sabato 17 dicembre 2011

L'unità d'Italia e il revisionismo storico

Pino Aprile a destra

  Premessa

 In seguito agli attacchi scomposti sferrati dai soliti "storici” neoborbonici, credo fermamente necessario intervenire in relazione alle modalità del rapporto tra Risorgimento e la coscienza pubblica  meridionale. Secondo questi sedicenti “storici”, l’unità  d’Italia avrebbe rappresentato talora una forzatura, se non un irrimediabile errore o,  addirittura, una conquista coloniale ordita da poteri occulti, miranti alla sottomissione della popolazione meridionale e, soprattutto, alla spoliazione delle sue immense ricchezze.  Una sorta di delirio storiografico che poggia sulla fantasiosa ipotesi che l’Italia non sia mai esistita e lo Stato italiano altro non sia che una "gabbia" costruita ad arte, ad uso e consumo di un Nord proditore e razzista. A questo ultimo proposito, si cita sempre Cesare Lombroso, reo di aver attribuito ogni nefandezza alle "razze" meridionali.  Costoro dimenticano che egli fu uno studioso serio,  universalmente stimato, animato sempre da una passione disinteressata per i poveri e gli emarginati, tanto che, sin da giovane,  era solito girovagare per le campagne lombarde, distribuendo volantini ed opuscoli, stampati a proprie spese, per informare i contadini affetti da pellagra.

In questa Italia dei giorni nostri, un'informazione mediaticamente enfatizzata ha prodotto un revisionismo becero ed incolto, succube forse dell'influenza nefasta di movimenti secessionisti nordisti, che auspicano un totale disfacimento della nazione. Purtroppo gli studi recenti sulla questione meridionale  hanno smarrito lo spessore della seria ricerca storica. Insomma, alla base di tutti questi movimenti, vi è una forte dose di provincialismo, pressapochismo ed anche di molta ingenuità.

Dall'altra parte, la Lega Nord rivendica una discendenza dalle idee di Carlo Cattaneo, che fu uno strenuo sostenitore del Federalismo. Vero. Ma è altrettanto vero che non vi fu uno scritto di questo patriota milanese che facesse riferimento alla secessione. Egli fu, per contro, un sostenitore convinto dell'Unità d'Italia.
Un discorso complementare va fatto per Guido Dorso, tirato per la giacca dagli autonomisti Siciliani. Dorso fu uno dei più insigni storici meridionalisti e dell'autonomia meridionale. Quando, nel 1943, si sviluppò il separatismo siciliano Dorso scrisse parole durissime contro l'autonomismo siciliano.

   Questa radicale e provocatoria messa in stato d’accusa non tanto dei miti nazionali, quanto della stessa idea dell'Unità d'Italia, è veramente ridicola. Pensate che in Sicilia, nella Provincia di Messina, un sindaco buontempone, in cerca di facile popolarità, si è messo a picconare la targa di Garibaldi... Siamo insomma al colmo del provincialismo più becero. Questi personaggi non si rendono conto che Garibaldi è un mito di una dimensione planetaria. Oggi, il mito garibaldino è vivo in diversi paesi dell'America Latina. A New York, ad esempio, si studia la figura di Garibaldi,  si cerca di capire perché l'Unione, durante la guerra civile americana, tentò di coinvolgere attivamente Garibaldi per metterlo alla testa dell'esercito nordista! Questa gente quando parla di Garibaldi, si rende conto di cosa scrive?

Nei paesi anglosassoni il mito dell'Eroe dei due mondi arriva al limite dell'idolatria ...

Ci sono poi dei risvolti paradossali in questa vicenda: episodi di autocommiserazione, di piagnisteo meridionalista veramente grotteschi. Insomma, se c'è una regione del meridione che ha dato all'Italia unita ministri di altissimo spessore, quella è stata la Sicilia: Francesco Crispi, Vittorio Emanuele Orlando, ecc. Ed anche a voler parlar dell'oggi, la musica non cambia... La rappresentanza numerica del parlamento eletto è in maggioranza del centro sud. E se è così come mai che dal 1861 in avanti questo divario non si è mai colmato? Non dimentichiamo che i cosiddetti fondi europei non sono gestiti da Bossi ma direttamente dalle Regioni meridionali. C'è uno studio della "London School of Economics", riportato sul Sole 24 ore del 16 marzo 2008 che dice: "I fondi strutturali (gestiti dalle regioni) del 2000 e del 2006 sono consistiti in somme pari a 51 miliardi di EURO! Questi studiosi hanno altresì dimostrato che, se queste ingenti somme  fossero state distribuite a pioggia, senz'alcuna intermediazione politica, a tutti i cittadini del Sud, indistintamente, si sarebbe aumentato il reddito pro-capite del 3%, mentre, con l'intervento dei nostri "politicanti", il reddito prodotto non è arrivato nemmeno alla metà! I fondi strutturali del 2007-2013 ammontano 100 miliardi di euro!
Il problema vero è che decina di miliardi di euro sono stati gestiti in modo sconsiderato, da burocrati politicizzati, senza tener in minimo conto lo sviluppo e il bene comune del paese.

Alcuni "neoborbonici" sfilano per le strade

     A questo punto, mi preme rispondere con dati reali alle sonore corbellerie proferite da questi analfabeti, degni epigoni dei loro beniamini. Perché se esiste un'esigenza di riscoprire la propria storia, rivelandone i più intimi particolari, questa non può venir soddisfatta piegando i fatti ad una tesi precostituita a tavolino, al fine di eccitare gli animi e scuotere i più bassi istinti della popolazione. Questa fedifraga spinta alla secessione trova una paradossale convergenza tra nordisti e sudisti che, separati si offendono a vicenda, e uniti marciano per disfare l’Italia. Costoro, immemori della storia patria, provocano un poderoso offuscamento della coscienza pubblica e un disancoramento dalle radici storiche della nazione. Inoltre, prendendo a pretesto i reali problemi economici del paese, li usano come una clava per colpire l’unità e i suoi protagonisti in un modo che definire spregevole è solo un gentile complimento. Non credo sia possibile ignorare un'anomalia che risiede in talune affermazioni ad effetto, mediaticamente enfatizzate, anche attraverso una pubblicistica di scarso spessore culturale che si tramuta  in una sorta di delirio rivendicazionista senza pari. Il tutto culmina in un poderoso dispendio di energie, con l'unico intento di dividere e distruggere quanto, nel bene e nel male, è stato sinora costruito.

   Non si può parlare di Risorgimento facendo finta che la questione meridionale non sia mai esistita, al di là che essa è iniziata con il Risorgimento. Non si può parlare di Brigantaggio a senso unico, come fenomeno solo di rivolta verso l’unità d’Italia, tacendo di quello che fecero i Borbone contro i Briganti prima e come li plagiarono dopo, a loro esclusivo vantaggio.

     Non si possono tacere quelli che sono i punti di vista esterni  alla vicenda (pensiamo alla pessima considerazione internazionale che stigmatizzava il Regno dei Borbone) ma che, tuttavia, esercitarono una influenza di rilievo nella ricostruzione dei fatti così come si verificarono effettivamente. Appare ovvio che gli scritti borbonici dell'epoca siano solo positivi ed apologetici: sarebbe come chiedere a Berlusconi il resoconto dei suoi pessimi governi. Occorre invece riparlare della questione meridionale in un'ottica diversa,  prescindendo  da opere di carattere goliardico o folkloristico (che figurerebbero meglio nelle sagre pacchiane del paesello, alle fiere della pro-loco,  anziché nelle biblioteche di studiosi seri) collegandola, invece,  con l'Europa del tempo, uscendo dunque dall’orticello delle opinioni indigene (favorevoli o contrarie).

   In buona sostanza, i recenti studi sull'argomento hanno smarrito la cifra culturale che aveva caratterizzato i primi studi sul meridione, soffermandosi su eventi tragici, atti ad esaltare lo stupore e l'indignazione a senso unico, con l'unico fine di sovvertire l'ordine costituito. Occorre quindi parlare del Risorgimento in un modo nuovo, avulso tanto dalla retorica patriottica, quanto dal negazionismo storiografico.

