martedì 30 luglio 2024

Il regno delle Due Sicilie ossia il sistematico sfruttamento delle province a vantaggio di Napoli.



di Marco Vigna
Il regno delle Due Sicilie era caratterizzato da un duplice marcato squilibrio, insieme sociale e territoriale: 1) la stragrande maggioranza delle terre era di proprietà di latifondisti, per cui esistevano pochi ricchissimi ed una massa sterminata di braccianti e mezzadri poverissimi; 2) Napoli e la sua immediata conurbazione concentravano in sé il grosso delle risorse disponibili.

Scrisse lo storico napoletano (nativo di Pozzuoli) Giuseppe Galasso, massimo esperto della storia del regno di Napoli:
«Accentramento burocratico e giudiziario, concentrazione residenziale della nobiltà e della migliore borghesia, monopolio degli studi universitari, sicurezza annonaria, prezzo politico del pane, esenzioni fiscali e giurisdizionali, possesso dell’unico grande porto del paese, convergenza del grande commercio e del commercio con l’estero, concentrazione di direzione di istituti religiosi e ancora altri fattori…» [G. Galasso, Napoli, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. XII. ]

Due dati di ordine quantitativo possono rendere ragione del divario e della sua genesi dovuta alle politiche governative: la distribuzione del circolante; il residuo fiscale ossia la differenza fra quanto lo stato estraeva da una regione tramite il fisco e quanto spendeva in essa.
Si è calcolato che nel 1833 nella parte continentale del regno, dunque esclusa la Sicilia, vi fosse una circolazione monetaria di 20 milioni di ducati circa. Fra questi, 14 milioni di ducati si trovavano concentrati a Napoli, i restanti 6 milioni erano sparsi fra Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria, Salernitano, Irpinia, Sannio, Lazio meridionale.
Le province, in cui abitavano avevano appena il 30% del circolante. Napoli aveva invece il 70% del circolante. [G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, Milano 1975 vol. II, pp.327-328]
Secondo l’Atlante Corografico Storico e Statistico del Regno delle Due Sicilie di Benedetto Marzollo (Reale Litografia Militare, 1832), nel 1832 il regno delle Due Sicilie nella parte continentale (esclusa quindi la Sicilia) aveva 5.727.141 abitanti, di cui 357.273 residenti a Napoli. Perciò, vi sarebbero stati 4 milioni di ducati per 5.369.868 abitanti e 16 milioni per 357.273, rispettivamente 0,7 ducati pro capite nelle province e 45 ducati pro capite a Napoli. In altri termini, il patrimonio finanziario pro capite di Napoli era 64 (sessantaquattro) volte quello delle province.
Il residuo fiscale era dicotomico fra le province e Napoli, con un flusso di denaro costante che il regime borbonico trasferì da tutto il Mezzogiorno verso la capitale. Lo stato borbonico dal 1816 al 1859 spese per la capitale 380 milioni di ducati in più di quanto aveva incassato da essa con tasse ed imposte. La differenza fu ricoperta dalle province, che per tutto questo periodo versarono allo stato tramite la leva fiscale più denaro di quanto ne tornasse indietro come spesa. (su questo si rinvia Nicola Ostuni, “Finanza ed economia nel regno delle Due Sicilie”, Napoli, Liguori, 1992, specie pp. 325 sgg.)
Le cifre sono le seguenti. Napoli ricevette dal 1816 al 1859 una spesa superiore dell’86% a quanto aveva versato. Le province invece ebbero per lo stesso periodo una spesa statale inferiore a quanto versato secondo le seguenti percentuali:
Terra di lavoro: - 32%
Abruzzo Ultra I: -68%
Abruzzo Ultra II: - 63%
Abruzzo Citra: -64%
Principato Citra: -57%
Principato Ultra: -82,19%
Molise: - 84%
Capitanata: - 76%
Terra di Bari: - 84%
Terra d’Otranto: -80%
Basilicata: - 81%
Calabria Citra: - 67%
Calabria Ultra I: -77%
Calabria Ultra II: -62%
Il Molise e la Terra di Bari furono le regioni più sfruttate, perché videro l’84% del loro prelievo fiscale dirottato su Napoli, con appena il 16% restituito come spesa pubblica. La Terra di Lavoro fu la meno sfruttata, con una differenza di “appena” il 32%. Però, con la sola eccezione proprio della Terra di Lavoro, tutte le province del Sud ebbero la maggioranza assoluta del denaro da esse pagato come tasse ed imposte inviato a Napoli.
Va aggiunta per una migliore comprensione la spesa pubblica pro capite nelle Due Sicilie sempre negli anni 1816-1859. Riportando soltanto i due estremi della forbice di spesa:
Napoli: 1100 ducati
Terra di Lavoro: 71 ducati;
Principato Citra: 55 ducati;
Calabria Ultra II: 50 ducati;
Abruzzo Ultra I: 8 ducati
Allora per ogni abitante di Napoli in media lo stato borbonico spese 1100 ducati, per la Terra di Lavora (al secondo posto in questa classifica) appena 71, mentre al fondo si trovava l’Abruzzo Ultra I con appena 8.
Il privilegio sistematico di Napoli rispetto alle province nel regno delle Due Sicilie era evidenziato anche da altri fattori, dalla concentrazione di tutte le istituzioni nella capitale alla selezione del personale politico ed amministrativo, ma i dati suddetti già lo provano. Anche la Sicilia fu assoggetta a tale pesante discriminazione a favore della capitale, tuttavia la sua condizione fu un caso a sé stante nell’ordinamento delle Due Sicilie.
Si può concludere con due osservazioni. Primo, lo sfruttamento delle province, tutte senza eccezioni, a vantaggio di Napoli fu sistematico e strutturale, facendo affluire al centro la maggioranza assoluta del prelievo fiscale del regno e provocando un divario abissale di spesa pro capite. Secondo, l’assorbimento del grosso della spesa pubblica sulla sola capitale ed a beneficio della minuscola classe dominante, essenzialmente parassitaria, fu improduttivo e danneggiò anche sul medio e lungo periodo l’intero Sud, lasciato privo degli investimenti, specie d’infrastrutture ed istruzione, di cui necessitava per una modernizzazione.

