domenica 29 settembre 2013

la regola e l’eccezione nella lotta al brigantaggio

Quante furono le vittime della lotta al brigantaggio nell’ex Regno borbonico subito dopo l’unità d’Italia?

Quale ruolo ebbe la legge Pica (moderare gli eccessi o favorire la repressione)? Alla prima domanda è quasi impossibile rispondere, ma nel quinquennio che va dal 1861 al 1865 il conteggio oscilla tra 18.250 e 54.750 «briganti morti in combattimento, fucilati in seguito, arsi vivi, o uccisi in altro modo». A questi andrebbero aggiunti le vittime del secondo quinquennio (1866-1870) quando operarono nel Mezzogiorno piccole bande che ancora non si erano arrese ai carabinieri (le valutazioni qui oscillano da 1.825 a 20.075). «Aggregando i due quinquenni», scrive Roberto Martucci nel saggio molto denso e articolato, “La regola è l’eccezione: la legge Pica nel suo contesto”, sulla «Nuova rivista storica» diretta da Gigliola Soldi Rondinini e Eugenio Di Rienzo, si arriva a cifre oscillanti tra una «minima di 20.075 e una cifra massima di 73.875». Come mai una oscillazione così ampia dei dati? Secondo Martucci, che ha considerato tutta la letteratura sull’argomento, a partire dallo studio che egli ritiene fondamentale, “Storia del brigantaggio dopo l’unità” di Franco Molfese (Feltrinelli 1964 e 1983), non si potrà fare un bilancio serio finché non «si avrà uno spoglio sistematico dei documenti contenuti negli archivi provinciali».
Riguardo alla domanda sulla legge Pica, in vigore dall’agosto 1863 al 1865, l’autore contesta l’interpretazione che ne ha dato Salvatore Lupo ne “Il grande brigantaggio” («Annali della Storia d’Italia», Einaudi) di una legge che avrebbe «affermato per la prima volta un qualche principio di legalità, il diritto cioè anche dei briganti catturati con le armi in mano a un processo, davanti a una corte legalmente costituita». In realtà secondo Martucci siamo di fronte a «una legge di abilitazione all’esercizio dei poteri d’emergenza travestita da legge penale speciale… la cui portata continua a sfuggire alla storiografia generalista che ne dà una fuorviante lettura attenuativa in termini di “legalizzazione d’eccezione”».

venerdì 13 settembre 2013

La camorra nell’esercito borbonico: una preoccupazione per i governanti italiani

Il 28 ottobre 1860 Antonio Scialoja, nativo di San Giovanni a Teduccio, che era stato nel governo provvisorio di Giuseppe Garibaldi, aveva scritto al conte Cavour, denunciando il discredito di cui si era reso responsabile il governo di Garibald dato che certi ministri si erano circondati di "quei capi-popoli canaglia, che qui diconsi camorristi".
Il testo I prigionieri dei Savoia di Alessandro Barbero dedica un intero capitolo, alla presenza della camorra nell’esercito borbonico che preoccupava i nuovi governanti italiani per una possibile penetrazione nelle carceri e nello stesso esercito italiano.

“L’annessione delle province meridionali nel 1860 - scrive Alessandro Barbero - rappresentò un momento decisivo per la presa di coscienza, a livello nazionale dell’esistenza della camorra”.

L’autore cita lo studio di Marcella Marmo per evidenziare come l’opinione pubblica del Nord venne a conoscenza di una “ realtà ignorata”.
In particolare i rapporti dedicati alla questione erano incentrati sulla presenza della camorra nelle carceri e nelle esercito borbonico su cui l’abruzzese Silvio Spaventa, esponente della Destra Storica aveva redatto, su richiesta dello stesso Cavour tramite Costantino Nigra, un dettagliato rapporto che il 20 maggio 1861 era così compendiato:

“Nelle carceri, nell’esercito, nelle amministrazioni, in tutti i luoghi pubblici esercitata largamente la camorra”.

