai fondi della Banca del Mezzogiorno a industrie, beni marittimi e tante altre cose che avevano fatto del Regno delle Due Sicilie e della sua capitale, Napoli, un insieme di ricchezza e felicità. Il successo del libro «Terroni» di Pino Aprile che parla di queste cose testimonia come sempre più italiani diventino sensibili ai problemi del Sud”


Risponde Sergio Romano : 
”Caro Castellano, Il Corriere riceve in questi giorni molte lettere, soprattutto di lettori meridionali, che deplorano i soprusi dei piemontesi, l’ arroganza del Nord, il sacco del Sud, e rimpiangono una specie di età dell’ oro durante la quale i Borbone di Napoli avrebbero fatto del loro regno un modello di equità sociale e sviluppo economico. Le confesso che, leggendo queste lettere, ho due reazioni alquanto diverse. La prima è un sentimento di fastidio per questo travisamento della storia nazionale. Per unanime consenso dell’ Europa d’ allora il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva, paternalista e bigotta. La «guerra del brigantaggio» non fu il fenomeno criminale descritto dal governo di Torino, ma neppure una guerra di secessione come quella che si combatteva negli Stati Uniti in quegli stessi anni. Fu una disordinata combinazione di rivolte plebee e moti legittimisti conditi da molto fanatismo religioso e ferocia individuale. La classe dirigente unitaria fece una politica che favoriva le iniziative industriali del Nord perché erano allora le più promettenti, e non fece molto, almeno sino al secondo dopoguerra, per promuovere lo sviluppo delle regioni meridionali. Ma il Sud si lasciò rappresentare da una classe dirigente di notabili, proprietari terrieri, signori della rendita e sensali di voti, più interessati a conservare il loro potere che a migliorare la sorte dei loro concittadini. La seconda reazione, invece, è molto più ottimistica. Vi sono circostanze in cui la rabbia e il sentimento di una ingiustizia patita, anche se fondato su una lettura sbagliata del passato, possono produrre risultati positivi. Se queste lettere indicassero la crescita al Sud del numero di coloro che sono stanchi di andare a cercare fortuna altrove e vogliono dare al Nord una lezione di energia e dinamismo, ne sarei felice. Anziché temere la Lega, il Sud avrebbe interesse a imitarla creando nelle sue regioni un movimento che non si limiti a raccogliere voti per darli al migliore offerente. In altre parole al Meridione serve una «Lega Sud» che cambi in una generazione, come è avvenuto al Nord, tutto il personale politico delle amministrazioni comunali e provinciali. Per raggiungere i loro obiettivi, Umberto Bossi e i suoi compagni hanno inventato i celti e la Padania. Il Sud può inventare il regno felice dei Borbone. Quando sono utili al futuro, i travisamenti del passato sono perdonabili.”

domenica 21 novembre 2010

Garibaldi da buttare


Alberto Maria Banti

Lo storico Banti sostiene che Risorgimento e fascismo sono imparentati dall’idea di nazione, di “sangue e suolo”. E che la storia dell’unità d’Italia è inservibile, come le idee dei padri fondatori e il loro linguaggio. L’errore di Ciampi e il nazionalismo nordista

Che ce ne facciamo del Risorgimento? Siamo sicuri che il Risorgimento liberale non sia imparentato con il fascismo? Uno storico dell’Università di Pisa, Alberto Maria Banti (53 anni), sta mettendo in crisi i festeggiamenti per il Centocinquantenario. Con un’antologia di testi (“Nel nome dell’Italia”, editore Laterza) intende dimostrare quanto sia lontano, posticcio e polveroso il Risorgimento, e quanto controversa l’idea di nazione che esso veicolò fin dentro il ventennio mussoliniano.