mercoledì 13 marzo 2024

Giuseppe Massari e la "questione meridionale

A 140 anni dalla morte di Giuseppe Massari  (11 agosto 1821 – Roma, 13 marzo1884) occorre  ricordarne la memoria e tracciarne un serio bilancio.
Tarantino di nascita, prima giovane patriota, poi segretario personale di Cavour negli anni cruciali dell'impresa unitaria, deputato al Parlamento subalpino, Massari fu incaricato di stendere una «Relazione sulle cause del brigantaggio nel Mezzogiorno» presentata poi alla Camera nel 1863. Quello che segue è solo un estratto della predetta Relazione.

« Nel comitato segreto del 16 dicembre 1862 ci veniva commesso l'incarico di riferire intorno alle cause ed allo stato del brigantaggio nelle province napolitane, e intorno ai più acconci provvedimenti che fossero a prendersi dal Parlamento e da suggerire al governo per la più efficace repressione di esso. In conformità di quest'incarico noi veniamo oggi a dirvi quali siano, a senso nostro, le cause del brigantaggio, quale il suo stato attuale, e quali i diversi provvedimenti che Governo e Parlamento debbono prendere non solo per reprimere gli effetti immediati del male, ma anche per rimuoverne le cause, e prevenirne in tal guisa il possibile rinnovamento. incominciamo dalle cagioni. ( ... ) Facil cosa è dire che il brigantaggio si è manifestato nelle province meridionali a motivo della crisi politica ivi succeduta; con ciò si enuncia il motivo più visibile del doloroso fatto, ma si rimangono nell'ombra le ragioni sostanziali( ... ) La prima domanda che spontanea sorgeva nell'animo nostro era la seguente: il brigantaggio che da tre anni contrista le province continentali del mezzodì dell'Italia, è conseguenza esclusiva del cangiamento politico avvenuto nel 1860, oppure questo cangiamento è stato soltanto un'occasione dalla quale lo sviluppamento del brigantaggio è stato determinato? ( ... )
Gl'influssi della crisi politica non potevano essere, non sono stati diversi nelle diverse province dell'ex reame napolitano: se dunque in ogni caso la loro azione è stata identica, gli effetti avrebbero pure dovuto essere i medesimi in ognuna di quelle province, e queste avrebbero perciò dovuto essere allo stesso grado infestate dal brigantaggio. La conclusione è strettamente logica: ma il fatto la contraddice, poiché è indubitato che mentre in alcune province il brigantaggio ha infierito e ha raggiunto terribili proporzioni, come, a cagion d'esempio, in Capitanata e in Basilicata, in altre, come le Calabrie, o  non ha allignato molto, o tutto al più si è astretto in angusti limiti. Per rendere ragione di questo contrasto è dunque mestieri supporre o che la crisi politica non abbia avuto nessun influsso in alcune province e
molto in altre, oppure che le rispettive condizioni di quelle province non essendo identiche gli effetti della crisi siano stati diversi.
La prima di queste ipotesi non regge all'esame: il rivolgimento politico essendo unico nella sua essenza e nella sua origine non poteva non tramandare i suoi influssi alla stessa guisa e con la medesima efficacia in tutte le località, e quindi sarebbe all'intutto gratuito e assurdo il supporre e l'asserire che questi influssi si manifestassero e fossero attivissimi a Foggia ed a Potenza, latenti od inerti a Catanzaro ed a Reggio.
La ragione del divario va dunque ricercata altrove, e propriamente nella diversità delle condizioni delle varie province ( ... ). Il brigantaggio se ha pigliato le mosse dal mutamento politico, ripete però la sua origine intrinseca da una condizione di cose preesistente a quel mutamento, e che i nostri liberi istituti debbono assolutamente distruggere e cangiare. Molto acconciamente è stato detto e ripetuto essere il brigantaggio il fenomeno, il sintomo di un male profondo ed antico: questo paragone desunto dall'arte medica regge pienamente, ed alla stessa guisa che nell'organismo umano le malattie derivano da cause immediate e da cause predisponenti, la malattia sociale, di cui il brigantaggio è il fenomeno, è originata anch'essa dallo stesso duplice ordine di cause. Le prime adunque cause del brigantaggio sono le cause predisponenti. E, prima fra tutte, la condizione sociale, lo stato economico del campagnuolo, che in quelle province appunto, dove il brigantaggio ha raggiunto proporzioni maggiori, è assai infelice. Quella piaga della moderna società che è il proletariato ivi appare più ampia che altrove. Il contadino non ha nessun vincolo che lo stringa alla terra. La sua condizione è quella del vero nullatenente, e quand'anche la mercede del suo lavoro non fosse tenue, il suo stato economico non ne sperimenterebbe miglioramento.
Dove il sistema delle mezzerie è in vigore, il numero dei proletari di campagna è scarso; ma là dove si pratica la grande coltivazione, sia nell'interesse del proprietario, sia in quello del fittaiolo, il numero dei proletari è necessariamente copioso. A Foggia, a Cerignola, a San Marco in Lamis hanno un ceto di popolazione, addimandato col nome di terrazzani, che non possiede assolutamente nulla e che vive di rapina.
Nella sola città di Foggia i terrazzani assommano ad alcune migliaia. Grande coltura: nessun colono: e molta gente che non sa come fare per lucrarsi la vita. «I terrazzani ed i cafoni -ci diceva il direttore del demanio e tasse della provincia di Foggia -, hanno pane di tal qualità che non ne mangerebbero i cani». Tanta miseria e tanto squallore sono naturale apparecchio al brigantaggio. La vita del brigante abbonda di attrattive per il povero contadino, il quale, ponendola a confronto con la vita stentata e misera che egli è condannato a menare, non inferisce di certo dal paragone conseguenze propizie all'ordine sociale. Il contrasto è terribile, e non è da maravigliare se nel maggior numero dei casi il fascino della tentazione a male operare sia irresistibile. I cattivi consigli della miseria, non temperati dalla istruzione e dalla educazione, non infrenati da quella religione grossolana che si predica alle moltitudini, avvalorati dallo spettacolo del cattivo esempio, prevalgono presso quegl'infelici, e l'abito a delinquere diventa seconda natura. La fioca voce del senso morale è soffocata, e il furto anziché destare ripugnanza appare mezzo facile e legittimo di sussistenza e di guadagno, ond'è che sorgendo dall'occasione l'impulso al brigantaggio le sue fila non indugiano ad essere ingrossate. Su 375 briganti che si trovavano il giorno 15 aprile nelle carceri della provincia di Capitanata, 293 appartengono al misero ceto dei così detti braccianti. Là invece dove le relazioni tra il proprietario e il contadino sono migliori, là dove questi non è in condizione nomade ed è legato alla terra in qual si voglia modo, ivi il brigantaggio può, manifestandosi, allettare i facinorosi, che non mancano in nessuna parte del mondo, ma non può gettare radici profonde ed è con maggiore agevolezza distrutto.
La condizione di cose, della quale siamo venuti fin qui discorrendo, ci sembra porgere in modo non equivoco la nozione di una delle cause che con maggiore efficacia generano fatalmente in alcune province meridionali la funesta predisposizione al brigantaggio. Il sistema feudale spento dal progredire della civiltà e dalle prescrizioni delle leggi ha lasciato una eredità che non è ancora totalmente distrutta; sono reliquie d'ingiustizie secolari che aspettano ancora di essere annientate. I baroni non sono più ma la tradizione dei loro soprusi e delle loro prepotenze non è ancora cancellata, e in parecchie delle località che abbiamo nominate l'attuale proprietario non cessa dal rappresentare agli occhi del contadino l'antico signore feudale. Il contadino sa che le sue fatiche non gli fruttano benessere né prosperità; sa che il prodotto della terra innaffiata dai suoi sudori non sarà suo; si vede e si sente condannato a perpetua miseria e l'istinto della vendetta sorge spontaneo nell'animo suo. L'occasione si presenta; egli non se la lascia sfuggire; si fa brigante; richiede alla forza quel benessere, quella prosperità che la forza gli vieta di conseguire, ed agli onesti e mal ricompensati sudori del lavoro preferisce i disagi fruttiferi della vita del brigante. Il brigantaggio diventa in tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie.»