Antonio Lucarelli, esimio studioso del Brigantaggio e della "Questione meridionale", stimato da Croce, Salvemini e Gramsci, scrisse in un suo saggio:
“Si sono confrontate due illusioni: si illudevano i proprietari del mezzogiorno che, dalla libertà dei traffici, si ripromettevano facili ricchezze, inaspettate fortune. Si illudevano le classi artigiane, che speravano maggiori proventi alla domestica bottega. Si illudevano i proprietari campestri, che vedevano in Garibaldi l'eroico  figlio del popolo vendicatore delle iniquità sociali e redentore degli oppressi.
Ma si illudevano, dall'altra parte, anche i piemontesi, i liguri,  i lombardi che avevano sognato di acquistare una terra miracolosa,  depositaria di inesauste dovizie.
Il Mezzogiorno era definito da De Pretis: “singolarmente ricco”  da Minghetti: “il paese più bello e più fertile”,  da Quintino Sella  “eccezionalmente cospicuo”,  e queste opinioni erano avvalorate dai meridionali. “Troppo favorito dalla natura” - aveva detto Ruggero Bonghi. Il Mezzogiorno era per Petruccelli della Gattina, esule in Piemonte, “una  terra in cui Iddio esaurì la sua opulenza di Creazione”.
E invece non fu così. Dovettero ricredersi - da una parte - quelli del nord: non avevano trovato la California, ma un paese derelitto e ancora feudale, percorso da turpe d’accattoni, infestato dal paludismo e dalla malaria (sono le descrizioni del dopo), senza commercio, senza industrie, senza scuole, privo di ferrovie e strade carreggiabili, popolato da un'aristocrazia bigotta e fannullona, da una falange di esosi terrieri e da una pletora di causidici o legulei (così la vedono dopo), più d’analfabeti.
Dall’altra parte, si dovettero ricredere gli ambienti del Sud, quando si videro rovesciare sulle terga una valanga di nuovi  o rincruditi balzelli: tassa di ricchezza mobile, di successione, di registro e bollo, di imposta sui fabbricati. Fra i sistemi più vessatori di percezione fiscale.
Mutarono opinione le classi artigiane e contadine, quando vennero a dibattersi fra l’enorme rincaro della vita  e la mancanza di lavoro. Non videro effettuata la ripartizione del demanio (che pure Garibaldi aveva promesso ripetutamente).
Al malumore cagionato dalle fallite  speranze si aggiunsero: i gravi errori dei nuovi dirigenti, il congedo dei soldati borbonici, la disillusione delle truppe garibaldine, l’inconsulto richiamo degli sbandati, l’evacuazione dei monasteri e, alla fine,  la discesa di un fitto stuolo di burocrati piemontesi che disseminarono per ogni dove rancori e ostilità”.
Era questa la situazione del Mezzogiorno che, nel 1945,  Antonio Lucarelli descriveva.
Venti anni dopo, sulle pagine del Veltro, Manlio Rossi Doria  sintetizzava così le punte più alte del dibattito in corso:
“E’ un dibattito che si è svolto dalla cura di libertà e di filo di ferro di Cavour all’impotenza trasformista di fine secolo, dalla liberistica bandiera del nulla di Fortunato, a toccasana della rivoluzione meridionale, attraverso il suffragio universale (Salvemini), l’autonomia regionale (Sturzo), la rottura del blocco agrario (D’Orso), l’alleanza degli operai e dei contadini (Gramsci), dalla negazione della questione nei decenni fascisti, alla sua vigorosa, generale, ininterrotta affermazione, come problema essenziale della società italiana dal ‘44 a oggi”.
   Ieri, come oggi, a distanza di 150 anni dalla creazione dello Stato unitario,  nonostante le sue variegate modificazioni economiche, il divario fra Nord e Sud resta inscritto nell’orizzonte storico della nostra società: nei suoi equilibri socio-economici, nella pericolante etica pubblica,  nelle pieghe profonde della corruzione, non meno che nell’ordine democratico. Una situazione intollerabile che non  può più attendere ad essere rimossa, pena l’accelerazione della decomposizione della nazione e della perdita irreversibile nostra identità nazionale. Per questo occorre chiamarsi fuori da ogni settarismo, tenendo ben presente che l'Unità d'Italia non poteva essere fatta diversamente, soprattutto in considerazione della particolare congiuntura storica e, soprattutto, del fatto importantissimo che una divisione, nell'attuale congiuntura, porterebbe guasti maggiori, anche per la parte più ricca del paese. Quindi mi soffermerò su alcuni eventi precisi, tralasciando il resto, per ovvie ragioni di ordine pratico.


La situazione Socio-economica nel Regno delle due Sicilie.

   Nella metà del ‘700 circa, Carlo di Borbone istituisce, principalmente per motivi fiscali, la creazione di uno strumento conoscitivo di rilevazione generale del territorio: il Catasto Onciario. Era uno strumento fondamentale, anche con gli evidenti limiti e i dati assai grossolani  che la statistica dell’epoca poteva consentire.   Il fatto sconvolgente che emerge, circa la vita socio-economica del Mezzogiorno, è uno stato disastroso, in cui a farla da padrone era l’economia feudale! In altre parole, la feudalità nel Mezzogiorno dagli inizi del '600 fino alla metà del '700 si era praticamente raddoppiata! Per dirla in breve e, per sgombrare il cielo dalle nuvole, occorre porsi la seguente domanda: di che cosa viveva questa feudalità meridionale?
Qualcuno sarebbe tentato di rispondere dicendo che sarebbe vissuta di rapina sulle terre a danno dei contadini meridionali. Sbagliato. Nel Meridione borbonico non era tanto l'industria a essere deficitaria ma era l'agricoltura ad esseere terribilmente carente!  L'economia meridionale era di una povertà spaventosa. Era la cosiddetta "terra senza uomini" di cui troviamo ampie tracce negli scritti dei grandi illuministi napoletani. Gli stessi che vengono in altre occasioni citati dai neoborbonici, ma che, curiosamente,  in questo frangente, vengono reputati irrilevanti e messi da parte.
La demografia meridionale, secondo un noto storico meridionale, era assai penalizzata in termini di mancata crescita. Non era in sintonia cioè con quanto accadeva nel resto dell'Europa nello stesso periodo. In particolare, la vera rendita non era legata allo sfruttamento della manodopera nelle campagne meridionali, ma alla giurisdizione feudale. E fu proprio attraverso quello strumento che i Borbone gabbavano e, soprattutto, colpivano la vita civile di queste popolazioni estremamente arretrate. Altrimenti non si capisce perché in tanti centri abitati nel '700 vi era un'alta percentuale di scontenti e una forte sensibilità anti-feudale che emerse con forza nelle popolazioni meridionali.  Inoltre, non comprendiamo perché nel 1765, si verificò una crisi disastrosa che portò sull'orlo della fame gran parte della popolazione meridionale. Allora, se il Regno di Napoli era - come ripetono costantemente i neoborbonici - più sviluppato e più ricco rispetto al resto d'Italia, come si spiega tutto ciò?  Mistero.

Giuseppe Maria Galanti
Nel 1792, un tal Giuseppe Maria Galanti, venne mandato dal Re di Napoli, con la qualifica di visitatore del regno, per "censire" le Calabrie, poichè il Re non sapeva nemmeno cosa vi fosse di preciso in quelle terre! E tale ignoranza rimase ancora tale per parecchio tempo, tanto che Gioacchino Murat, nella famosa statistica Murattiana, tentò con più successo di saperlo.  Ed ancora: non si comprende come mai nel 1817-18, dopo le vicende napoleoniche, si registrò un forte aumento del brigantaggio nel Mezzogiorno... e a reprimerlo furono i Borbone! All'uopo vi è una mole enorme di documenti messi assieme da Giustino Fortunato che vanno tutti in questo medesimo senso.  E, a proposito del Brigantaggio, occorre dire - senza tema di smentita - che questo fenomeno non si registrò solo dopo l'avvenuta unità d'Italia... esso, in vero, è un fenomeno assai più antico. Recentemente, infatti, si sta studiando il fenomeno del Brigantaggio che si sviluppò nel Sud, allorquando nel 1527 scesero nel Mezzogiorno i francesi, passando attraverso gli Abruzzi fino alle Puglie e poi risalirono cercando di conquistare Napoli. La conquista di Napoli, però, non ebbe esito positivo, poiché Andrea Doria con la sua flotta fece il salto della quaglia e passò dalla parte francese a quella spagnola (di Carlo V); e in quel preciso momento si decisero le sorti del regno. Subito dopo, per sette lunghi anni, vi fu un grande Brigantaggio nel Mezzogiorno; e, con strumenti assolutamente simili a quelli rappresentati nel libro di Aprile, furono le truppe spagnole coadiuvate da quelle napoletane, a sedare la rivolta popolare.
I neo borbonici, inoltre,  sono soliti tratteggiare il Brigantaggio come un fenomeno sempre positivo. E' falso! Bisognerebbe chiederlo a quelle comunità contadine che furono taglieggiate dai briganti! Questi contadini chiesero con insistenza l'intervento delle forze dell'ordine, alle quali furono denunciati persino dei casi di cannibalismo! Vi fu infatti un brigantaggio rapinatore  e criminale, che annoverava  tra le proprie fila delinquenti comuni e assassini di infimo ordine, dediti alla rapina e al facile delitto.  Il Tavoliere delle Puglie  è rimasto tristemente noto negli annali della storia sia per la presenza costante di tali fuori legge sia per il  numero elevato delle aggressioni perpetrate a carico di inermi viaggiatori. In massima parte queste rapine venivano effettuate in quel famigerato tratto rimasto noto come il Vallo di Bovino.  Difatti, lungo il tratto di strada che da Benevento portava a Foggia, gruppi di banditi prendevano di mira soprattutto commercianti; questi ultimi, sovente, prima di partire facevano addirittura testamento. Mi chiedo solamente come sia possibile pensare, anche per un solo momento, di voler preferire questi ultimi alla classe risorgimentale! Pur con tutti i difetti che hanno avuto
Infine, un'altra chicca circa il valore "immenso" della ricchezza dell'Antico regno. All'uopo mi permetto, non avendone titolo, di rimandare, chi ne sentisse la necessità per un'eventuale verifica, allo studio Mancur Olson, Ascesa e declino delle nazioni, che poi è la premessa allo studio della cosiddetta "stagflazione" (sistemi rigidi e sistemi elastici).   Questo studio dovrebbe - a mio modesto parere - almeno a livello da un punto di vista macrosistematico, storico e libero dalle interpretazioni endogene, riportare l'ago della bilancia al centro e ricondurci ad un margine accettabile di verità. Si tratta, in effetti, di riconsiderare i problemi strutturali del regno di Napoli risalenti dal 1700 e ivi riportati, fino al 1860, insoluti; e che, quindi, la cosiddetta ricchezza monetaria, più volte viene richiamata pappagallescamente in maniera impropria, si deve al fatto che mai si è valutato seriamente il tasso di cambio della circolazione della moneta.


Il regno delle Due Sicilie e il contesto internazionale.

Salvatore Fergola: l'inaugurazione della prima ferrovia Napoli-Portici
Il Regno di Napoli non era una sorta di paradiso terrestre dove fosse piacevole vivere; e ciò valeva, evidentemente, non solo per la parte più umile e meno progredita del Paese, che era pressoché analfabeta ma, tutto sommato,  anche per quella più colta ed agiata. L'impianto della classe dirigente del Regno delle Due Sicilie, a cominciare dal Re per finire ad suo ultimo intendente in Terra d'Otranto, era di infimo ordine; e ciò non perché mancasse il materiale umano. Tutt'altro. Questo triste stato di cose  lo dobbiamo principalmente, ma non esclusivamente, ai Borbone. Infatti questa feroce dinastia decapitò - per ben due volte - la parte migliore della sua classe dirigente, ritirando - dopo averla data - per tre volte la Costituzione, dimostrando in tal modo uno scarso senso dell'onore. Quindi, sul piano della credibilità internazionale, questo paese lasciava molto a desiderare… e, soprattutto c’era poco da fidarsi del suo Re.
Delle tante primavere napoletane che sono sbocciate e subito sfiorite occorre annoverare in primis la Repubblica Napoletana del 1799,  in cui si era spesa la migliore gioventù della classe dirigente meridionale, fra cui il fasanese Ignazio  Ciaia, presidente del Governo rivoluzionario di Napoli, Mario Pagano, e tantissimi altri che trovarono la morte in Piazza Mercato a Napoli, mediante il taglio della testa.  La cosa che più fa specie e orrore in questa triste vicenda non è tanto la punizione esemplare mediante decapitazione, ma la perfida malvagità borbonica che, non soddisfatta di tale esecuzione, perseguitò anche i familiari e tutti coloro che avevano avuto un qualunque contatto con i condannati, proprio al fine di cancellare ogni traccia del tradimento, con tutti i segni d’innovazione e di rottura che aveva portato.