"Se vogliamo capire cosa celebriamo, facendo del Risorgimento uno dei miti fondativi della Repubblica, dobbiamo conoscerele strutture elementari del discorso nazionalistico e stabilire poi se davvero fanno ancora al caso nostro", dice il Professore ironizzando sui proclami ridondanti di garibaldi, sugli appelli in lingua aulica del cattolico Gioberti, sulla monarchia autoritaria suggellata dallo statuto albertino.
Banti prenda di mira il neopatriottismo risorgimentale di Carlo Azeglio Ciampi, che in funzione antileghista, ha deciso di riesumare valori e simboli perduti, come il primo tricolore romboidale della repubblica cisalpina. L'ex presidente voleva riattivare la mitografia del Risorgimento per far rinascere il senso di appartenenza della nazione e scongiurare il rischio di secessione.
Così facendo però, obietta Banti, non si è accorto di ripescare nel repertorio della storia gli stessi materiali utilizzati dalla Lega, e di fornire a quest'ultima argomenti preziosi.
La Lega, infatti, secondo Banti, non è un movimento antinazionale: "E' un movimento nazionalista contro la nazione italiana, perchè identifica un soggetto che appartiene ad un territorio specifico, con il meccanismo del Sangue e del suolo".
Sicchè, per quanto ruidimentali nel caso di Bossi e Borghezio e più complesse nel caso di Ciampi, le strutture elementari del loro discorso restano identiche e rimandano alla stessa matrice.
"La nazione per il Risorgimento non è un'astrazione culturale, ma un legame biopolitico, cementato dal concetto di stirpe. E' un dispositivo che implica il sacrificio come forma di martirio, facendo dell'eroismo bellico il fulcro della memoria storica;comporta un'asimmetria di genere tra maschi e femmine, e insiste sulla difesa dell'onore nazionale come onore sessuale".
Sono queste le strutture che alimentano la nazionalizzazione delle masse durante il Risorgimento liberale e continuano ad animare la pedagoiga della nazione durante il fascismo, spiega Banti.
 "Riproporle adesso come fa la Lega per legittimare l'invenzione della Padania, e come ha fatto Ciampi per legittimare il suo ecumenismo "crispino" (dal nome dell'esponente della sinistra storica Francesco Crispi, ex garibaldino, ex repubblicano, poi parlamentare, dunque tenuto a giurare fedeltà alla monarchia) confondendo in un tutto armonico Cavour, Mazzini, Garibaldi e Vittorio emanuele II, e annullando ogni differenza come se fossero tutti protesi allo stesso scopo dell'Unità d'Italia, vuol dire ammantare di nebbia dorata tutta la storia del Risorgimento senza capire cosa celebrare e perché" .
E' un vecchio vizio storico italiano, visto che accomuna, secondo Banti, liberali e fascisti, uniti dalla stessa idea risorgimentale di nazione. Arriviamo così all'altra tesi scandalosa per le sue conseguenze(studiata da Banti in un libro, "Sublime Madre nostra. L'idea di nazione dal Risorgimento liberale al fascismo", che uscirà in gennaio da Laterza). "Le leggi razziali in fondo non sono che la gemmazione coerente del fatto che la  nazione è sangue e suolo per i fascisti, come lo era stata per i liberali", dice Banti. Anche se il grande storico Carlo Ginsburg, ricorda sull'Espresso in edicola che il padre Leone, "italiano per scelta", eroe e martire dell'antifascismo, visse con Vittorio Foa le leggi razziali come un tradimento dell'eredità del risorgimento",  con il quale si identificava fortemente.  Ma tant'è. Se davvero sono questi, cioè il sangue e il suolo, il culto sacrificale del bellicismo, e l'ossessione dell'onore, i materiali che tengono insieme l'Italia di oggi, al di là della frattura che si rivela ogni giorno più labile, tra fascismo e democrazia repubblicana, sarebbe meglio trovarne degli altri, suggerisce Banti.
"E prenderli sul serio" , aggiunge. Per es. il patriottismo costituzionale che io m'immagino con un bel rituale civico, di giuramento di lealtà nei valori fondanti della nazione, da imporre a tutti gli italiani maggiorenni, e non solo agli stranieri naturalizzati. Dobbiamo liberarci dell'idea che il sangue da solo sia in grado di trasmetttere i valori fondanti. Purtroppo non è così. Basta uscire di casa e domandare al pruimo venuto di recitare a memoria i primi articoli della Costituzione. farà scenma muta. "E i fischi contro Balotelli e Ledesma nell'ultima partita di calcio, fischi lanciati dagli stessi ultrà, che facevano il saluto romano, cantando l'inno di Mameli, ne offrono l'ennesima, grottesca dimostrazione", dice questo allievo di Romanelli, approdato alla Storia intellettuale dopo un tirocinio di Storia Sociale, che oggi si considera un agnostico ma si considera "un po' di sinistra", e da anni lavora su un'idea fantasma come la nazione "scomparsa dal discorso pubblico dei paesi d'europa dopo la sconfitta del 1945, quando nessuno voleva più passare per fascista o nazista, e consumata in Italia da 50 anni di egemonia cattocomunista".