Diario

Massari descrisse dettagliatamente gli eventi politici e sociali dell’epoca, le sue esperienze personali e le sue riflessioni sui protagonisti del movimento risorgimentale. Inoltre narrò le difficoltà e le speranze dei patrioti italiani, le lotte per l’unificazione e le tensioni interne tra le diverse fazioni politiche. Il diario fu anche una fonte importante per comprendere il clima culturale e intellettuale del tempo, con riferimenti a incontri con figure di spicco come Cavour, Garibaldi e Mazzini. In particolare, egli dedicò ampio spazio alla questione del brigantaggio nel Sud Italia, analizzando le cause e le conseguenze di questo fenomeno e criticando le politiche repressive adottate dal governo.


Su Garibaldi
Inizialmente, Massari ebbe delle riserve sull"'eroe dei due mondi", considerandolo un’incognita di cui poco fidarsi. Tuttavia, con il passare del tempo, modificò il suo giudizio riconoscendo in lui un “capitano valoroso”, capace di ispirare ammirazione e fiducia. Nel suo diario, Giuseppe Massari rappresentò Giuseppe Garibaldi come una figura complessa e affascinante. Massari ne apprezzò il coraggio e la determinazione, sottolineandone il ruolo cruciale nelle campagne militari che contribuirono all’unificazione dell’Italia. Nonostante le iniziali diffidenze, Massari ne riconobbe l’importanza delle azioni militari per il successo del movimento risorgimentale e per la causa dell’unità nazionale. La relazione tra Giuseppe Massari e Giuseppe Garibaldi durante il Risorgimento fu complessa e caratterizzata da una certa evoluzione nel tempo. 

lunedì 14 agosto 2023

Quel falso storico su Pontelandolfo

 