Chiunque si fosse "abbeverato" alla fonte neoborbonica avrà sicuramente letto - a proposito dell'unità d'Italia - di una rivoluzione di élite portata a termine contro la "volontà popolare". Avrà sicuramente letto di stragi perpetrate contro le popolazioni meridionali inermi, da parte dei soldati piemontesi, rei di ogni tipo di nefandezza, senza un corrispettivo di crudeltà portate a compimento dalla parte avversa.
Secondo i neo borbonici, dunque, il popolo non avrebbe affatto partecipato alla rivoluzione contro la dinastia dei Borbone; e, quando lo ha fatto, avrebbe agito solo perché traviata da falsi e squallidi personaggi. Questo naturalmente è falso. Dall'apertura degli archivi di Stato torinesi si evince il contrario. Ma occorre fare un'oggettiva premessa che sgombri il "cielo dalle nuvole".   
All'epoca esisteva un tasso di analfabetismo altissimo, in specie al sud,  ragion per cui è vero che, in massima parte, il popolo non sia stato parte attiva nella rivoluzione e che, per converso, preferisse prendere le parti del "padrone", piuttosto che prendere le parti di intellettuali benestanti,  pur se mossi dalle migliori intenzioni. Ma è un dato di fatto che i braccianti servivano il "padrone",  il feudatario, cioè colui che sfamava le loro famiglie. Così avvenne pure quando moltissimi feudatari coi loro uomini seguirono il cardinal Ruffo nella risalita della penisola. E Ruffo, che era persona estremamente intelligente, adottò una politica rivoluzionaria per ottenere l'adesione dei "feudatari" che in ventimila risalirono la penisola fino a Napoli.  Purtuttavia esistono degli episodi precisi che bilanciano i fatti.

     Andiamo ai fatti. Su tutti i libri di storia  troviamo scritto che i primi moti risorgimentali di ribellione allo status quo, furono del 1820-21. Invece, il primo moto devesi registrare nella Fiera del Savuto, in Calabria, nel 1813, non in Lombardia o in  Piemonte, dunque. Un personaggio leggendario fu il Capobianco, che venne addirittura portato a Cosenza in maniera oltraggiosa, e cioè rivolto verso il deretano del cavallo e, infine, giustiziato. A Cosenza fu imposto dalle autorità di tenere la luce accesa ai cittadini  che e invece si rifiutarono e pertanto chiusero le serrande. Questo per significare che non è affatto vero che la popolazione fu sempre filoborbonica.


La seconda volta nel 1848.

Ancora una volta, la corona viene meno alla parola data: la costituzione prima concessa, viene poi ritirata. E qui ancora una serie di processi terribili (da Settembrini a Poerio). Anche loro puniti severamente, in modo “esemplare”.

Il 1848
  "Il popolo minuto fa il suo ingresso nella storia, non più come forza aggregata ad altre che lo dirigono  per farlo servire ai propri fini,  (come nella Rivoluzione francese) ma con un suo programma, una sua coscienza sociale, una sua propria esasperazione di fronte al passato".  Ettore Rota


    I fatti cruciali del '48 sono stati costituiti da una serie di agitazioni iniziate nel Gennaio di quell'anno in Sicilia e poi spostatesi nella capitale. A Napoli i rivoltosi chiesero al Re lo Statuto, come tra l'altro accadde in Sicilia, epperò i napoletani chiesero anche di "riappacificarsi coi siciliani". Tutto questo andava palesemente contro la politica borbonica del tempo, che non voleva una Sicilia Indipendente (alla faccia degli autonomisti siciliani) ma chiaramente assoggettata al potere borbonico. Fino a quando il sovrano fu costretto - suo malgrado - a concedere lo statuto.  Indi, vennero indette le elezioni politiche. Alcuni storici hanno dichiarato che non ci fu calabrese esagitato che non fosse eletto al parlamento napoletano, tanto che "calabrese" era allora sinonimo di "testa calda". E qui accade un fatto emblematico: un vero e proprio colpo di stato. Il re stabilì una data per l'inaugurazione del parlamento, epperò il parlamento venne subito chiuso. Il motivo deve ricercarsi in alcuni disordini sorti in città: perché c'era stata una delegazione dei deputati che si stava recando dal sovrano e partirono dei colpi di fucile, furono uccisi dei soldati, ecc. Probabilmente, ciò faceva parte della tattica borbonica mirante a trovare un utile pretesto per togliere la costituzione e imporre la volontà assoluta del sovrano.

C'è, a tal proposito, una testimonianza diretta di Settembrini il 14 maggio del '48.
"Giungo al largo della "Carità" e vedo una barricata nei  pressi del palazzo del Nunzio e giù di lontano ne vedo un'altra e mi dissero che ce erano altre... una a santa Brigida  e un' altra  fortissima San Ferdinando, c'era molta gente e tutti armati, e chi in divisa da Guardia nazionale, e chi in nero abito e cappello calabrese,  facce sconvolte, diverse favelle estranee. Luigi Settembrini

Quindi, questi calabresi che sono stati eletti, sono presenti  il 14 maggio 1848.

In seguito a questo, ci fu un vero e proprio massacro. Il “best seller” di Pino Aprile è “infarcito” di rappresaglie e massacri e, a questo proposito, cito:
   "Nel bel mezzo del secolo decimonono, in una fiorente e civilissima città italiana, furono commessi orrori neroniani, nefande scelleratezze e l'Europa, rappresentata dalle sue flottiglie, contemplò il sanguinoso spettacolo, impassibile, a ciglio asciutto: stupri,  saccheggi,  fucilazioni,  fanciulli e vecchi sgozzati, donne  trucidate, e tutto quanto può farsi a dispetto dell'umanità in una città presa d'assedio, dopo accanita resistenza.  Tutto sperimentò Napoli infelicissima". 
Giuseppe Massari, I casi di Napoli,  Torino 1849.

Accadde che i deputati calabresi invitarono gli altri eletti a darsi convegno a Cosenza, per cui Cosenza divenne sede del governo rivoluzionario provvisorio. Ciò si rende necessario poichè se dobbiamo riscoprire un passato nascosto, che è stato occcultato per vari motivi, è necessario far venir fuori tutto, anche gli eventi poco pubblicizzati.  Bisogna dire che, già a marzo, si registrarono le prime rivolte. Rivolte ingenerate da uno stringente bisogno di cambiare l'economia... il che non era possibile attraverso formalismi di ordine giuridico, ma con un rivolgimento totale della economia feudale sin allora praticata.
Il movimento calabrese, difatti, non era rivolto unicamente all'Unità d'Italia. Questo fu un moto contadino, proteso alla riconquista delle terre, strappate ai latifondisti. Costoro occupavano le terre demaniali, fregiandosi del Tricolore! Questo governo provvisorio fu l'avamposto del risorgimento che resistette ai Borbone. Costoro chiesero pure aiuto ai siciliani, i quali mandarono dei rinforzi, guidati da Ribotti.  Quest'ultimo scrisse.  
"Splendida fu l'accoglienza. Lumi ed arazzi alle finestre,  dappertutto fiori e ghirlande di lauro, guardie nazionali in doppia fila lungo le vie, musica, suon di campane.  E veramente in quei giorni Cosenza dava  un insolito e commovente spettacolo. Di tratto in tratto con tamburi e trombe, stendardi giungevano da diversi coorti di volontari. Preti e monaci, fregiati di sciarpe tricolori,  militavano  in quelle file riaccendevano lo spirito marziale cingendo la rivoluzione di un'aureola religiosa. Molti deputati, i migliori e più ricchi gentiluomini della provincia, i magistrati, i sindaci, con la carabina sugli omeri e la giberna a bandoliera, marciavano a fianco del servo e del proletariato".

Da Napoli, i Borbone mandaronono delle truppe che non riuscirono a sbarcare a Paola, perché affluirono da tutta la provincia cosentina "armati", per cui le truppe borboniche furono costrette a fare dietro-front e a sbarcare a Sapri. Da qui prenderanno la via di campo tenesi fino a destinazione. Naturalmente questi rivoltosi non disponevano di un vero è proprio esercito. Si trattava, per lo più, di truppe raccogliticce, fra cui figuravano persino donne armate di roncole e falci, per cercare di contrastare un esercito regolare. E difatti la rivoluzione finì dopo 35 giorni.  Ora, se ci fosse stato ciò che i neo-borbonici descrivono, chi avrebbe mosso quei contadini, che tutto avevano da perdere in una guerra già persa?



Sulla sconfitta il poeta Vincenzo Padula scrisse:

"Deh, mi si nasconda degli occhi un velo,
l'antica gloria del nostro  cielo,
in un sol giorno smonta e s'oscura,
il nostro nome vile si rese,
non mi chiamate più calabrese".

La cosa interessante è la presenza attiva di preti e monaci, che rappresentavano non l'alto clero, che aveva fatto sempre combine con il potere costituito, ma di persone legate al popolo minuto. Costoro sono da collocare in una dimensione atipica. Di uno di questi preti, dagli archivi penali del tempo, si legge:
"Dismessi gli abiti pretili, e indossati quelli di brigante, va a capopopolo e marcia  con dei contadini che   erano del suo paese di provenienza  verso Campo tenesi".
 