Silvio Spaventa era un liberale meridionale il cui impegno si era rivelato molto attivo nei moti napoletani del 1848, per cui l’anno seguente fu arrestato e rinchiuso nelle carceri di S. Francesco e della Vicaria per poi essere condannato all’ergastolo e inviato a Santo Stefano insieme a Settembrini.
Solo dieci anni dopo il suo ergastolo fu mutato in esilio a Torino, che aveva lasciato per ritornare a Napoli dopo l’arrivo di Giuseppe Garibaldi.
Egli farà parte di quegli intellettuali, che, allontanati dal Meridione, lottarono per l’unificazione italiana e per il liberalismo e per la costituzione parlamentare.
La relazione di Spaventa evidenzia che la primaria attività estorsiva è il pizzo sul gioco e che il luogo ove la camorra ha “la sua sede principale è nei luoghi di custodia e di pena”.
Il rapporto completo di Silvio Spaventa si può ritrovare nel testo di Marcella Marmo Il coltello e il mercato alle pagg. 31-57.
Riguardo alla presenza della camorra nell’esercito borbonico Marc Monnier, in uno studio del 1862, conferma che “ l’armata tosto si corruppe, la camorra vi si stabilì, e presto passò nella marina".
Francesco Barbagallo nel suo saggio Storia della camorra fa risalire la diffusione della camorra nell’esercito borbonico al “secondo quarto dell’ottocento”.
Dopo aver analizzato le possibili origini dell’etimologia del termine, lo storico Barbagallo scrive a pag. 6 di  Storia della Camorra.

"La camorra, come attività ed organizzazione distinta dalla criminalità comune, si diffuse nella città di Napoli, e in particolare nelle carceri e nell’esercito, dove spesso erano arruolati i criminali detenuti, presumibilmente nel secondo quarto dell’Ottocento".
Dunque la preoccupazione che, tramite gli ex soldati borbonici , la camorra potesse attecchire nell’esercito italiano fu molto sentita dall’opinione pubblica, data il risalto che la stampa ne dava.

Già il 23 agosto 1861 un articolo in prima pagina della Gazzetta del Popolo riportava:


"E’ noto che la camorra esisteva su vasta scala nell’esercito borbonico, e contribuiva potentemente ad accrescerne la demoralizzazione", riportando successivamente di "un ospedale militare dove una dozzina di soldati e bass’uffiziali napoletani erano già riusciti a stabilire un principio di camorra, ed anche alcuni de’ nostri settentrionali s’erano lasciati imporre per modo, che se talvolta giuocavano, chi guadagnava pagava il tributo al camorrista precisamente come a Napoli!"

Marc Monnier, nel suo studio del 1862, elenca una serie di provvedimenti, punizioni, per contrastare tale minaccia.

Il 12 marzo 1863, un Regio Decreto, introduceva norme anticamorra, come riporta il Giornale Militare del 1863, che facevano seguito a tale iniziale constatazione della relazione ministeriale:

“Una delle piaghe sociali nelle Province meridionali che in questi ultimi tempi maggiormente preoccupa l’opinione pubblica dell’universale e fermò l’attenzione del Governo, fu senza dubbio la Camorra. Questa setta, del tutto ignota nelle altre Provincie Italiane, esercitava la sua influenza e metteva anche le sue funeste radici nell’Esercito dell’ex Regno delle Due Sicilie…”

Nel prosieguo il capitolo ottavo del libro “I prigionieri dei Savoia”, da cui abbiamo primariamente attinto le informazioni del presente scritto, tratta di vari i casi di camorra nella fortezza di Fenestrelle e dei relativi processi. 