Uno dei giornalisti de Il Mattino, l’ex cronista di nera ed esperto di calcio Gigi Di Fiore, ha scritto 1861. Pontelandolfo e Casalduni. Un massacro dimenticato (edizione originale nel 1998: qui si cita dalla ristampa del 2013, avvenuta a Milano), avvertendo nella Introduzione che egli ha scelto «una strada a metà tra il saggio e il romanzo. Reali le vicende di fondo narrate, approfondito l’accertamento su documenti originali e testi.». È quantomeno insolito che si scriva un testo a metà fra il saggio ed il romanzo, perché il primo dovrebbe occuparsi di ciò che è realmente accaduto, quindi della verità storica, mentre il secondo è finzione letteraria e libera fantasia. Per di più, manco si capisce dove finisca il saggio e dove incominci il romanzo. Citiamo ora da un passo in cui Di Fiore riferisce dell’arrivo dei bersaglieri a Pontelandolfo nell’agosto del 1861 e di ciò che i militari avrebbero fatto alla popolazione civile: «Ridevano in dieci attorno a Maria Izzo. L’avevano legata a un albero. Le avevano strappato tutti i vestiti. Lei piangeva, urlava, chiedeva pietà. Le alzarono le cosce, c’era chi gliele teneva allargate. A turno le furono addosso. Poi le assestarono un colpo di baionetta nel ventre. La lasciarono così, un offeso cadavere nudo, legata a quell’albero.» L’aneddoto appartiene al “saggio”, al “romanzo” o sarebbe una via di mezzo? Sta di fatto che in fondo al testo Di Fiore scrive quanto segue: «Izzo Maria: una delle vittime, individuate nei documenti ufficiali, del massacro di Pontelandolfo compiuto dai soldati piemontesi» Allora l’episodio dello stupro di gruppo su Maria Izzo legata ad un albero e della sua morte con una baionettata nel ventre, dovuti ai bersaglieri, rientrerebbe nel “saggio” ed in quella che secondo il giornalista sarebbe realmente accaduto? L’aneddoto riportato nel romanzo del giornalista partenopeo è stato poi ripreso da Antonio Ciano, un altro scrittore revisionista, prima marinaio, poi tabaccaio di professione. Ciano è divenuto famoso negli ambienti neoborbonici per aver scritto I Savoia e il massacro del sud, (Grandmelò, Roma 1996), in cui sostiene fra l’altro quanto segue: i piemontesi avrebbero sempre praticato la «magia nera»; il regno delle Due Sicilie, dunque una monarchia assoluta, feudale e clericale, era per Ciano nientedimeno che … «il primo stato Socialista» (sic!); l’Unità d’Italia è avvenuta perché «doveva essere attuata la profezia di Comenius espressa in Lux in Tenebris secondo la quale sarebbe dovuta sorgere dalle tenebre come fonte di luce una Super-chiesa che integrasse ogni religione attraverso i Concistori nazionali»; il Piemonte avrebbe ceduto la Corsica, isola che in realtà fu ceduta alla Francia nel lontano 1768 dalla repubblica di Genova e che non appartenne mai ai Savoia od al “Piemonte”. Questo ed altro ha scritto Ciano. L’episodio di Maria Izzo comparso nel romanzo di Gigi Di Fiore è stato ripreso dal tabaccaio di Gaeta in un altro suo libro, Le stragi e gli eccidi dei Savoia (Graficart, Formia 2006) in cui si profonde in elogi per il giornalista de Il Mattino. Anche nell’immancabile Terroni di Pino Aprile, giornalista ex direttore di Gente ed esperto di vela, si rintraccia, sempre su Pontelandolfo, il seguente passo, che nei contenuti è sostanzialmente uguale a quello di Gigi Di Fiore: «Maria Izzo forse era la più bella, perché erano tanti a volerla, fra i fratelli d'Italia con libertà di stupro. Ma c'era del lavoro da fare in quel paese («Che non ne resti pietra su pietra» era l'ordine). Così, forse per guadagnare tempo, la legarono nuda a un albero, con le gambe alzate e aperte. Finché uno la finì, affondandole la baionetta nella pancia.» [Pino Aprile, Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali», Milano, Piemme, 2010, p. 54.] Il romanzo 1861. Pontelandolfo e Casalduni. Un massacro dimenticato ha dunque offerto una artefatta verità storica ad altri autori “revisionisti”. Bisogna riprendere il professor Davide Fernando Panella (professore e sacerdote), autore del saggio L'incendio di Pontelandolfo e Casalduni: 14 agosto 1861 (Foglianise da Piesse, 2002). Questo studio si è basato su documenti parzialmente o totalmente inediti ed in più esaminando le fonti già in precedenza conosciute e la bibliografia sul tema, in modo da avere un quadro complessivo il più completo possibile attuato anche con il confronto delle diverse fonti fra loro. Panella ha analizzato i libri dei morti degli archivi parrocchiali di questi due paesi ed una memoria scritta dal parroco di Fragneto Monforte: tutti questi documenti furono redatti da sacerdoti che furono testimoni oculari dell’accaduto e sono stati scritti con grande precisione e cura dei dettagli. Panella riporta nel suo studio l’elenco dei morti dovuti alla rappresaglia, mostrando come il Registro dei defunti della parrocchia Santissimo Salvatore di Pontelandolfo li enumeri ad uno ad uno, indicandone nome, cognome, genitori, età, causa della morte (ucciso in casa, ucciso per strada, morto per le fiamme ecc.). Padre Panella ha smentito categoricamente, durante un convegno dedicato al tema Il brigantaggio nell’Alto Tammaro, svoltosi con presenza di molti studiosi e ricercatori, che Maria Izzo sia stata violentata ed uccisa dai militari mentre era legata ad un albero. L’archivio parrocchiale, redatto un sacerdote di Pontelandolfo testimone degli eventi e che scriveva poco dopo che erano accaduti, riporta che Maria Izzo aveva 94 anni (novantaquattro anni) e che morì arsa nell’incendio della propria abitazione. Insomma, la sventurata Izzo non fu né violentata né uccisa intenzionalmente. I militari appiccarono il fuoco alla casa durante ed ella, certamente per la tardissima età, non riuscì a fuggire. Quanto afferma il professor Panella è suffragato da un’analisi accurata delle fonti e contraddice il romanzo di Gigi Di Fiore ed i suoi epigoni. La negazione della storicità dell’immaginario stupro di gruppo sulla ultranovantenne Izzo e del suo assassinio a colpi di baionetta si ritrova anche in Silvia Sonetti che ha scritto su Pontelandolfo un saggio storico, L’affaire Pontelandolfo. La storia, la memoria, il mito (1861-2019, Roma, Viella 2020, in cui esamina tutte le fonti primarie conosciute.1 La ricercatrice ha citato ed analizzato criticamente una sterminata bibliografia, fra cui una lunga serie di studi di accreditati storici quali Alessandro Barbero, Benedetto Croce, Francesco Barbagallo, Giuseppe Galasso, Alfonso Scirocco, Carmine Pinto, Rosario Romeo, Angeloantonio Spagnoletti e tantissimi altri ancora. Fonti alla mano, ha spiegato Sonetti, non vi sono dubbi: 
«Non esiste nessuna fonte che possa sostenere la tesi dell’eccidio dei civili. I testimoni non parlarono mai di stragi, di uccisioni sommarie, né di violenze gratuite o di morti bambini. Tra quelli accertati risultano solo due donne, una di 94 anni, Maria Izzo, deceduta a causa dell’incendio, e una di 18, Concetta Biondi, la più giovane. Nessun documento ne descrive in dettaglio la fine e l’idea che siano state prima stuprate e poi uccise dagli stessi soldati non trova alcun appoggio nelle fonti di archivio.» 