Si trattava di un prete Brigante, dunque. Costui, tale Padre Luigi di Albidona, venne arrestato da un certo Cap. Parmigiani, comandante della guardia borbonica locale. Dal verbale di arresto, eseguito il 10 Luglio del 1849, dalla guardia di Pubblica sicurezza di Torano, si legge che il frate si trovava: 

"In casa di una sua druda, nominata Rosina Napoli, moglie di Giuseppe Malizia, con la quale vi ha tresca illecita, e vi convive da molto tempo con grave scandalo di questo pubblico; in quella, esso fu rinvenuto dagli individui che mandai a ricercarlo, spogliato dei suoi abiti e giacente nel letto della druda, sicchè, questi, fattolo vestire e, con la possibile decenza, lo condussero a me. Io lo feci custodire e ora lo spedisco, accompagnato da un verbale, che contesta di essere stato rinvenuto giacente nel letto della prostituta."
Questo dimostra il carattere assolutamente non locale della questione. Queste insurrezioni erano legate al movimento europeo rivoluzionario, e nel momento della rivolta, per creare un nuovo sistema economico rivoluzionario, fecero combutta con il loro ceto di provenienza.
I rapporti di questo sacerdote con il circolo rivoluzionario di Cerzeto furono molto fattivi. Questo potrebbe apparire come un caso isolato. Non è così. Si potrebbero citare tantissimi casi di sacerdoti e prelati condannati.  Si è citata la città di Cosenza. Ma altrettanto si potrebbe dire di Reggio, Soveria Mannelli, Luzzi, dove vi fu un tal Gatti che, con un bastone, fece a pezzi la statua del Re. In effetti, in Calabria vi fu un'ampia adesione al programma risorgimentale. A questo proposito vale ricordare l'apporto importante della comunità italo-albanese.  Questi ultimi furono in prima fila a Paola per impedire lo sbarco delle truppe borboniche. Insomma la partecipazione popolare fu ampia ed attiva e non limitata ai ceti borghesi.



 La mancanza di una classe dirigente.

   Lo Stato Borbonico aveva abdicato alla sua funzione istituzionale, nel senso che aveva ceduto il controllo della cultura alle organizzazioni ecclesiastiche, che avevano assunto la funzione di scuola pubblica, con tutto quello che ne consegue. La mancanza di regole era una prassi consolidata, tanto che persino personaggi legati alla corona e meritevoli di riconoscimenti ne fecero le spese. Uno di questi fu Beneventano del Bosco che non fu promosso per i suoi servigi resi alla dinastia borbonica.
E qui vale la pena di aprire una parentesi.
Il clero nel sud  - a differenza di quello al nord - non ha dato una mano alla crescita di forze autonome affinché formassero una nuova classe dirigente. Il clero meridionale era formato principalmente da due tipi: 

  1. il primo era quello legato alle parrocchie (che erano poche);
  2. il secondo era quello della chiesa ricettizia; cioè quella parte della chiesa che era "autonoma" ed  indipendente rispetto al controllo dei vescovi.
Su questi si abbatteranno - come  una scure - le leggi eversive sulla proprietà ecclesiastica. I beni saranno venduti (per “far cassa”) agli  amministratori del clero, attraverso lunghissime dilazioni (18 anni).  E ciò si rivelò un pessimo affare. In tal modo, dunque, la proprietà fu praticamente regalata agli ex amministratori dei capitoli ecclesiastici che la acquistarono a “SPEZZATINO”. E si creò una classe dirigente creata con l’inganno e con la truffa. Ma costoro avevano poco o niente a  che spartire con i liberali della prima ora, con la loro passione ideale che diedero il sangue per la madrepatria. Dire dunque che questo fu un buon esempio di amministrazione e di competenza della classe dirigente borbonica, non mi pare proprio.  E di qui tutta una serie di fraintendimenti e di equivoci, di lucciole scambiate per lanterne dai soliti neoborbonici.

La cultura nel Regno di Napoli.

   Che cosa significa per i patrioti napoletani volere la Repubblica? Perché le idee che vennero portate avanti dal Filangieri, dal Caracciolo ecc. sono idee della cultura europea. A tal proposito il Croce non ha dubbi.  Queste idee: la repubblica, la uguaglianza dei diritti politici, il fatto che il privilegio nobiliare non ha più ragione di esistere, ecc. sono tutte state veicolate per mezzo della Massoneria, attraverso le numerose logge massoniche.
  Spesso si è dibattuto su questo e, all’uopo, vale la pena di fare un poco di storia, rimettendo le cose al giusto posto. Dobbiamo alla Massoneria se al sud arrivarono quegli ideali di modernità e di libertà, di uguaglianza che poi furono messi alle fondamenta dello Stato moderno. Che cosa significa per i patrioti napoletani lottare per la Repubblica? Quale significato assumono le parole di Benedetto Croce, quando, in maniera chiara, instaura un legame diretto tra la diffusione della Massoneria nel Napoletano del '700 e l'esperimento rivoluzionario del 1794 e successivamente della Repubblica Partenopea? Perché la Repubblica Partenopea rappresenta un momento importante, di ingresso del nostro mezzogiorno nella cultura europea? Il fenomeno della Repubblica Partenopea non interessa solo la città di Napoli. Ci sono, ad esempio, tutta una serie di municipalità della Calabria (ma non solo) che immediatamente si schierano a fianco della repubblica Partenopea, dove riescono meglio a veicolarsi tutta una serie di sforzi  per legare l'avvento della Repubblica (il dato politico) a tutta una serie di elementi. Il dato fondamentale si gioca sull'eversione della feudalità e della riforma agraria. E qui, ovviamente, ci sono delle profonde contraddizioni. Coloro i quali ritennero dovessero essere abolite solamente i diritti feudali personali: le corvée, le banalità, le prestazioni gratuite di manodopera, e coloro che invece ritenevano fondamentale anche l'abolizione delle grandi proprietà terriere di origine feudale; e che queste ultime dovessero essere restituite alla collettività. Ci fu un dibattito lacerante. Quando alla fine si voterà la legge sulla feudalità, quest'ultima doveva assumere un carattere progressivo, ma sarà troppo tardi. Nel frattempo, vi era stata una inversione di tendenza in Puglia e in Calabria e aveva preso quota la iniziativa del Cardinale Ruffo. Questi elementi di chiaro-scuro, non ci devono però far perdere di vista la sostanza delle cose.
Qui vale citare un esempio che taglia la testa al toro e che è stato foriero di polemiche interminabili.  Al momento del crollo del  Regno delle Due Sicilie tutta la marina Borbonica fece armi e bagagli e passò col vincitore. Perché? Furono tutti una masnada di traditori o c'era qualcos'altro che dobbiamo sapere.
I soliti "neoborbonici", a corto di argomenti, tirano fuori la leggenda dell' "oro Piemontese" oppure dell' "oro massonico"... La risposta invece è estremamente semplice. Chi erano i quadri dirigenti della marina borbonica? Erano tutti avidi di potere e di denaro? Non credo proprio. Erano persone che si erano formate all'estero: in Francia, in Olanda e, soprattutto, in Inghilterra. Lì avevano appreso quelle idee di libertà, di costituzionalismo, di democrazia ecc. Avevano capito, insomma, che in Europa c'era un altro mondo, ragion per cui allo sbarco dei Garibaldini a Marsala nell'armata borbonica di sua maestà Ferdinando II si registra un paradosso: la bassa ciurma esprime forme di lealismo monarchico verso il proprio sovrano, mentre l'intellighenzia, gli ufficiali, si rendono perfettamente conto che i Borboni sono  la reazione, il privilegio, un passato che si deve superare; si rendono conto, cioè,  che l'ingresso in Europa del Mezzogiorno passava attraverso l'Unità d'Italia. Non v'era altro mezzo.  Ma di errori ne furono commessi anche dopo.


Carboneria e Massoneria 
Nel 1927, Alessandro Luzio, dopo la messa al bando della Massoneria, credette di fare una "grandissima scoperta":  divise la "carboneria"  dalla Massoneria, dimostrando così una approssimativa conoscenza della Storia e una scarsa conoscenza dell'istituzione massonica, per cui si è detto che i Martiri di Gerace non erano massoni bensì carbonari; e, siccome il risorgimento meridionale l'aveva fatto la carboneria, voleva dimostrare che la Massoneria non aveva preso parte alla realizzazione dell'Unità d'Italia. Ora, anche un apprendista massone sa che il rituale carbonaro è qualcosa di estremamente affine al rituale massonico. Cos'è il processo di "carbonizzazione" che da il nome alla setta, se non una rivisitazione di quel processo di purificazione interiore che è perennemente presente nei rituali massonici? E che cosa significa il fatto che coloro i quali fossero in possesso dei gradi massonici erano esonerati dalle prove iniziatiche che dovevano superare gli affiliati alla Carboneria? Insomma qui si è dimostrata la più crassa ignoranza sia in fatto di storia sia in fatto di istituzioni iniziatiche.  Certo, la carboneria ha una ritualità diversa, ma si alimenta dei medesimi ideali massonici. Qui non si tratta di stabilire se la carboneria fosse il braccio operativo della massoneria. La carboneria è una realtà tipica di quell'espressione politica - con molti tratti in comune con le altre grandi sette europee - e mutua la sua ispirazione ideale dalla Massoneria. I martini di Gerace si inseriscono a pieno nel processo risorgimentale che è alimentato dalla carboneria nel Mezzogiorno d'Italia. In questo sta l'attualità profonda della Carboneria... Si tratta di due realtà distinte ma  intimamente interconnesse.

La massoneria nel regno di Napoli
    
Nel 1728, la Gran Loggia d’Inghilterra stila un “warrant” per costituire una Loggia Massonica nella Città di Napoli, capitale del Regno delle due Sicilie. A capo di tale Loggia viene designato un musicista, tale Geminiani, più noto all’estero che in patria, accompagnato da un certo Olivares, di professione commerciante. La presenza di quest’ultimo la dice lunga sul carattere della Loggia. Infatti nei primi anni del ‘700 era in corso una lotta, senza esclusione di colpi, fra le varie potenze straniere, per aggiudicarsi il controllo del Mar Mediterraneo. Se noi analizziamo le prime logge formatesi nell’Antico Regno, possiamo facilmente constatare che vi erano anzitutto Logge di dipendenza inglese, olandese, e francese. Solo in un secondo momento  cominciarono a costituirsi anche logge di dipendenza austriaca. Per questo preciso motivo vi furono massoni di obbedienza inglese, francese, olandese, austriaca e poi anche “Nazionale”. Nel 1764 vi fu la prima ribellione verso la dipendenza inglese (che era poi quella egemone). A questo ultimo gruppo occorre annoverare i fratelli appartenenti alle cosiddette logge “Nazionali,” ossia a quelle Logge -  originariamente filo-inglesi - in seguito si allontanarono e costituirono le “Logge nazionali”, assumendo una propria autonomia decisionale, una propria sovranità. Con la venuta a Napoli di Maria Carolina queste Logge di dipendenza “nazionale” divennero filo-borboniche, filocattoliche, e tradizionaliste. E sono quelle che poi contrasteranno – insieme ai servizi segreti del Re – la massoneria e le società segrete costituite successivamente dai rivoluzionari; il che dimostra, senza tema di smentita, che la Massoneria non è stata al servizio di nessuno!