Bibliografia:
Alessandro Barbero, I prigionieri dei Savoia, Laterza, 2012

lunedì 9 settembre 2013

Quei musici girovaghi che divennero massoni

Da Francesco Pizzo ricevo e pubblico volentieri questa recensione su un aspetto poco conosciuto della nostra storia.
Viggiano: Alta Vald’Agri, provincia di Potenza, Lucania.
Un piccolo paese con una grande tradizione di musicisti girovaghi in tutto il mondo, effigiati già nel settecentesco presepe “Cuciniello” di Napoli fino alle imprese concertistiche, didattiche e musicali di gente del calibro di Alberto Salvi – arpista del Metropolitan con Toscanini e Mahler – e di Leonardo De Lorenzo, che cambiò il modo di suonare il flauto nello scorso secolo.
La maggior parte di questi “miracolosi” musicisti furono massoni, giacchè nel paese della laterale Lucania della fine ottocento fiorì la loggia “Mario Pagano”, una delle più importanti, per numerosità ed attività, del mezzogiorno – alcuni dicono la seconda dopo quella di Bari.
Franco Angeli nel 2012, nella collana “Temi di storia” ha pubblicato il saggio di Vittorio Prinzi e Tommaso Russo “La Massoneria in Basilicata”, con il sottotitolo “Dal decennio francese all’avvento del fascismo”, che testimonia con metodo inappuntabile – da annalisti francesi – questa pagina di storia latomistica e negletta.
E’ un saggio a due mani, in cui Vittorio Prinzi ricostruisce la vita delle due Logge di Potenza e Viggiano e Tommaso Russo inquadra il tutto nella cornice più ampia della storia delle idee che percorsero, come tutto il mezzogiorno napoletano, anche la regione in questione.
Viene così descritto con un piglio sempre avvincente il mordente delle idee illuministiche ed innovative che, dalla fine del settecento, dettero vita a Napoli a quel fenomeno sorprendente delle illuminazioni della ragione rivoluzionaria, portate avanti dai nobili – dal principe di Sangro fino alla Sanfelice – passando per l’elaborazione filosofica e politica degli emergenti intellettuali espressione delle provincie del Regno, i vari Rinuccini, Tanucci, Genovesi, Pagano.
L’intreccio ed il vario dispiegarsi dei rapporti tra logge massoniche di varia osservanza ed i circoli carbonari, liberali e rivoluzionari sono sminuzzati, per così dire, da Tommaso Russo; una nuova luce viene così a dispiegarsi sulle congiure, sulle connivenze tattiche dei circoli intellettuali, fino all’altrettanto rapporto “doppio” con l’unificazione della penisola sotto i Savoia e gli atteggiamenti difformi di strati della nobiltà e del notabilato nei confronti del brigantaggio postunitario.
Vittorio Prinzi, nella sua parte, più centrata sulla Basilicata, illustra o meglio svela come, nonostante il relativo isolamento della regione, lo “spirito del secolo” permeò nell’ottocento anche le case private della non numerosa borghesia urbano-comunale più avanzata e sensibile, sotto il profilo della cultura e della politica.
L’aspetto più sorprendente rasta per me quello della Loggia Mario Pagano di Viggiano: il grosso dei suoi adepti erano “musicanti”, sopravanzavano nettamente i possidenti, i negozianti, gli artigiani, come invece avveniva nella Loggia di Potenza – più fedele questa ai canoni dell’appartenenza massonica da parte delle classi medie e piccolo-borghesi delle professioni e degli impieghi.
La Loggia massonica di Viggiano quindi si qualificò come una fucina di appartenenza, sviluppo e solidarietà della cultura musicale, molla potente anche per il reimpiego dei capitali accumulati nel girovagare per il mondo, dalla musica di strada fino all’accademia ed a i teatri di rinomanza mondiale.
Grandi emigranti e viaggiatori i viggianesi con questo particolare senso di amore per la tradizione di Mozart e delle logge illuministiche: Leonardo De Lorenzo ad esempio suonò in Sud Africa e negli Stati Uniti, ma prima di partire si affiliò alla Loggia, al pari di tanti altri musicanti.
Il Gran Maestro Venerabile fu per decenni un professore di Norcia, Gaetano Argentieri, il quale lasciò un’impronta fortissima nella cultura e nella musica del luogo.
Ma non è il caso di svelare l’articolata trama delle tante attività massoniche nel piccolo centro del Val d’Agri, basta leggere l’avvincente saggio di Prinzi e Russo…
LA MASSONERIA IN BASILICATA
Dal decennio francese all’avvento del fascismo
Franco Angeli editore 2012