Far diventare una donna di novantaquattro anni, perita nell’incendio della propria abitazione, come la vittima di uno stupro di gruppo di bersaglieri, poi uccisa con una baionettata, è un esempio di “revisionismo del Risorgimento”. Per inciso, sia Di Fiore che Aprile, hanno citato padre Panella fra le loro fonti, distorcendo, quindi, con la loro pseudostoria, quanto lo stesso Panella ha scritto e documentato. 


 Fonti documentarie 1. Archivio Comunale di Casalduni, Casalduni Archivio Comunale di Pontelandolfo, Pontelandolfo (BN) Archivio Comunale di Ponte, Ponte (BN) Archivio Centrale dello Stato, Roma Archivio Privato Biondi, Benevento Archivio parrocchiale Ss. Nicola e Rocco di Fragneto Monforte, Fragneto Monforte (BN) Archivio parrocchiale di San Lupo, San Lupo (BN) Archivio parrocchiale della chiesa del Santissimo Salvatore di Campolattaro, Campolattaro (BN) Archivio di Stato di Benevento, Benevento Archivio Storico della Camera dei Deputati, Roma Archivio di Stato di Napoli, Napoli Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma Società Napoletana di Storia Patria, Napoli Alta Polizia Dps Delegato di Pubblica sicurezza Ministero dell’Interno Ministero dell’Interno e Polizia di Napoli Prefettura di Benevento Pubblicazioni mensili Febbraio, 2023 Gennaio, 2023 Dicembre, 2022 Novembre, 2022 Ottobre, 2022 Settembre, 2022 Agosto, 2022 Luglio, 2022 Giugno, 2022 Maggio, 2022 Aprile, 2022 Marzo, 2022 Febbraio, 2022 Cerca... Cerca... Link e collaborazioni Home - Prima Pagina Società Napoletana di Storia Patria Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Repubblica Napoletana 1799 Patrocinio del Comune di Napoli Archivio Storico Diocesano di Napoli Ripartiamo dal N.36 del 1799 Statistiche Utenti registrati 133 Articoli 2970 Web Links 6 Visite agli articoli 13696826 (La registrazione degli utenti è riservata solo ai redattori) Visitatori on line Abbiamo 192 visitatori e nessun utente online

giovedì 30 marzo 2023

Il cattivo vezzo dei romanzieri di mettersi a pontificare sulla storia prosegue imperterrito da anni.


di Marco Vigna 
Tale Camilleri è riuscito a cesellare un capolavoro d'insensatezza.
Al momento dell’Unità, le maggiori industrie tessili italiane erano domiciliate in Lombardia e Piemonte, mentre erano molto più deboli nel resto d’Italia. Le filande meridionali producevano in tutto un 3,3 % del totale della produzione nazionale, contro l'88 % del nord. Il totale dei fusi, limitandosi al cotone, era di 70.000 nelle Due Sicilie contro 383.000 del resto d'Italia.
Il divario si accentua per ragioni del tutto indipendenti dalla politica. Nel cinquantennio seguente cresce fortemente l’industria settentrionale, meccanizzata, che si può servire dell’energia idrica proveniente dai corsi d’acqua nutriti, d’estate, dai ghiacciai alpini. L’industria tessile centrale e meridionale era legata alle fibre vegetali tradizionali, che mal si prestavano alla lavorazione meccanica; si ridusse ancora di più proprio perché la lavorazione a mano diventò sempre più costosa.
S. FENOALTEA. «Peeking Backward: Regional Aspects of Industrial Growth in Post-Unification Italy», Journal of Economic History, vol. 63, no. 4, 2003, pp. 1059-1102; «Textile Production in Italy’s Regions, 1861-1913», Rivista di Storia Economica, vol. 20, n. 2, 2004, pp. 145-174.
Una considerazione andrebbe aggiunta sulla sericoltura, che fu la principale fonte delle esportazioni sia degli stati preunitari ottocenteschi, sia del regno d'Italia fino ad inizio Novecento, attestandosi mediamente attorno al 30% del valore complessivo delle esportazioni. Ebbene, la regione che fu per l'intero Ottocento la più importante nel settore fu la Lombardia. B. CAIZZI, Storia dell’industria italiana dal XVIII secolo ai giorni nostri, Torino 1965.