      

La repubblica napoletana, ad esempio, rappresenta una vera e propria amalgama dei vari componenti, in cui molti si schierarono a favore dei rivoluzionari e altri contro. In altre parole vi furono fratelli che erano schierati sia dall'una che dall'altra parte. Il contributo della Massoneria, in definitiva,  alla cultura dei cosiddetti "LUMI napoletani" fu imprescindibile ed riveste un ruolo di primaria importanza nella formazione della classe intellettuale dell'antico Regno. Ma l'influenza della Massoneria non era limitata alla sola città di Napoli. In Calabria, ad esempio, durante il '700, vi erano circa 12 logge e queste costituirono il primo nucleo della futura repubblica napoletana (Salvi, Bisceglia ecc).


Antonio Jerogades
Antonio Jerogades da Parghelia, il quale da Napoli, a piedi, zoppo, si recò in Calabria per ricostruire, a  una a una,  le logge calabresi, distrutte dai Borbone. Che gesti eroici come il sacrificio dei fratelli Bandiera nel vallone di Rovito presso Cosenza, siano stati simbolo di quanto abbiano inciso gli ideali massonici, è fuor di dubbio.  Del resto, i fratelli bandiera non erano solo fratelli di sangue, ma anche fratelli della libera muratoria…











La situazione internazionale.

     Il regno delle due Sicilie era isolato dal proscenio internazionale e questo fu un fattore di estrema debolezza per lo stato borbonico. Dalla Gran Bretagna, in quegli anni, venne deciso - quello che oggi noi chiamiamo - un “regime changing”, per quanto concerneva la penisola italiana. In altre parole, occorreva sottrarre il Regno delle due Sicilie dall’influsso austroungarico e immetterlo nella sfera d’influenza Anglo-francese.
Lord Palmerston
Con l’avvento di Lord Palmerston al governo di Sua Maestà Britannica e al Foreign Office tale progetto poté andare in porto. Lord Palmerston, come del resto larga parte dell’opinione pubblica britannica, era convinto della superiorità del sistema politico liberale inglese e della necessità di “esportarlo”. Nel 1847, quando iniziò il processo unitario italiano gli investimenti inglesi in Europa si triplicarono rispetto al decennio precedente. E da Londra si pensava che i governi a struttura politica liberale fossero più interessanti per l'esportazione di capitali e agli interessi commerciali inglesi. Gli inglesi, all'epoca, investivano prevalentemente nelle ferrovie e nei trasporti. Lord Parlmeston nutriva una sincera avversione per il cosiddetto "Ancien Regime", anche perché i regimi autoritari erano preclusi agli investimenti britannici.  Il grande capitale aveva come centro principale Londra, non l'antico Regno dei Borbone.  Inoltre, Francesco II aveva inopinatamente revocato le concessioni per lo sfruttamento delle solfare siciliane agli inglesi. Sfruttamento che fu concesso agli inglesi per ripagarli dell’aiuto indispensabile che avevano fornito al Cardinale Ruffo per riconquistare Napoli e restituirla ai Borbone. Quindi, anche qui, due pesi e due misure: infedeltà ed ingratitudine.
Lo zolfo assumeva un'importanza fondamentale per l'Inghilterra, in quanto era utilizzato per preparare le munizioni e gli armamenti. In seguito a ciò si verificò una vertenza internazionale e solo grazie ad un arbitrato nel 1840 le solfare vennero riconsegnate agli inglesi. Ma ciò non bastò per fermare la guerra: ormai l'antico regno era entrato nella "black list". Infatti, alle pressioni di carattere economico bisogna aggiungere il più grande isolamento internazionale.


William GladStone
L'occasione venne servita su un piatto d'argento dal Processo Settembrini, laddove gli inglesi inviarono Henry William Gardiner Wreford, un corrispondete del Times, a seguire il processo. E fu proprio costui a visitare le carceri borboniche, non Gladstone; ma ciò, evidentemente, non cambia la sostanza delle cose. Inoltre i Borboni avevano arrestato l'Avv. La Caita che era il cicerone di GladStone, la qual cosa suscitò l'ira di quest'ultimo. Il Regno delle Due Sicilie era ormai spacciato. Nel 1856, mentre al congresso di Parigi Cavour  stava difendendo le case italiane, e stava accusando uno stato sovrano, il regno di Napoli venne condannato in absentia. Non c'era altra strada, all'epoca, se non quella che fu intrapresa dai Savoia, che era l'unico paese in cui non solo la costituzione non fu abrogata e i diritti parlamentari mantenuti, ma che godeva di una acclarata autorevolezza in campo internazionale. Una sola condizione imposero gli inglesi: che si facessero le elezioni.  Tutte le nuove conquiste furono sottoposte a suffragio universale affinché l'unità fosse riconosciuta a livello internazionale.


Conclusioni
    Allora come oggi la questione meridionale riguarda l'esasperato esercizio di distinguersi su tutto, di scomporre anche le scelte politiche basilari. Di qui discende - più forte che mai - la domanda di unità nazionale, che non è affatto meccanica, ma  sociale e nazionale. Il dibattito sul federalismo, sui rapporti fra centro e periferia, sul decentramento fiscale, non devono farci dimenticare che l'unione è fondamentale per acquisire forza ed autorevolezza nel mondo. Si tratta, inoltre, di riflettere sul significato delle comunità meridionali, sul reale apporto che esse hanno dato in termini di produzione, senza invocare pretesti o misere scuse. Si richiede una sorta di protagonismo positivo, in grado di superare rivalità e inutili polemiche. Dualismi  e divari si superano solo attraverso scelte responsabili e consapevoli, avulse dai facili proclami e dalle semplicistiche ricette. Il mezzogiorno si è appoggiato per troppo tempo su di una spesa ed un indebitamento pubblico rilevanti; il che, paradossalmente, non ha generato sviluppo vero. Certamente, in questo senso, il federalismo potrebbe essere un'ottima opportunità  per responsabilizzare una classe dirigente che, per troppo tempo, ha usato poco e male le risorse messe a disposizione. Ma anche per responsabilizzare i cittadini. In tal modo infatti tutti avranno la possibilità  di avere un "metro" a disposizione,  un modo diretto e trasparente per giudicare una determinata classe politica. La raccolta fiscale sarà così più accettabile e, ove non lo fosse,  tutti potranno mandare a casa chi non ha saputo gestire bene la cosa pubblica. Il modello federale insomma rappresenta uno strumento serio tanto per i cittadini, quanto per gli amministratori. Ma l'attuazione del federalismo dovrà passare attraverso la formazione di nuove classi dirigenti e della loro responsabilizzazione nell'affrontare questioni nazionali ed internazionali. Per un effettivo recupero dell'efficienza nella spesa pubblica bisogna altresì abbandonare le logore pratiche redistributive, ed adottare un piano di sviluppo meritocratico e produttivo, allontanando clientelismi e favoritismi di ogni genere. Un mezzogiorno rinnovato nelle classi dirigenti avrebbe tutti i diritti di contrapporsi al malaffare locale. Soltanto attraverso una perfetta sinergia fra classe dirigente e cittadini, accompagnata da una politica responsabile, trasparente e, soprattutto, legale, il Mezzogiorno potrà riuscire a colmare ritardi, debolezze e competitività. E' un tragitto non agevole, anzi, pieno zeppo di difficoltà. Ma è purtuttavia un sentiero necessario ed indispensabile che esige chiarezza, volontà di fare e non di rimanere seduti a guardare. Il sud deve rimboccarsi le maniche. Si richiede un atteggiamento positivo, ottimista che è l'unico ipotizzabile per realizzare un'autentica crescita dell'intero paese. E' necessario recuperare il senso di appartenenza nazionale e chiamare a raccolta le forze migliori del paese per trovare insieme un percorso comune nella politica, nelle istituzioni e nella economia. La questione meridionale non riguarda solo il Sud, ma la tenuta dell'intera Italia nell'Europa e nel mondo. Uniti si vince, separati si perde. Ricordatelo.

© by Luigi Di Pietra

Bibliografia essenziale: 
1. Ettore Rota, Storia politica d'Italia. Le origini del Risorgimento. [1700-1800], Vallardi, 1948.
2. Denis Mack Smith, Il Risorgimento Italiano, Edizioni Laterza, Bari, 2010.
3. Giuseppe Massari, I casi di Napoli, Ed. Ferrero e Franco, 1849.
4. Rosario Romeo, Risorgimento e Capitalismo, Edizioni Laterza, Bari, 2008.
5. Valerio Castronovo, L'industria italiana dall'Ottocento a oggi, Mondadori, 1980.
6. Mario Romani, Storia Economica d'Italia, Il Mulino, 1998.
7. Mancur Olson, Ascesa e declino delle nazioni, Il Mulino, 1984.
8. Ruggero Ferrara di Castiglione, La massoneria nelle Due Sicilie e i fratelli Massoni del '700, Gangemi Editore, 2008
9. Santi Fedele, Testimoni di libertà: dalla Repubblica Napoletana del 1799 ai martiri di Gerace, 2008
10. Francesco Barbagallo, Storia contemporanea. L'Ottocento e il Novecento, Carocci, 2002
11. Giuseppe Galasso, Non si può accusare Mazzini, se il Paese oggi smarrisce l’identità, Corriere della Sera, 10-12-201
12. Manlio Rossi Doria, Scritti sul Mezzogiorno, L'Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2003.
13. Antonio Lucarelli, Il brigantaggio politico del Mezzogiorno d'Italia (1815-1818), Milano, Longanesi, 1982.

venerdì 16 dicembre 2011

Le peripezie di Nino Bixio, da Bronte all’Indonesia

LIBRI / Storia

Un’avventurosa biografia di Mino Milani (Mursia) racconta l’eroe risorgimentale genovese, che dopo l’Unità lasciò tutto per esplorare l’Oriente