giovedì 18 novembre 2010

È LA NOSTRA RIVOLUZIONE


   Ora, grazie a Arbasino, rivisiterò con più attenzione la pittura risorgimentale alle Scuderie del Quirinale. La annuserò, anzi, perché Arbasino descrive, su questo giornale, i quadri che rappresentano interni familiari come un insieme di "porcai e cessi", "bimbi lerci e massaie ripugnanti", "padellini bisunti"; e gli esterni storici come "baraonda e bailamme". Insomma, caos, profumi e balocchi, altro che idee di libertà e di unità della nazione. Sì, anche balocchi, perché il quadro di Gerolamo Induno sulla battaglia di Magenta del 1859 mostra tra i soldati francesi delle "truppe inturbantate e africane". E Arbasino si chiede: «Avranno poi "marocchinato" le magentine come nella Ciociara ?». La risposta è, certamente sì. Se no perché l'insolita domanda? Insomma, aveva ragione Petrolini. Cosa è stato mai questo Risorgimento se nelle strade di tutte le città d' Italia vi sono targhe con su scritto "via Cavour", "via Garibaldi", "via Mazzini". Cacciamoli via, finalmente, questi signori. Lo dice anche il politologo Banti (sempre su questo giornale): «Ma ce li avete presenti i protagonisti del "dibattito" sul 150° anniversario dell' Unità d' Italia? Politici, giornalisti, scrittori e intellettuali che parlano di Risorgimento come se fosse un evento accaduto ieri, carico di valori da rispettare e osservare proprio come se fossero in perfetta sintonia con la nostra vita?». La risposta è ancora sì, ce li abbiamo presenti, anche se tra i protagonisti del "dibattito" il politologo non a caso non mette gli storici i quali attualizzano in modo diverso il Risorgimento e hanno qualche dubbio sugli altri "valori" rivendicati come veri, cioè il brigantaggio (del quale, su questo giornale, è stato fatto il rimpianto da Paolo Rumiz) i Borboni, la rivoluzione sociale comunista, le masse contadine ingannate da Garibaldi, eccetera. E non sono neanche convinti che l' Italia, come ha scritto Curzio Maltese, sia in fondo «patria di sudditi divisi ieri come oggi». Il "succo del nocciolo", (ma il nocciolo ha succo?) è quindi, secondo Banti, che il Risorgimento «avvenne sotto il segno di Cavour e della monarchia sabauda», che «lo Stato che si forma tra il 1859 e il 1860 vede l' opposizione fermissima del papa», che «il Risorgimento è stato un processo complesso, contraddittorio». Queste, sì, sono grandi scoperte... Comunque sia, questa storia non ha da dirci più nulla dato che «il Risorgimento è un paese lontano». Dunque, questo è, sui giornali, lo stato attuale del "dibattito". Ma non sorprende più di tanto chi sa che a ogni passaggio di regime politico, il Risorgimento è stato messo da inesperti studiosio giornalisti sotto accusa, ridicolizzato. Lo fu nel 1922, quando crollò il sistema liberale, lo fu venti anni dopo al momento della crisi finale del regime fascista, quando Adolfo Omodeo fu costretto a scrivere una Difesa del Risorgimento e quando, sull' ultimo numero di Primato, la rivista di Bottai, un grande storico liberale, Carlo Morandi, difese il Risorgimento. E se provassimo allora a immaginare che proprio in questo momento, in Italia, sia più che mai necessaria la memoria dell' unica rivoluzione che ha portato il nostro paese nel regno della libertàe della modernità?E se ricordassimo il Risorgimento con le parole con cui Giansiro Ferrata ne rievocava a Elio Vittorini nel 1946 una pagina particolare ma importante: le Cinque Giornate di Milano? «Fu tutta la vitalità profonda che sta dentro al sangue popolarea dir no alla paura e a dir di sì al sacrificio, a strappare di slancio vittorie in ogni via e ad ogni Porta. Questo è il significato delle Cinque Giornate e i milanesi lo sentono così».
 LUCIO VILLARI

