martedì 24 gennaio 2017

Speciale Risorgimento: quando banchieri e inglesi facevano affari con i Borbone (parte I) Aggiunto da Redazione il 24 gennaio 2017.

Roma, 24 gen  Quella che segue è la prima di tre parti di un contributo fondamentale del nostro collaboratore Luca Cancelliere sulla storia del Risorgimento. In questo articolo vengono decisamente e rigorosamente confutate le teorie complottiste filo-borboniche e anti-risorgimentali che, fondandosi spesso su illazioni e falsi storici, mirano a rimettere in discussione l’unità politica e morale della nostra nazione, conquistata dai patrioti italiani lungo l’arco di molti decenni con alto tributo di sangue. (IPN)
Risorgimento

Introduzione

Negli ultimi 25 anni, il cosiddetto “revisionismo del Risorgimento”, con particolare riguardo alla conquista garibaldina e sabauda del Regno delle Due Sicilie, da tema relegato all’ambiente intellettuale (o presunto tale) è stato oggetto di ampio dibattito nella cultura popolare. Il dibattito pubblico sull’argomento, contrariamente a quanto si crede, risale ai primi anni dell’Unità. La questione meridionale fu dibattuta sin dagli anni ’60 del secolo XIX dalla classe politica e intellettuale del tempo e il Parlamento del Regno dedicò alla questione anche numerose commissioni d’inchiesta. Meridionalisti come Pasquale Villari, Leopoldo Franchetti, Giustino Fortunato, Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini e Antonio Gramsci, con toni e argomenti di ben altro livello rispetto agli odierni denigratori del Risorgimento e soprattutto senza mettere in discussione il risultato storico dello Stato unitario, esaminarono gli aspetti più controversi dell’unificazione nazionale.
Il fascismo storico esaltò con ogni mezzo e in ogni ambito il Risorgimento, senza concessione alcuna alle tesi revisioniste: lo attestano la filatelia, l’odonomastica, le intitolazioni di istituzioni e beni civili e militari, i libri di testo delle scuole di ogni ordine e grado, la letteratura accademica, la cinematografia, i discorsi e i documenti ufficiali del Regime e in particolare del Duce e dei massimi gerarchi. Nel secondo dopoguerra il revisionismo del Risorgimento si affacciò in ambito accademico nel solco del meridionalismo pre-fascista e in particolare dell’insegnamento marxista di tipo gramsciano.
A livello popolare e di cultura di massa, praticamente fino agli anni ’90 del Novecento il revisionismo anti-risorgimentale, anti-sabaudo e filo-borbonico era sconosciuto nell’Italia meridionale. Una conferma viene dal fatto che nel secondo dopoguerra la Monarchia e Casa Savoia godevano di una grande popolarità nel Mezzogiorno. Nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946 tutte le 12 circoscrizioni elettorali meridionali e insulari (sulle 31 totali) garantirono alla Monarchia maggioranze molto superiori al 51%: Napoli 78,9%, Lecce 75,3%, Salerno 72,9%, Benevento 69,9%, Catania 68,2%, Bari 61,5%, Palermo 61%, Cagliari 60,9%, Catanzaro 60,3%, Potenza 59,4%, L’Aquila 53,2%, Roma 51%.
Dalla seconda metà degli anni ’40 alla fine degli anni ’60 i partiti di ispirazione monarchica (Partito Nazionale Monarchico, 1946-1959; Partito Monarchico Popolare, 1954-1959; Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica, 1959-1972) raccolsero risultati elettorali considerevoli in tutto il Mezzogiorno. Nelle elezioni politiche del 1953, il Partito Nazionale Monarchico raccolse alla Camera dei Deputati il 7,7% in Abruzzo, il 9,61% in Molise, il 21,46% nella Circoscrizione Napoli-Caserta, il 22,21% nella Circoscrizione Benevento-Avellino-Salerno, il 10,36% in Basilicata, il 16,28% nella Circoscrizione Bari-Foggia, il 14,41% nella Circoscrizione Brindisi-Lecce-Taranto, l’8,82% in Calabria, il 10,51% in Sicilia Occidentale, il 12,57% in Sicilia Orientale. Questo senza tenere conto che tutti gli altri partiti dell’epoca, dal Pci al Msi, pur con diverse sfumature, erano tutti convintamente risorgimentalistianche se anti-monarchici e di ispirazione repubblicana.
A partire dagli anni ’50, tuttavia, in alcuni ristretti circoli intellettuali cominciò a diffondersi un tipo del tutto nuovo di critica anti-risorgimentale, che attingeva per la prima volta alla polemica legittimista, cattolica integralista e reazionaria del secolo precedente, mettendo in discussione anche la legittimità dello Stato unitario. Si pensi ai romanzi di Carlo Alianello (L’Alfiere, scritto nel 1942 ma censurato dal regime fascista e diffusosi solo nel dopoguerra, e L’eredità della priora del 1963), che furono entrambi oggetto di una trasposizione televisiva da parte della Rai. Il maggiore contributo divulgativo anti-risorgimentale fu dato dallo scrittore marxista (già dirigente del Psiup) Nicola Zitara con il libello L’Unità d’Italia: nascita di una colonia (1971). È però solo a partire dalla fine degli anni ’90 del Novecento che si sono diffusi numerosi libelli divulgativi di scarso valore scientifico e di ancor minore obiettività, in massima parte scritti da giornalisti. A parte i famigerati libelli di Pino Aprile, si ricordino in questa sede: Maledetti Savoia (1998) e Indietro Savoia! Storia controcorrente del Risorgimento italiano (2003) di Lorenzo Del Boca1861. Pontelandolfo e Casalduni. Un massacro dimenticato (1998), I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combatté per i Borbone di Napoli (2004) e Controstoria dell’unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento (2007) di Gigi Di FioreRisorgimento da riscrivere (2007) di Angela PellicciariI lager dei Savoia. Storia infame del Risorgimento nei campi di concentramento per meridionali (1999) di Fulvio Izzo. Di seguito si esamineranno analiticamente le argomentazioni del revisionismo anti-risorgimentale con riferimento alla conquista garibaldina e sabauda del Regno delle Due Sicilie.