Mino Milani - «Vita e morte di Nino Bixio» - Mursia editore - pagine 196, € 16Mino Milani - «Vita e morte di Nino Bixio» - Mursia editore - pagine 196, € 16
Nino Bixio è un personaggio che abbiamo conosciuto sui banchi di scuola, quando ci hanno spiegato che era un fedelissimo di Garibaldi e aveva combattuto con grande coraggio anche nella sfortunata difesa di Roma nel 1849. Ma per capire chi sia stato davvero questo personaggio, che possedeva «visceri di ferro, muscoli d’acciaio, ossa di bronzo» (come l’ha definito Giuseppe Guerzoni), occorre leggere Vita e morte di Nino Bixio, splendido e godibilissimo racconto biografico di Mino Milani (Mursia editore).
Milani non è solo uno studioso di storia ma un ottimo scrittore (dal 1978 Fantasma d’amore è lì a dimostrarlo); e l’insolito mix - già presente nel suo Giuseppe Garibaldi, edito nel 1982 - emerge in questo Bixio, che «conserva tutta la godibilità del ritratto, a tasselli mobili, del condottiero ligure», come osserva Beppe Benvenuto nella prefazione. Infatti, nato a Genova nel 1821, Bixio aveva mostrato subito due tratti, distinti eppure complementari: da un lato, quella che Milani definisce «l’ossessione dell’Italia unita» e dall’altro il richiamo del mare, «ricco, avventuroso e libero». Tant’è vero che a tredici anni era già imbarcato come mozzo sul «Pilade e Oreste», destinazione l’America del Sud.
Il «desiderio d’avventura» e, insieme, «la smania di vedere cose nuove» lo condizioneranno per tutta la vita: una vita che Milani ci ripropone con un gusto per gli aneddoti e con una tale quantità di precisi riferimenti, per cui Bixio esce dalle sue pagine, sempre impetuoso e vitale: per esempio, quando combatte nella seconda guerra d’indipendenza, è coinvolto a Custoza nel 1866, oppure siede in Parlamento.
Il patriota genovese Gerolamo Bixio, detto Nino (1821-1873), fu uno dei più audaci protagonisti della spedizione dei Mille al seguito di Giuseppe Garibaldi
Nino Bixio
Il patriota genovese Gerolamo Bixio, detto Nino (1821-1873), fu uno dei più audaci protagonisti della spedizione dei Mille al seguito di Giuseppe Garibaldi
Né va dimenticato l’ordine impartito, nell’estate del ’60, da Garibaldi a Bixio «di andare a Bronte con la sua brigata», per sedare una cupa rivolta contadina, dove si mescola, nota Milani, una «trama di rivalità, di odi personali, di antichi e recenti rancori squallidamente stesa sull’ambiente dei galantuomini, i possidenti, o borghesi, i nobili». A chi gli chiede una rappresaglia «immediata e indiscriminata», Bixio non risponde: «Gli basta impugnare il revolver e dir chiaro che non si è a Bronte per distruggere, né per massacrare. Si è là per castigare e ciò sarà fatto». Con il commento diMilani: «È davvero ignobile il tentativo, compiuto di recente, di presentare Bixio come un Raeder o un Kappler»...
Ma la passione per il mare non abbandona Bixio che, superata la cinquantina, lascia tutto, e con il «Maddaloni» va a cercare nuova fama e fortuna verso l’Estremo Oriente. Purtroppo, quando la nave s’inoltra nello Stretto della Malacca, anche Bixio è colpito dal colera, e muore alla fine del 1873. La descrizione della sepoltura a Pulo Tuan, il trafugamento del cadavere, la successiva scoperta nel maggio del ’77 «di quel tetro e imbarazzante mucchietto d’ossa» (poi restituito alla natia Genova), rimarranno fra le pagine indimenticabili di Mino Milani.
Arturo Colombo07 novembre 2011 (modifica il 16 novembre 2011)© RIPRODUZIONE RISERVATA

lunedì 28 novembre 2011

Quattro settimane del Risorgimento

ELZEVIRO

Il 1861 riletto da Nello Ajello

Com’è stato tormentoso arrivare all’Unità d’Italia, quanta fatica, quante elucubrazioni diplomatiche, quanto sangue versato per unificare regni, staterelli e ducati, con il Papa in casa che rendeva tutto più difficoltoso. Mentre venivano deposti arciduchi e re, mentre le addolorate regine non si rassegnavano, le corti si sfaldavano, nasceva il nuovo Regno d’Italia.

Il merito fu, soprattutto, di un primo ministro intelligente e furbissimo, Cavour, di un re incolto, ma capace di cogliere le palle al balzo, Vittorio Emanuele II, e di Garibaldi, il santo laico dai biondi capelli che fece innamorare di sé due mondi. Un miracolo, a ripensarci, quel che riuscì a fare il marinaio di Nizza, che cominciò a navigare giovanissimo sulla tartana «Santa Reparata».

L’Unità d’Italia 150 anni dopo. Nello Ajello, giornalista di rango - «la Repubblica», «l’Espresso» - autore di saggi importanti per la storia politica italiana, Intellettuali e Pci e Il lungo addio, ha scritto un libro insolito e curioso, Taccuini del Risorgimento (Laterza, pp. 112, € 14), che si legge volentieri e che, meglio di tanti trattati, fa capire quel che allora accadde, gli umori e i malumori dei sovrani e del Papa, i clericali e i briganti, i garibaldini mandati in pensione, come i partigiani nel 1945, il popolo minuto, i giornali, le lettere dei lettori, le vignette, quel che si disse allora nel bar sport della neonata nazione.

Ajello ha raccontato giorno per giorno le quattro settimane che vanno dal 20 febbraio 1861 al 17 marzo: fatti passati alla storia e fatti minimi, nomi illustri e nomi sconosciuti, maldicenze e speranze. La questione romana pesa su tutto quanto: è «l’imbroglio maledetto», come scrisse Cavour a un amico d’Oltralpe. A Roma fa la guardia al Papa una guarnigione di ventimila soldati francesi. Luminarie a Torino, in quel febbraio 1861. Le Altezze Reali di casa Savoia partecipano alla gioia del popolo. Il Regno delle Due Sicilie si è dissolto, resistono la cittadella di Messina e la fortezza di Civitella del Tronto. Non tutti sono festanti nel nuovo Regno: un pizzicagnolo fiorentino ha esposto nella sua vetrina un busto di gesso del re in mezzo a una sfilata di salami, i sudditi.

Garibaldi, che ha incontrato il re nella Napoli da lui liberata, se ne va a Caprera, deluso e irato con i soliti moderati. Francesco II di Borbone, Franceschiello, l’ultimo re - il padre lo chiamava «Lasagnone», il «Trota» del tempo - è accolto al Quirinale dal cardinale segretario di Stato Antonelli. Con la regina Maria Sofia, sorella di Sissi, sposa dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, e il seguito, è ricevuto con solennità dal papa Pio IX.

Ai petti si appiccicano lustre medaglie, si brinda, si fa festa. Un abate (progressista) va segretamente da Cavour a nome del Papa, Mazzini seguita a essere un condannato a morte. C’è però chi chiede la revoca di quella sentenza del 1857.

Vittorio Emanuele II ha 41 anni, Cavour è uno scapolo impenitente. Non c’era ancora la rivista di gossip «Chi». Una nota informativa della Presidenza del Consiglio comunica: «A proposito delle voci, circolate di recente, secondo le quali Camillo Benso conte di Cavour stesse per sposare una ricca signora inglese, si dichiara che il primo ministro del re Vittorio Emanuele non vuole prender moglie».

L’Italia, invece, comincia a prender corpo. Le ferrovie acquistano grande importanza, nascono le Poste italiane, nasce anche la Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia. I giornali ostili non si danno pace. «L’Armonia» di Torino, il più clericale, non perde occasione per insultare il re. Messina e Civitella si arrendono. Resta il magone per quel Papa padrone. Ci vorranno ancora nove anni prima della Breccia di Porta Pia.

Com’è giovane l’Italia unita. Ajello racconta con lievità, è spesso spiritoso. Questi suoi Taccuini del Risorgimento sono utili a ricordare la piccola-grande storia del Paese nascente. Con il film di Mario Martone, Noi credevamo, ispirato al bel libro omonimo di Anna Banti, i Taccuini sono più efficaci di tante cerimonie.

Corrado Stajano28 novembre 2011 | 14:03

giovedì 3 novembre 2011

Italia senza alternanza già nel Risorgimento

Il saggio - Michele Salvati - «Tre pezzi facili sull’Italia» - Il Mulino - pp. 132, € 14