sabato 25 marzo 2023

I danni della pseudostoria

di Marco Vigna 

 La pseudostoria è una delle pseudoscienze ed è verosimilmente la più diffusa fra queste, perché concerne direttamente componenti politiche, ossia è strumentale a rivendicazioni e progetti di tale natura. Interi movimenti politici difatti sono stati fondati e sono attivi sulla base di pseudostorie. Nonostante le differenze di contenuti, di protagonisti, di temi e periodi storici, la pseudostoria ha alcuni fattori comuni, riassunti da Garrett G. Fagan nel suo saggio Archaeological Fantasies (Routledge, New York 2006), che riguarda in modo specifico la pseudoarcheologia. Riprendendo quanto scritto da Fagan e rielaborandolo, si possono individuare alcune componenti abituali nella pseudostoria.
  1.  È immancabilmente opera di semplici dilettanti, invariabilmente privi sia d’una preparazione culturale specifica, sia d’esperienza di ricerca storica. Spesso costoro sono privi persino di una formazione universitaria di qualsivoglia genere e nella loro esistenza hanno svolto professioni lontanissime da quella di storico. In Italia, fra celebri autori di pseudostoria si ritrovano uno sceneggiatore televisivo, un tabaccaio, un cantante, giornalisti esperti di cronaca nera o di calcio…
  2. Rifiuta ogni forma di confronto con la storiografia, che viene escluso accusando a priori e senza prove tutti gli storici d’essere falsari e mentitori consapevoli, perché intenzionati a nascondere una verità che loro stessi conoscerebbero ma che vorrebbero nascondere. Insomma, postula un gigantesco complotto degli storici, nonostante la sua inverosimiglianza, considerando che tale categoria professionale è diversificata per nazionalità, idee politiche, metodologie, istituti di ricerca etc. etc. etc. Ad esempio, in Italia il sedicente revisionismo del Risorgimento immagina fantasiosamente che esista una “storia ufficiale” i cui membri sarebbero parte, tutti, di una medesima congiura contro la verità. Tale complotto comprenderebbe quindi storici monarchici e repubblicani, fascisti, liberali, democratici, socialisti, comunisti, del Nord e del Sud, cattolici e laici, durante il regno d’Italia e durante la repubblica d’Italia, insomma proprio tutti nonostante le profondissime differenze biografiche, ideologiche ed anche metodologiche. Una variante del complotto della “storia ufficiale” è quella secondo cui "la storia la scrivono i vincitori". Si potrebbe scrivere un'intera monografia per spiegare quanto tale affermazione sia falsa, ma bastino pochi esempi. Scendiamo all’Antichità ed ai capolavori indiscussi dei suoi storici, modelli esemplari per tutti i loro eredi. Chi ha scritto della guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta, rendendola immortale? Tucidide, che era fra gli sconfitti ed aveva partecipato di persona alla guerra. Chi ha scritto meglio di tutti sulla II guerra punica e sulla salita di Roma a massima potenza del Mediterraneo? Polibio di Megalopoli, che finì a Roma come ostaggio dopo che la Grecia cadde sotto controllo romano. Chi ha scritto l’opera che è alla base della conoscenza della guerra giudaica fra Roma e l’insurrezione ebraica? Giuseppe Flavio, che fu il comandante dei ribelli. Chi ha descritto il fallimento del progetto di restaurazione pagana dell’imperatore Giuliano e la gravissima disfatta militare di Adrianopoli, in cui la miglior armata romana dell’epoca fu distrutta? Ammiano Marcellino, ufficiale romano di convinzioni pagane. Secondo il revisionismo del Risorgimento, la storia di tale periodo sarebbe stata “scritta dai vincitori”, dunque non rappresenterebbe la “vera storia del Sud”. Tuttavia, è sufficiente scorrere le bibliografie della saggistica universitaria sul Risorgimento per ritrovare un numero alto, se non maggioritario di storici risorgimentali che sono del Meridione. Anzi, coloro che sono ritenuti essere i maggiori studiosi del Risorgimento furono meridionali: Benedetto Croce, abruzzese e napoletano d'adozione, che fece in tempo a conoscere e frequentare vecchi borbonici; Gioacchino Volpe, abruzzese, che con L’Italia in cammino pose una pietra miliare nell’interpretazione del Risorgimento; Rosario Romeo, abitualmente ritenuto il più grande di tutti, autore di un capolavoro indiscusso come i tre ponderosi volumi di Cavour e il suo tempo, gigantesco ed accuratissimo affresco di un’intera epoca imperniata sul grande statista, era siciliano e, politicamente, un ferreo repubblicano; Alfonso Scirocco e Giuseppe Galasso, napoletanissimi. Nel periodo repubblicano, si può anzi dire che erano numerosissimi i libri di testo marxisti, insospettabili di simpatie ideologiche per la monarchia sabauda ed il liberalismo risorgimentale. Per portare un esempio concreto, per interi decenni le cattedre di storia contemporanea delle università italiane hanno visto una prevalenza di docenti di provenienza marxista, tutt’altro che disposti a simpatizzare per la monarchia dei Savoia ed il liberalismo e liberismo di Cavour e dei suoi eredi. Si noti ancora che la storiografia accademica sul Risorgimento italiano è solo in parte stata scritta da studiosi italiani, ed in buona misura da stranieri. Ad esempio, alcuni fra i maggiori biografi di Garibaldi sono stranieri. Si trovano fra di essi inglesi, tedeschi, russi, americani, uruguagi, brasiliani, persino un giapponese. A Tōkyō esiste infatti una sezione locale dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, retto dal prof. Fusatoshi Fujisawa dell'Universita Keizai, autore di molti saggi sulla figura del Nizzardo Lo stesso si può dire per la “questione meridionale", i cui principali storici sono di norma italiani del Sud, ma anche con il concorso di molti stranieri. Insomma, la storia studiata a scuola e nelle università non è stata scritta dai "vincitori" (anche perché nel secondo dopoguerra buona parte di essa è di provenienza marxista!), ma da una molteplicità di studiosi, correnti, scuole, prospettive ecc. La differenza fra essa ed il cosiddetto "revisionismo" consiste nel metodo, ovvero nel valore "scientifico" delle risultanze. Ad esempio, Garibaldi è stato studiato sotto diversi aspetti e si è giunti spesso ad interpretazioni discordanti della sua esistenza: questo però è radicalmente diverso dall'inventarsi fatti mai avvenuti (come fanno alcuni revisionisti) o nel ricostruire i fatti combinandoli a priori in modo da sostenere tesi preconcette. 
  3. La pseudostoria è costruita su ipotesi, che non sono prove. È caratteristico in essa l’interpretazione del conosciuto sulla base dello sconosciuto, ossia l’interpretazione forzata dei dati storici certi sulla base di ricostruzioni astratte ed a priori. Anziché partire dal conosciuto per raccordare gli elementi noti fra di loro ed elaborare una teoria, la pseudostoria postula a priori un’ipotesi astratta e fantasiosa, poi cerca forzatamente d’interpretare i fatti storici accertati sulla sua base. È caratteristico di questo grave errore di metodo la forzatura delle fonti, che sono omesse o rifiutate se in contrasto con l’ipotesi. Lo pseudostorico in modo sistematico o semplicemente le trascura, oppure sostiene che sono false, o che l’autore mente, o che si sbaglia. Inoltre lo pseudo storico tende ad erigere castelli in aria: formula un’ipotesi indimostrata, su cui puntella un’altra ipotesi indimostrata e così via. 