RISORGIMENTO Quel mito fondativo che fa discutere l' Italia


   Alla fine dell' Introduzione all' ampia antologia da lui curata e ora in uscita dalla Laterza, Nel nome dell' Italia. Il Risorgimento nelle testimonianze, nei documenti e nelle immagini, Alberto Mario Banti scrive di aver voluto trasmettere al lettore la visione di un Risorgimento come «un movimento ampio, ricco, complesso, contraddittorio», che appare «ancora oggi straordinariamente affascinante e degno di essere attentamente studiato, piuttosto che acriticamente giudicato, enfaticamente esaltato o liquidato senza appello». Meglio di così, alla vigilia della celebrazione del Centocinquantesimo dell' unità d' Italia non si sarebbe potuto dire. Lo studioso non vuole giustamente sapere del mito del Risorgimento in chiave semplificata e retorica. E perciò invita a considerare la «distanza storica che ci separa dal Risorgimento»: non già per lasciarlo da parte, ma per considerare quell' evento fondativo dell' unità italiana «con maggior freddezza e con minori passioni politiche (positive o negative)». Invita a guardare alle divisioni che opposero i repubblicani ai monarchici, i centralisti ai federalisti, i liberali ai democratici, i clericali prima al processo di unificazione e poi al nuovo Stato, che, appena costituito, si trovò a dover affrontare «una fase di furibonda guerra civile», quella del brigantaggio nel Mezzogiorno. Detto tutto ciò Banti pone la domanda cruciale (la domanda, appunto che avanzano le varie correnti anti-risorgimentali, a partire dai leghisti): se uno Stato nato da profonde lacerazioni interne non si presenti come «una compagine eticamente marcia dalle fondamenta»: e risponde acutamente che allora si dovrebbero «applicare le stesse considerazioni a qualunque altro Stato che incontriamo nell' Occidente contemporaneo» (e non solo). È questo l' approccio giusto, della ragione storiografica che riflette con un atteggiamento critico, al "problema Risorgimento", contrapposto a quello del facile e intellettualmente inutile mito celebrativo, culminato nella retorica fascista. Sono passati 150 anni dal 1861, che per un verso - come nota ancora Banti - «hanno effettivamente creato il senso dell' esistenza di una comunità nazionale italiana», per l' altro mostrano e continuano a mostrare quanto l' Italia sia stata e resti percorsa da ininterrotte e profonde disunità. Di qui gli interrogativi sul suo percorso. Orbene, non diamo però l' impressione che sia venuto solo ora chi prende finalmente a riflettere criticamente sul "problema Risorgimento"; poiché si iniziò a farlo sin dall' indomani del compimento dell' unità. Abbiamo alle spalle un robusto