Michele Salvati - «Tre pezzi facili sull’Italia» - Il  Mulino - pp. 132, € 14Quando si parla della storia d'Italia va sempre tenuto a mente che alle prime elezioni, nel 1861, ebbero diritto di voto 420 mila elettori maschi, meno del 2 per cento della popolazione, e andò a votare solo il 56 per cento di loro, talché il primo Parlamento del nostro Stato unitario venne eletto da circa l'1 per cento degli abitanti. In molti collegi furono sufficienti meno di duecento voti per mandare a Torino un deputato; in uno, solo 89. È questo il punto d'avvio di un libro di Michele Salvati, Tre pezzi facili sull'Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi (il Mulino), il quale si propone di mettere a fuoco carenze ed errori che ci aiutano a capire che cosa è accaduto negli ultimi vent'anni. Una evidenziazione a tratti dissacrante di quel che ha mal funzionato (o non ha funzionato affatto) lungo l'arco dei 150 anni di unità celebrati nei mesi scorsi in ogni città e piccolo paese d'Italia.
Si parte dunque dalla esiguità del numero di coloro che furono coinvolti nella fase iniziale dell'avventura. Per poi dividere la storia del Paese in tre stagioni: quella che va dal 1861 al 1913, l'Italia liberale; quella dal 1914 al 1924, l'Italia alle prese, in particolare nel primo dopoguerra, con i partiti di massa; e infine - accantonato il ventennio mussoliniano - quella che va dal 1943 al 1993, la cosiddetta Prima Repubblica.
Il Regno d'Italia, e l'unità italiana di cui abbiamo testé celebrato il 150° anniversario, nascono dunque «dall'alto», sono costruiti «da un'élite molto ristretta, da un ceto di politici liberali grosso modo divisi in una destra monarchica, moderata o conservatrice, e in una sinistra in cui confluiscono gli eredi delle forze repubblicane e mazziniane». «Non ho niente contro questa costruzione dall'alto», dichiara Salvati, «molte unità statali nascono come costruzioni di élite e poi riescono a coinvolgere con successo il popolo nel processo di ampliamento della democrazia». Ma a questa seconda fase da noi si arrivò tardi, molto tardi.
Dipinto di Achille Beltrame ritrae un momento degli scontri cruenti fra manifestanti ed esercito a Milano nel 1898
Anche restando nell'ambito di una «costruzione di élite», la nostra nasce con un vizio d'origine: l'esclusione delle élite cattoliche, la conquista in armi dello Stato pontificio e il non expedit di Pio IX - la proibizione fatta ai cattolici di partecipare alla vita politica di uno Stato che la Chiesa non riconosce - renderanno debole il fronte borghese, con conseguenze molto gravi sulla «qualità democratica» dei governi liberali, sulla stessa «tenuta della democrazia» nelle prove che essa sarà costretta ad affrontare dopo la Grande guerra. Per cinquant'anni, nella fase iniziale della storia d'Italia, «i cattolici e le loro organizzazioni sono una forza estranea che non riconosce la legittimità dello Stato, una forza extrasistema, se non antisistema». Sono i «neri», come li definivano i liberali. Ai quali andavano ad aggiungersi - sul versante politico opposto - i «rossi», cioè i repubblicani intransigenti e i rappresentanti di quei ceti popolari vessati da condizioni di miseria estrema, i quali andranno a costituire la nervatura e l'ossatura del Partito socialista che nascerà a Genova nel 1892 (in Germania la Spd era stata creata nel 1869). I rossi, ancor più dei neri, sono forze antisistema e, per trovare un inizio di dialogo tra socialisti e liberali, tra Filippo Turati e Giovanni Giolitti, si dovrà attendere la vigilia della Prima guerra mondiale.
Michele Salvati, economista, firma del «Corriere» e nuovo direttore della rivista «Il Mulino»
Michele Salvati