  4. La pseudostoria impiega l’espediente dell’inversione dell’onere della prova, per cui si domanda al critico di provare la falsità di quanto affermato, mentre invece principio fondamentale d’ogni scienza è che un’affermazione senza prove è priva di valore. Lo pseudostorico infila nel testo una sequela di asserzioni prive di ogni prova, senza fonti, pretendendole vere senza dimostrazione, ma invitando chi le contesti a dimostrarle false. 
  5. I suoi testi sono carichi di retorica e di appelli all’emotività. La pseudostoria cerca costantemente di suggestionare il lettore, anziché di provare quanto afferma. In altri termini, non potendo dimostrare razionalmente le sue asserzioni, si sforza di persuadere plagiando con l’irrazionalità. È tipico il caso di coloro che aizzano all’odio contro una categoria etnica, religiosa, sociale, che funge il ruolo di capro espiatorio per i problemi del gruppo di lettori a cui si rivolge lo pseudostorico. Il meccanismo, comunissimo ed elementare, risiede nel rivolgersi al gruppo A additando al gruppo B d’essere la causa dei mali del primo. Le mitologie pseudostoriche del genere della Lost Cause, come il mito asburgico, sono un’altra variante dell’uso ed abuso di un romanticismo mistificatorio. Un popolo, una società, uno stato, un gruppo politico ha subito una sconfitta politica e militare che ha segnato traumaticamente una cesura fra il prima ed il dopo. Gli sconfitti per dare un senso alla loro esperienza e cercare di sopravvivere quale comunità producono una cultura che si proclama continuazione di quella trascorsa anteriormente alla disfatta, ma che in realtà è l’esito proprio della frattura epocale. La nuova identità collettiva si costruisce non soltanto dopo ma attorno alla sconfitta. Una miscela variopinta di emozioni, aspirazioni fallite, nostalgia, collera verso i nemici, desideri di rivalsa, glorificazione dei propri protagonisti etc. sfocia in una idealizzazione del passato, trasfigurato romanticamente e rivisitato con l’omissione di tutte le componenti estranee al mito di un’età dell’oro. Ad esempio, dopo la sua scomparsa è sorto il mito dell’Old South anteriore alla guerra civile. Negli Usa si parla per questo della letteratura della Lost cause (la Causa perduta), il cui esempio più popolare è il romanzo Via col vento, da cui è stato tratta la pellicola omonima. Ma anche qui esiste un divario netto fra l’immagine mitizzata e quella reale.2 
  6. Affine al punto precedente è il ricorso ai giudizi soggettivi, che non sono neppure ipotesi indimostrate, ma appunto puri e semplici asserzioni soggettive. Lo pseudostorico riportandole si limita in ultima analisi ad esprimere suoi personali sentimenti. È come se scrivesse “questo mi piace” oppure “questo non mi piace”, soltanto in maniera più elaborata. Caratteristicamente, nella pseudostoria la figura dell’autore, che nella storiografia di norma scompare nel testo, campeggia invece in primo piano, in misura tale che talora acquista un ruolo preponderante. La sua biografia, le sue esperienze personali per necessità estremamente limitate (è così per ognuno), i suoi soggettivi sentimenti divengono la misura di tutte le cose.
  7. La pseudostoria, per tutte queste cause, sconfina nella letteratura in senso proprio, con una miscela di vero, verosimile ed inverosimile, la mescolanza di realtà e finzione che appartiene ai romanzi storici. Difatti, proprio i romanzi storici sono talora adoperati come fonti dagli pseudostorici e, cosa ancor più importante, alcuni celebri (o famigerati) testi di pseudostoria sono veri e propri romanzi. Restando in Italia, il capostipite del revisionismo del Risorgimento fu uno sceneggiatore televisivo, Carlo Alianello, con suoi quattro romanzi (L’Alfiere, Soldati del re, L’eredità della priora, La conquista del Sud), che sono alla base di tutta la posteriore corrente, in modo diretto od indiretto. Molte sue creazioni puramente letterarie sono state prese per autentiche dai suoi epigoni e spacciate quali storiche, con comica credulità. Infatti il successivo “revisionismo” ha scopiazzato largamente dal romanziere Alianello, da cui riprende gran parte delle proprie ipotesi fantasiose: il fantomatico complotto massonico contro il reame borbonico; l’altrettanto chimerico tradimento dei generali e degli ammiragli; il brigantaggio come sollevazione popolare contro i “piemontesi”; la presunta infelice sorte degli ex militari delle Due Sicilie; la decadenza economica del Mezzogiorno quale conseguenza dell’Unità ecc. Può dare un’idea dell’attendibilità e dello stile di questo novelliere basti accennare alla conclusione de La conquista del Sud, il capitolo Al chiaro di luna. L’autore si troverebbe di notte a Messina presso i ruderi della ex cittadella borbonica ed a questo punto avrebbe una visione, in cui gli apparirebbe il fuciliere Nicola Marturano del 1° reggimento Re. Costui è un fantasma che vaga a Messina, in uniforme e fucile, ma che non sa di essere morto. Quando infine gli viene rivelato da Alianello che è morto, appare in una visione l’intera guarnigione. Durante il colloquio fra Alianello e lo spettro, il romanziere racconta al fantasma che il generale Gennaro Fergola, ultimo comandante borbonico della cittadella, sarebbe stato insultato e fucilato da Cialdini dopo la resa. Visione spiritica a parte, Enrico Cialdini al momento della resa non insultò Fergola, ma anzi si complimentò con lui per la difesa prestata, tanto da concedergli ciò che si definisce resa con l’onore delle armi. Era usanza secolare nelle guerre europee che al momento della capitolazione di un esercito il suo comandante consegnasse la propria spada a quello nemico, che poteva accettarla oppure restituirla per onorare il vinto. È per questo che al generale borbonico fu permesso, in segno di stima e rispetto, di conservare la propria arma personale. Fergola inoltre non fu ucciso da Cialdini, poiché dopo un brevissimo periodo di prigionia fu congedato, con l’autorizzazione a conservare il proprio grado di generale ed una pensione corrisposta dallo stato italiano. Gennaro Fergola morì 10 (dieci) anni dopo la resa della piazzaforte di Messina, nel 1870. Vi sarebbe molto altro da aggiungere sulla pseudostoria, tuttavia i tratti sopra riportati possono ritenersi suoi tipici e si ritrovano regolarmente nei suoi esponenti. La pseudostoria ha sostanziale disinteresse per la storia in quanto tale, poiché essa diviene unicamente lo strumento per perseguire progetti politici oppure interessi personali, o magari entrambi, dei suoi fautori.