deposito di altissima qualità, che fece tutt' altro che suonare le trombe del facile mito. Si pensi a come tutto il pensiero dei meridionalisti da Pasquale Villari in poi fu un denso e diverso misurarsi sull' eredità lasciata dal Risorgimento; si pensi al dibattito suscitato dalla pubblicazione dei Quaderni di Antonio Gramsci, che oppose in primo luogo Rosario Romeo agli studiosi che al leader comunista si rifacevano, a quello acceso da Denis Mack Smith; e via dicendo. La discussione, critica e acritica, sulla nostra unificazione nazionale la si può vedere ripercorsa nelle pagine del classico volume einaudiano Interpretazioni del Risorgimento di Walter Maturi, pubblicate nel 1962 e recentemente nel saggio edito da Donzelli di Lucy Riall, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni. L' antologia curata da Banti si colloca quindi in una scia di interpretazioni che ben rispecchiano le persino opposte tendenze della storiografia. Due considerazioni finali. La prima per attirare l' attenzione sull' osservazione di Banti che la Lega si è proposta di promuovere essa stessa un suo «risorgimento», quello della Padania. A imitazione in un certo senso delle élite che, con una «invenzione» ideologica e politica, fecero nascere lo Stato nazionale, anche la Lega persegue il fine di inventare la sua nazione; dal che egli avanza l' ipotesi che essa possa essere considerata a suo modo «erede del nazionalismo risorgimentale». Lo studioso esorta a indagare. La seconda considerazione riguarda l' altra osservazione di Banti che gli sforzi di coloro che, come il presidente Ciampi (ma dobbiamo aggiungere il nome del presidente Napolitano), si sono fatti difensori del Risorgimento e dell' unità nazionale alla luce di un «neopatriottismo "buono"», rischiano col cedere al mito retorico di dar corda alle posizioni opposte degli anti-risorgimentali e dei nazionalisti di destra. Qui mi pare che si prema troppo l' acceleratore. Né l' uno né l' altro presidente - si vedano in proposito i recenti interventi di Napolitano su Cavour e in generale sull' unità italiana - hanno gonfiato il mito retorico. Essi hanno invece invocato - contro le divisioni e i contrasti attuali e quelli stessi ereditati dal 1859-61 - l' esigenza di far prevalere ciò che si definisce il "patriottismo costituzionale"; che è, direi, altra cosa. Discutiamo e ragioniamo, ma nella consapevolezza che l' unità del paese uscita dal Risorgimento con i suoi ulteriori sviluppi è l' unica storia che abbiamo, da cui non possiamo prescindere e da cui dobbiamo in ogni caso partire: certo con gli occhi bene aperti ai problemi della difficile unità italiana.
 - MASSIMO L. SALVADORI