Sulla scia di due studi molto importanti - Il trasformismo come sistema (Laterza) di Giovanni Sabbatucci e Storia d'Italia e crisi di regime (il Mulino) di Massimo Salvadori - Salvati individua in quel che si è appena detto l'origine dei problemi successivi: Destra e Sinistra storica non potevano opporsi l'una all'altra come in Inghilterra, cioè nella patria della democrazia rappresentativa, facevano già allora i Whigs, i liberali, e i Tories, i conservatori. Nell'assillo che, in caso di sconfitta, la Destra scegliesse di allearsi con i «neri antisistema», e la Sinistra con i «rossi antisistema», così da poter giungere ad uno strappo della tela unitaria, in quell'assillo, dicevamo, la lotta politica fu soprattutto una lotta interna a un'unica grande maggioranza. Una gara la cui posta era la leadership della maggioranza stessa, mai la formazione di una maggioranza alternativa. In un bel libro, pubblicato anch'esso dal Mulino, Ottocento. Lezioni di storia contemporanea, Raffaele Romanelli spiega come anche il passaggio del 1876 dalla Destra di Marco Minghetti alla Sinistra di Agostino Depretis non si configurò in un quadro di alternanza. Depretis portò al governo un «amalgama», come allora fu detto, di un centro aperto alla sinistra moderata (in particolare quella meridionale) «che teneva a distinguersi a sinistra dai gruppi più radicali e a destra dai più retrivi». Agli uni e agli altri «mancavano peraltro programmi e punti di riferimento forti, tali da connotarli in positivo e da fondare una dialettica parlamentare». E così, prosegue Romanelli, «il modello centrista, essendo privo di effettivi antagonisti, risultò dall'occasionale accorparsi attorno al governo di singoli deputati o gruppi; agiva in questa direzione anche la debolezza della presidenza del Consiglio, giacché il regime parlamentare si era instaurato per via di prassi e formalmente il capo dell'esecutivo era tuttora il re».
Qualche tempo dopo Depretis si compiacque della capacità dei parlamentari di «trasformarsi» scegliendo la via del «progresso». Ma questo verbo «divenne presto uno stigma negativo e "trasformismo" divenne sinonimo di accomodamento interessato, privo di idealità e di forza, di quell'attitudine alla transazione - alimentata dal connubio di parlamentarismo all'inglese e di accentramento amministrativo alla francese - per la quale i singoli deputati patteggiavano il loro sostegno alla maggioranza in cambio di favori al proprio collegio, o agli interessi di riferimento, in genere agrari, industriali, finanziari».
Già nella seconda metà dell'Ottocento si potevano constatare i perniciosi effetti dell'assenza di alternanza o quantomeno di una prospettiva di alternanza. Sidney Sonnino nel 1900 mise bene a fuoco la questione. «I pericoli e le difficoltà speciali in cui si trova il governo monarchico-rappresentativo in Italia», scrisse, «il premere dei partiti estremi, poco scrupolosi nella scelta dei mezzi e delle alleanze e alimentati dalle tradizioni rivoluzionarie che coadiuvarono alla costituzione prima del Regno... l'ostilità irriducibile del Vaticano che dà colore antidinastico e antiunitario a un partito che altrimenti si presenterebbe soltanto come ultraconservatore, tutte queste cose insieme e altre ancora rendono, a parer mio, impossibile al grande partito costituzionale e liberale di darsi il lusso di dividersi normalmente in due schiere distinte e distintamente organizzate che si alternino con regolare vicenda al governo della cosa pubblica. Ognuno dei due partiti cadrebbe vittima del partito estremo che gli resta più vicino, la sinistra dei sovversivi, la destra dei clericali».
Non fu dunque - come comunemente si crede - la guerra fredda a determinare qui in Italia, nella seconda metà del Novecento, l'impossibilità dell'alternanza. Già un secolo prima, fin dall'inizio della nostra esperienza unitaria, tale impossibilità fu un carattere basilare del nostro sistema politico, carattere che con il passare degli anni lo rese unico al mondo. Unico. Non ci fu alternanza dopo le elezioni del 1913 (le ultime con il sistema uninominale) quando finalmente, grazie al suffragio universale maschile, andarono alle urne otto milioni e mezzo di elettori, talché i candidati appoggiati dai cattolici e quelli socialisti ottennero ottimi risultati. E neanche dopo le elezioni del 1919 (le prime con il proporzionale) o del 1921 quando i partiti di massa conquistarono la maggioranza in Parlamento. Non potendosi coalizzare tra di loro e non riuscendo a farlo - per il «teorema Sonnino» - con i liberali, i nuovi partiti spalancarono, anzi, le porte alla dittatura. Giustamente poi Salvati si sofferma sulle elezioni del 1924 osservando che, certo, ci furono violenze e un forte clima di intimidazione in molti seggi, «ma non sono queste le ragioni che spiegano il successo della Lista nazionale fascista», la quale ottenne quasi il 65 per cento dei suffragi. Utile precisazione.
Nel secondo dopoguerra il problema si ripresentò. Non potendo consentire - dopo il 1947 - l'ingresso dei comunisti al governo, i partiti laici e, successivamente, i socialisti furono «costretti» a partecipare ad un governo quasi sempre a guida democristiana. Di qui «la formazione di un ceto di governo permanente, soggetto a periodici assestamenti interni - sono cinquanta i governi della Prima Repubblica, più di uno all'anno - ma non il frutto di una scelta degli elettori tra programmi alternativi». Questa «la conseguenza della coazione a stare insieme di partiti che programmi alternativi pur li avrebbero avuti - a differenza dei notabili dell'Italia liberale - ma non potevano esprimerli attraverso una scelta di opposizione, per il rischio di far vincere il grande oppositore antisistema: le diversità programmatiche dovevano essere smussate attraverso continue mediazioni interne, che si riflettono nel vorticoso succedersi di governi espressi da una classe dirigente che è sempre la stessa». E se c'è un ceto di governo permanente, «deve anche esistere un ceto di opposizione permanente: una situazione questa - la certezza che non si sarà mai chiamati a governare - che di sicuro non giova a un'evoluzione riformistica del partito di opposizione».
Salvati qui parla esplicitamente di «lesione dei principi democratici» provocata da questo stato di cose. Lesione che avrà come effetto «una sempre minore efficacia dell'azione dei governi». Debole capacità di governo che «si vedrà meno nella lunga fase dei governi centristi, tra il 1948 e il 1963, soprattutto per lo strapotere che la Dc esercitava nei confronti dei partiti minori».
Forse un benefico effetto avrebbe potuto averlo la «buona» legge elettorale maggioritaria del 1953 che, però, non passò. Cosicché la Dc fu costretta ad allargare la maggioranza ai socialisti, i quali dalla metà degli anni Cinquanta andavano staccandosi dal Pci. Nel corso di questo tragitto ci fu nel 1960 il governo guidato da Fernando Tambroni con i voti del Movimento sociale italiano, «tentativo fallito», specifica Salvati, «in realtà non intensamente voluto» (interessante puntualizzazione). Fu poi la volta delle «convergenze parallele» e, finalmente nel 1963, del primo centrosinistra organico con il Psi. All'area di maggioranza «si aggiungeva un grande e orgoglioso partito che arrivava al governo con un programma di riforme robusto: nulla di incompatibile con un'economia capitalistica, ma tale da preoccupare gran parte dei ceti dai quali la Dc traeva i suoi consensi».
Con il tempo, «il Psi venne a più miti consigli, scambiando il radicalismo delle riforme con un accesso sempre più ampio alle pratiche di lottizzazione». E, se si considera che da quel momento i sindacati ebbero un rapporto assai fluido con tutte le forze di governo e che i comunisti, i quali pure fino al 1976 rimasero fuori dalla stanza dei bottoni, furono «ben dentro» i luoghi in cui si decideva la destinazione delle risorse, si comprende come e da cosa ha avuto origine la lievitazione del debito pubblico.
In un libro molto denso e intelligente testé pubblicato da Einaudi, Pensare l'Italia, Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone si soffermano su quegli anni con acute osservazioni. Galli della Loggia spiega bene le caratteristiche di tutto il secondo dopoguerra. Anni in cui «noi realizziamo la seconda, massiccia ondata di industrializzazione che ci rende un Paese definitivamente moderno», percorrendo contemporaneamente tre strade: quella della costruzione di un regime democratico, quella della progressiva messa a punto di un sistema di Welfare State, e, infine, quella dell'allargamento dell'apparato produttivo industriale. Ciò che ha voluto dire che «tra il 1945 e il 1968 noi abbiamo dovuto mettere ai voti ogni cinque anni la nostra rivoluzione industriale», così che «il prezzo della modernizzazione italiana fu uno statalismo fuori misura».
Salvati definisce un «capolavoro politico» della Dc l'essere riuscita a tenere il Pci, «partito antisistema», fuori dalla maggioranza senza compromettere la natura democratica del sistema stesso. E tutto andò per il meglio nella stagione del centrismo. Ma, finita l'industrializzazione «facile» del primo dopoguerra, «le visioni di politica economica delle culture cattoliche, socialiste e comuniste non erano certo le più idonee a indirizzare un'economia di mercato che stava avviandosi a una complessità crescente».
Dipinto di Achille Beltrame ritrae un momento degli scontri cruenti fra manifestanti ed esercito a Milano nel 1898
Così da quando, dopo il 1953, iniziò l'opera di coinvolgimento del Partito socialista (che andò in porto dieci anni dopo, nel 1963) le cose cambiarono: era inevitabile «che, sia dal punto di vista ideologico, sia da quello programmatico, sia, e sempre di più, sul piano della spartizione del potere, i contrasti (e dunque le difficoltà) di governo aumentassero di molto». E qui una notazione importante: che «un Partito socialista collaborasse stabilmente con una Democrazia cristiana fu un fenomeno anomalo, foriero di conflitti e incoerenze politiche, che si giustificava solo per la presenza di un partito antisistema che doveva essere escluso dal governo: date le loro differenze ideologiche e i diversi interessi rappresentati, normalmente i socialisti e i democristiani costituivano in Europa i due poli dell'alternanza democratica. Nel lungo andare i conflitti ideologico-programmatici si attenuarono, certo; ma si inasprirono i conflitti di potere, aventi per oggetto la spartizione delle risorse pubbliche».
L'intera seconda parte della Prima Repubblica - trent'anni, dal 1963 al 1993 - fu governata da governi di centrosinistra con un, più o meno esplicito, coinvolgimento del Pci. E qui la tesi di Salvati - espressa per sua stessa ammissione «in modo apodittico» - è che in quella stagione «siamo entrati in una situazione di rallentamento economico più grave degli altri Paesi europei a seguito delle scelte (e delle mancate scelte) delle classi dirigenti del centrosinistra». Tesi che «non salva l'opposizione comunista, che è anzi l'elemento determinante di un sistema politico incapace di controllare le tensioni distributive di breve periodo e attuare le necessarie riforme strutturali». Discorso che, ovviamente, investe anche i governi della cosiddetta Seconda Repubblica.
È vero che negli anni Settanta e Ottanta la nostra economia tenne lo stesso ritmo del resto d'Europa (che, però, negli anni Cinquanta e Sessanta era stato maggiore). Ma questo è potuto accadere perché negli anni Settanta e Ottanta la nostra economia ha potuto godere di un sostegno fiscale straordinario, «quello, appunto, che nasceva dai disavanzi pubblici e diede origine al colossale debito che tuttora ci affligge». Svalutazione della lira e «sommerso», vale a dire evasione diffusa delle tasse nelle aree di maggior sviluppo, fecero il resto.
Poi, però, quando si arrivò all'ora della verità, venne al pettine il nodo di cui si è detto, l'inidoneità delle visioni di politica economica riconducibili a Dc, Psi e Pci. Salvati è particolarmente severo con quelle della sinistra «dove, fino alla fine degli anni Ottanta, furono prevalenti orientamenti culturali difficilmente spendibili per un moderno riformismo». Discorso che vale in pieno per il Partito comunista. Ma anche per quello socialista, il quale «ancorché staccatosi dall'alleanza con il Pci nei primi anni Sessanta, ci mise molto tempo ad acquisire orientamenti di socialismo liberale: bisognerà aspettare Craxi e la fine degli anni Settanta». Ma una volta acquisiti orientamenti più moderni, «l'anomalia del sistema politico e le lotte di potere con i democristiani sulla spartizione delle risorse pubbliche impedirono al Psi di esercitare appieno la funzione modernizzatrice e liberale che avrebbe potuto avere».
Così i partiti di governo nella stagione del centrosinistra «divisi al loro interno da conflitti ideologici di antica origine e da lotte di potere sempre più aspre, tallonati dai sindacati e dal Pci, furono incapaci non soltanto di prendere la posizione dura di de Gaulle (e più tardi della Thatcher), ma anche di avviare una concertazione costruttiva come avveniva in altre democrazie: il sindacato e, dietro di esso, il Pci, lo impedivano e bisognerà attendere la crisi finale della Prima Repubblica affinché una concertazione efficace possa aver luogo... Insomma, la concertazione efficace e il definitivo sradicamento dell'inflazione (in mezzo a sofferenze e contorsioni ideologiche di cui le dimissioni di Bruno Trentin, dopo aver sottoscritto l'accordo del 1992 sulla scala mobile, restano l'esempio più illuminante) avvennero con dieci anni o più di ritardo rispetto agli altri Paesi europei».
Salvati non esita a puntare l'indice contro «la prevalenza nelle forze di opposizione (e in buona parte della maggioranza) di culture politiche non riformistiche, risalenti alle ideologie della prima e tragica parte del Novecento, che ebbero un ruolo determinante nell'ostacolare la formulazione e l'esecuzione di politiche economiche efficaci». Dunque, per quel che riguarda la storia della Prima Repubblica, all'epoca dei governi centristi «le classi dirigenti fecero, nella buona sostanza, le scelte giuste e colsero le occasioni di sviluppo che ad esse si erano presentate»; mentre la cause del ristagno relativo vanno rintracciate nelle culture politiche che prevalsero nei trent'anni del centrosinistra. Tesi originale in sé. Ma ancor più interessante se si considera che a proporla è il padre ed inventore del Partito democratico, cioè la forza politica che raccoglie gli eredi di quella stagione.
Poi, gran parte delle riforme attuate dai primi governi della Seconda Repubblica e soprattutto dagli ultimi due governi della Prima (quelli presieduti da Giuliano Amato e da Carlo Azeglio Ciampi) - sostiene Salvati - si sono mosse, pur con qualche errore, nella direzione giusta, quando hanno cercato di introdurre nel sistema gli elementi di liberalizzazione, di efficienza e di competizione necessari all'attuale fase economica mondiale. «Ma il problema di fondo», aggiunge, «è che le riforme sono state calate in un contesto fortemente deteriorato». E, come ha documentato Fabrizio Barca in Italia frenata (Donzelli), questo contesto ha provocato tante e tali resistenze che, passato l'effetto di tali governi, quasi tutto è tornato al punto di partenza.
Un libro a cura di Giuseppe Ciccarone, Maurizio Franzini ed Enrico Saltari, L'Italia possibile. Equità e crescita (Brioschi) ha recentemente sostenuto la tesi (di Mario Tronti) secondo la quale - in sintesi - una politica sindacale più aggressiva dopo la svalutazione del 1992-96, e dunque una crescita più sostenuta dei salari, una minore possibilità di ricorrere al lavoro precario e a basso costo, avrebbero indotto le imprese a maggiori investimenti in innovazione. E, con ciò, avrebbero provocato una maggiore crescita sia della produttività che della domanda interna e di conseguenza del reddito complessivo. Salvati risponde che «la tesi è interessante, l'argomentazione che la sostiene è ben costruita» e pur tuttavia «non è convincente né da un punto di vista economico, né da uno politico». La «colpa» del ristagno - secondo l'autore di Tre pezzi facili sull'Italia - va attribuita a squilibri di finanza pubblica accumulati nel passato, ad un tessuto produttivo debole o, più in generale, a fattori reali d'offerta degenerati come conseguenza delle mancate riforme del «lungo centrosinistra». Gli errori successivi («errori che sarebbero stati evitabili nelle condizioni di forza sindacale e di prevalenza politica di coalizioni pro-labour nella seconda parte degli anni Novecento») sono semmai una conseguenza di quella colpa.
Circola da tempo una visione nostalgica, un rimpianto diffuso per la Prima Repubblica e per il centrosinistra, alimentata soprattutto dall'insoddisfazione per la rissa politica e per i deludenti esiti economici della Seconda. «Insoddisfazione più che giustificata», chiosa Salvati, «ma che non deve condurre a mitizzare una fase non felice della nostra vita pubblica e la politica economica in essa attuata; l'eredità di quella fase è stata molto pesante e contribuisce a spiegare gli stessi esiti deludenti del periodo successivo». Mai da uno studioso di sinistra erano state usate parole così aspre nei confronti della stagione che si aprì con il governo guidato da Aldo Moro e da Pietro Nenni nel dicembre del 1963.
03 novembre 2011

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Bibliografia
La costruzione faticosa dello Stato nazionale
Il saggio di Michele Salvati Tre pezzi facili sull’Italia è pubblicato dal Mulino, la stessa casa editrice del libro di Raffaele Romanelli Ottocento (pagine 380, e 26). Sono dedicati al «caso italiano» anche i libri Il trasformismo come sistema di Giovanni Sabbatucci (Laterza), Storia d'Italia e crisi di regime di Massimo L. Salvadori (Il Mulino) e Pensare l’Italia di Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone (Einaudi). Da segnalare anche L’Italia possibile (Brioschi) a cura di Giuseppe Ciccarone, Maurizio Franzini ed Enrico Saltari.
I leader
• La pratica «trasformista» venne inaugurata nell’Ottocento dal leader della Sinistra Agostino Depretis (nel ritratto in alto), che in questo modo riuscì a garantirsi una maggioranza, ma al prezzo di compromessi continui con interessi particolaristici di cui erano portatori i singoli deputati

• Giovanni Giolitti (nella foto in mezzo) proseguì nella pratica di aggregare forze al centro. Anche il suo rivale 



Sidney Sonnino (nella foto sotto) ammise che la minaccia delle forze marxiste e clericali rendeva questa scelta inevitabile: coinvolgere le ali politiche estreme avrebbe potuto destabilizzare il sistema