La politica interna e internazionale del Regno delle Due Sicilie

Risorgimento
L’incoronazione di Carlo II dei Borboni di Spagna come Re di Napoli (10 maggio 1734) e rex utriusque Siciliae a Palermo (3 luglio 1735) inaugurò una fase positiva per il Meridione d’Italia. Il primo Re Borbone di Napoli (1734-1759) lasciò il trono per quello di Madrid rimasto vacante. Durante la prima parte del regno del figlio Ferdinando IV (1759-1816; Re delle Due Sicilie dal 1816 al 1825) a partire dalle illuminate riforme in campo legislativo, economico ed ecclesiastico promosse dal Primo Ministro Bernardo Tanucci dal 1754 al 1774, Napoli conobbe un indubbio progresso, diventando anche un importante centro culturale grazie a intellettuali riformisti come l’economista Antonio Genovesi,  i giuristi Gaetano Filangieri e Mario Pagano, il filosofo Vincenzo Cuoco e il letterato Francesco LomonacoLa Rivoluzione Francese prima e la Repubblica Partenopea (1799) poi, tuttavia, indussero i Borboni ad abbandonare la politica riformista per abbracciare posizioni sempre più reazionarie. Durante il brevissimo periodo della Repubblica Partenopea (22 gennaio – 13 giugno 1799) e nella più lunga fase in cui Napoli, transitata nell’orbita francese, fu governata da Giuseppe Bonaparte prima e Gioacchino Murat poi (1806-1815), la continuità dinastica dei Borboni fu salvaguardata grazie alla fuga della casa regnante a Palermo e alla protezione militare accordata dalla Marina Britannica. L’ammiraglio britannico Horace Nelson fu insignito del titolo di duca di Bronte nel 1799 da Ferdinando I delle Due Sicilie, con una donazione significativa di terreni. Durante il protettorato di Sir William Bentinck (1811-1815), imprenditori britannici come i Whitaker, gli Ingham e i Woodhouse avevano impiantato in Sicilia numerose aziende soprattutto nel campo della estrazione e commercializzazione dello zolfo e della viticoltura. I Siciliani, gelosi della propria autonomia, non vedevano di buon occhio la dinastia borbonica e nel 1812 Ferdinando I fu costretto a concedere una Costituzione per il Regno di Sicilia. È opportuno dunque ricordare che il Regno Unito, cui infondatamente si attribuisce una qualche influenza nel crollo della dinastia borbonica, fu in realtà la potenza grazie alla quale quest’ultima poté sopravvivere alla tempesta rivoluzionaria e riproporsi sul trono di Napoli nell’Europa della Restaurazione.
Dopo l’unificazione dei Regni di Napoli e Sicilia nella nuova entità statuale denominata Regno delle Due Sicilie (8 dicembre 1816), venuta meno l’autonomia dell’isola, la Costituzione siciliana del 1812 fu revocata, dando vita a un insanabile conflitto tra dinastia borbonica e classe dirigente siciliana che durò fino al 1860. L’egemonia britannica veniva confermata dal trattato del 26 settembre 1816 tra il Regno delle Due Sicilie e il Regno Unito, con il quale si concedeva a quest’ultimo lo status di «nazione più favorita». Un parziale tentativo di affrancarsi dall’egemonia britannica avvenne per il Regno delle Due Sicilie con la “guerra dello zolfo” (1838-1840), una controversia commerciale durante la quale Ferdinando II di Borbone esperì un tentativo di trasferire le concessioni per l’estrazione e l’esportazione del minerale alla francese “Taix & Aycard”. A seguito della decisa presa di posizione britannica, Ferdinando II dovette però recedere dal suo proposito.
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Per quanto riguarda la politica interna, il dissenso nei confronti del nuovo Stato fu particolarmente marcato in Sicilia a seguito della soppressione dell’autonomia del Regno, del trasferimento della capitale a Napoli e dell’abrogazione della Costituzione del 1812. Nel Mezzogiorno continentale, gli antichi sostenitori della Repubblica Partenopea e soprattutto di Gioacchino Murat manifestavano insofferenza verso la restaurazione borbonica e non tardarono a organizzarsi in seno alla Carboneria, che insieme ad altre associazioni segrete ebbe grande diffusione nel Regno. Non è questa la sede per descrivere nel dettaglio la lunga serie delle rivolte che per quarant’anni si susseguirono contro il governo borbonico. Il 15 giugno 1820 insorse la Sicilia, il 