martedì 16 novembre 2010

IL RISORGIMENTO NON È UN MITO

Anticipiamo una parte dell' introduzione di Alberto Mario Banti al libro "Nel nome dell'Italia" in uscita da Laterza.
   Ma ce li avete presenti i protagonisti del "dibattito" sul 150° anniversario dell' Unità d'Italia? Politici, giornalisti, scrittori e intellettuali di varie discipline che parlano del Risorgimento come se fosse un evento accaduto ieri, carico di valori da rispettare e osservare proprio come se fossero in perfetta sintonia con la nostra vita? Che parlano di Garibaldi, di Mazzini, di Vittorio Emanuele II o, se è per questo, anche di Francesco II, come di leader politici per cui schierarsi pro o contro, grosso modo come ci si può schierare proo contro Bossio Vendola, Berlusconi o Bersani, D' Alema o Fini? Bene. Adesso provate a leggere qualcuno dei documenti raccolti in questa antologia, e ditemi se ci trovate qualcosa che vi fa battere per davvero il cuore. O qualche leader i cui valori vorreste seguire davvero, consapevoli delle conseguenze e degli atti concreti che comporterebbero. Ascoltate, intanto, qualche frammento: «Il genio proprio degli Italiani nelle cose civili risulta da due componenti, l' uno dei quali è naturale, antico, pelasgico, dorico, etrusco, latino, romano, e s' attiene alla stirpe e alle abitudini primitive di essa» (Gioberti); «L' han giurato: altri forti a quel giuro / Rispondean da fraterne contrade, / Affilando nell' ombra le spade/ Che or levate scintillano al sol. / Già le destre hanno strette le destre; / Già le sacre parole son porte: / O compagni sul letto di morte, / O fratelli su libero suol» (Manzoni); «Amanti della pace, del diritto, della giustizia - è forza nonostante concludere coll' assioma d' un generale americano: "La guerra es la verdadera vida del hombre!"» (Garibaldi). Trovato qualcosa? No? Allora provate con testi più ufficiali: che so, lo Statuto albertino: «Lo Stato è retto da un Governo Monarchico Rappresentativo. Il Trono è ereditario secondo la legge salica.- Il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal Re e da due Camere: il Senato, e quella dei Deputati <per la quale vota meno del 2% della popolazione del Regno&. - La persona del Re è sacra e inviolabile». Vivreste volentieri in uno Stato con una Costituzione di questo genere? Oppure, vivreste volentieri in una monarchia assoluta senza libertà e con una notevole quantità di arbitrii, com' era il Regno delle Due Sicilie? Se la risposta è sì, buona fortuna, e speriamo che il viaggio nel tempo vi sia benigno. Se la risposta è no, è arrivato il momento di fare il punto sulla situazione. E il "succo del nocciolo" quale sarebbe? Lo enuncio per punti, il più schematicamente possibile:
  1. il Risorgimento è un paese lontano: fanno le cose diversamente, laggiù;
  2. la distanza storica che ci separa dal Risorgimento ci dovrebbe invitare a considerare ciò che è successo allora con maggior freddezza e con minori passioni politiche (positive o negative);
  3. ma cos' è successo allora? è successo che si è costruito uno Stato di tipo nuovo, uno Stato-nazione;
  4. ovvero uno Stato fondato sul principio secondo il quale la sovranità appartiene non a un singolo (il re),oa gruppi ristretti (i nobili), ma all' intera popolazione di un territorio, una collettività che dalla fine del Settecento viene identificata prevalentemente col termine di «nazione»;
  5. questo concetto è costruito attraverso materiali ideologici che - sin dal primo Ottocento - descrivono la nazione come una comunità di destino, cementata dal sangue, dotata di una terra, di una cultura, di una tradizione religiosa e storica, e pronta a combattere per riscattarsi da secoli di oppressione;
  6. questa appena descritta non è una dinamica che riguardi solo l' Italia: il nazionalismo, così come si forma nel primo Ottocento, è un fenomeno europeo, ed è strutturato dovunque intorno a un' ideologia che è materiata, essenzialmente, dei medesimi elementi;
  7. si tratta anche di un' ideologia che invoca la libertà nazionale, anche se dev' essere ben chiaro che la libertà di cui si parla riguarda solo una parte ben specifica della comunità nazionale: - per i nazionalisti liberali, infatti, gli individui che possono godere del diritto di voto devono essere maschi, adulti, ricchi, coltie membri della comunità nazionale per legami di sangue: niente donne, niente poveri, niente ceti medi, niente stranieri; - per i nazionalisti democratici, invece, questi individui devono essere maschi, adulti e membri della comunità nazionale per legami di sangue: niente donne, niente stranieri; 