1° luglio 1820 i reparti militari insorti guidati dagli ufficiali Michele Morelli e Giuseppe Silvati marciarono da Avellino a Napoli costringendo il Re a concedere la Costituzione. Una spedizione contro-rivoluzionaria fu decisa dalle potenze della Santa Alleanza a Troppau e Lubiana con il finanziamento della Banca Rothschildche sin dai tempi della coalizione anti-napoleonica era la Banca di riferimento della Casa d’Austria. Nel 1822 l’Imperatore Francesco I, per i meriti acquisiti, investì del titolo ereditario di barone Salomon Mayer Rothschild, primo ebreo che entrò a far parte della nobiltà austriaca. Nel marzo 1821 l’esercito asburgico, dopo aver sconfitto i patrioti napoletani ad Antrodoco (Rieti), occupò Napoli, con l’inevitabile seguito di condanne a morte e a lunghi periodi di detenzione. A seguito di questo evento i Rothschild diventarono i padroni delle finanze del Regno delle Due SicilieCarl von Rothschild fu inviato a Napoli per costituire la filiale napoletana della Banca Rothschild di Francoforte sul Meno. Gli stretti legami tra Carl von Rothschild e il Ministero delle Finanze borbonico retto da Luigi de’ Medici di Ottajano resero la Banca Rothschild l’istituto di credito dominante a NapoliLa fine della filiale della Banca Rothschild a Napoli fu provocata dall’arrivo di Giuseppe Garibaldi a Napoli il 7 settembre 1860Adolf von Rothschild seguì Francesco II delle Due Sicilie prima a Gaeta e poi nell’esilio, finanziando il brigantaggio anti-unitario fino al 1863.
I moti del 1820-1821 furono seguiti da più limitati, ma numerosi tentativi insurrezionali, tra i quali spiccano quelli del Cilento (1828) e della Calabria (1844 e 1847). Ma fu nel 1848 che insorsero di nuovo la Sicilia (1° gennaio) e Napoli. Il 24 febbraio 1848 Ferdinando II fu costretto a concedere la Costituzione e inviare le truppe nella pianura padana per partecipare alla guerra guidata da Carlo Alberto di Savoia contro l’Austria. Ma appena possibile Ferdinando II fece spergiuro sciogliendo la Camera appena eletta e richiamando il corpo di spedizione di 11.000 uomini guidato da Guglielmo Pepe nella valle del Po. Ferdinando II di Borbone riconquistò la Sicilia per mezzo del Generale Carlo Filangieri, sciogliendo il Parlamento di Palermo. La pagina più tragica della riconquista della Sicilia fu l’assedio e il bombardamento della città di Messina. La città fu distrutta e abbandonata alla vendetta dei vincitori, supportati anche da delinquenti comuni inviati appositamente dal Re[1]Salvatore La Farina narra che «li Svizzeri ed i Napolitani non marciavano che preceduti dalli incendii, seguìti dalle rapine, da’ saccheggi, dalli assassinamenti, dalli stupri […]. Donne violate nelle chiese, ove speravano sicurezza, e poi trucidate, sacerdoti ammazzati sulli altari, fanciulle tagliate a pezzi, vecchi ed infermi sgozzati ne’ proprii letti, famiglie intere gittate dalle finestre o arse dentro le proprie case, i Monti di prestito saccheggiati, i vasi sacri involati»[2].
La dura repressione borbonica dell’estate del 1849 contro un governo provvisorio ormai instabile decretava la fine dell’esperienza rivoluzionaria del 1848-1849 e l’ulteriore allargamento del preesistente divario tra la classe politica siciliana e quella napoletana. Il 15 dicembre 1849 venne imposto all’isola un debito pubblico di 20 milioni di ducati e il capo della polizia borbonica in Sicilia, Salvatore Maniscalco, dovette affidarsi alla criminalità organizzata per controllare un ordine pubblico ormai difficilmente gestibile in un’isola che rifiutava categoricamente il governo borbonico. Il tracollo borbonico nella Sicilia del 1860 di fronte all’avanzata garibaldina è perfettamente comprensibile alla luce del profondo risentimento maturato nei Siciliani contro la dinastia regnante in 44 anni di storia del Regno delle Due Sicilie. (Continua).
Luca Cancelliere
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Note
[1] Cfr. C. Gemelli, Storia della siciliana rivoluzione del 1848-49, Bologna 1867.
[2] S. La Farina, Storia della rivoluzione siciliana e delle sue relazioni coi governi italiani e stranieri, Milano 1860, pp. 356-357.

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