  8. il movimento risorgimentale vede crescere - nell' arco di tempo che va dal 1796 al 1861 - il numero di militanti o di simpatizzanti che lo sostengono; se è un movimento unito per quel che riguarda l' idea di nazione, è invece un movimento profondamente diviso per ciò che concerne gli assetti politico-costituzionali del nuovo Stato: i repubblicani si contrappongono ai monarchici; i centralisti ai federalisti; i liberali ai democratici; e queste diverse opzioni si combinano variamente, dando vita a gruppi politici vari, sebbene di vario peso politico e militare;
  9. la conclusione del processo risorgimentale, la costruzione di uno Stato unitario, avviene sotto il segno di Cavour e della monarchia sabauda. Ciò non significa che questi siano gli unici agenti del processo: senza il determinante contributo del volontariato democratico e di opinioni pubbliche variamente nazionalpatriottiche, nel 1859-1860 non ci sarebbe stato che un piccolo ampliamento territoriale del Regno di Sardegna, che avrebbe inglobato la Lombardia: e basta;
  10. lo Stato che si forma tra 1859 e 1860 vede l' opposizione fermissima del papa, Pio IX, e di una parte dell' opinione pubblica cattolica (i cattolici "intransigenti"), che lo segue anche come leader politico: il motivo della contrapposizione è sia lo sforzo di costruire uno Stato laico, perseguito dal Regno di Sardegna sin dal 1850 (politica proseguita anche dopo la costituzione del Regno d' Italia), sia lo smembramento dello Stato pontificio, necessario per la costruzione di uno Stato italiano unitario;
  11. lo Stato che si forma in Italia attraversa anche una fase di furibonda guerra civile, concentrata nel Mezzogiorno continentale, quella del "brigantaggio"; si tratta certamente di una tragica esperienza; ma avete mai riflettuto che non c' è un singolo Stato moderno che non si formi attraverso scontri politici molto duri, e molto spesso attraverso guerre civili sanguinosissime? Pensate alla Gran Bretagna: lì ci vuole un secolo di massacri - il XVII - per costituirla; e i massacri continuano ancora per almeno tre secoli (con cicli e cronologie diversi) in aree territoriali marginali come la Scozia o l' Irlanda. Pensate alla Francia: dalla Rivoluzione alla Comune è una guerra civile incessante tra partiti di diverso orientamento ideologico, a Parigi, in Vandea, e altrove in provincia, fino alla repressione della Comune (1871), che in pochi giorni miete decine di migliaia di vittime. Pensate agli Stati Uniti, che nascono con una prima secessione violenta e che, proprio negli anni del brigantaggio italico, sprofondano nelle violenze di una seconda secessione, la guerra civile, che costa agli Stati Uniti tanti caduti quanti ne sono stati causati da tutte le guerre combattute dagli americani nel XX secolo. Che vuol dire, tutto questo discorso? Che uno Stato unitario che nasce con così tanti contrasti, che è fondato su così gravi violenze fratricide, non può che essere una compagine eticamente marcia dalle fondamenta, di cui sarebbe meglio liberarsi una volta per tutte? Se dicessimo così, credo che dovremmo applicare le stesse considerazioni a qualunque altro Stato che incontriamo nell' Occidente contemporaneo. Meglio porre la questione italica da un altro punto di vista. Il Risorgimento è stato un processo complesso, contraddittorio, e alimentato da sistemi di valori forse lontani dalle sensibilità di oggi. E se c' è da difendere l' unità dell' attuale Repubblica italiana contro ipotesi di secessione, piuttosto che tirare in ballo il Risorgimento dovremmo ponderare altre ragioni. Per esempio dovremmo considerare che storicamente sono pochissimi i casi di rilevanti mutamenti geopolitici che non siano stati preceduti o accompagnati da gravissime violenze: e questo, per me, sarebbe più che sufficiente per opporsi a ogni ipotesi secessionista, chiunque la avanzi. Oppure potremmo anche semplicemente osservare che il senso di uno Stato dovrebbe giudicarsi non dalla congruenza della sua territorialità con presunte identità etniche, quanto dai valori fondamentali che si pensa debbano regolare la sua vita collettiva: da questo punto di vista, i valori ideali della Repubblica italiana sono scritti nella Costituzione (se e per quanto ancora reggerà), e sono molto belli, se solo uno si prendesse la briga di leggere il testo e di rifletterci su. D' altro canto non saprei dire quali potrebbero essere i valori di un possibile Stato padano o neo-borbonico; e da quel che si vede c' è da dubitare che sarebbero altrettanto belli di quelli difesi dalla carta costituzionale della Repubblica italiana.
 ALBERTO MARIO BANTI