 Note 1. Si è avuto un dibattito sulla epistemologia delle pseudoscienze, inclusa la pseudostoria: D. Allchin, ‘Pseudohistory and Pseudoscience’, in Science & Education 13, 2004, pp. 179–195. David R. Hershey, Pseudohistory and Pseudoscience: Corrections to Allchin’s Historical, Conceptual and Educational Claims in Science & Education, 15, 2006, pp. 121-125. 2. K.B. Grant, G. Grant, Lost Causes: The Romantic Attraction of Defeated Yet Unvanquished Men and Movements, Nashville 1999, p. 13. Alan Nolan, The anatomy of the myth in Gary Gallagher-Alan Nolan (a cura di), The Myth of the Lost Cause and Civil War History, Bloomington (Indiana USA) 2010; Eduardo González Calleja-Carmine Pinto, Cause perdute. Memorie, rappresentazioni e miti dei vinti, in «Meridiana», n. 88, 2017, pp. 9–17.

venerdì 17 marzo 2023

162 anni di Italia ? No Molti , molti di più.


di Marco Vigna
La festa del 17 marzo commemora la data in cui fu proclamato il regno d’Italia nel 1861 sotto Vittorio Emanuele II. Si sente talora affermare che questo sarebbe l’inizio dell’Italia stessa, poiché secondo alcuni tale nazione non sarebbe esistita affatto in precedenza, o quantomeno non sarebbe esistito uno stato italiano. Simili visioni, care in particolar modo ai secessionisti o comunque a coloro che contestano lo stato nazionale predicandone la dissoluzione e la scomparsa, non hanno in realtà fondamento storico alcuno.
È appena il caso di precisare che nazione e stato non sono sinonimi e che la patria o gruppo etnico continua ad esistere qualunque sia la forma politica in cui si trova. L’Italia ha un’esistenza più che due volte millenaria che si esprime sul piano della lingua, dell’onomastica, della toponomastica, della letteratura, dell’architettura, dell’urbanistica, della musica, delle strutture giuridiche, della coscienza collettiva ecc. Essa non nasce quindi nel 1861, essendo pienamente esistente quantomeno dal I secolo avanti Cristo.
Non è neppure vero che l’Italia non fosse mai stata unita prima del Risorgimento. Il 17 marzo del 1861 è il momento in cui il regno d’Italia viene ad essere ufficialmente e giuridicamente ri-costituito, non costituito, poiché esso era già esistito in precedenza e per lunghi secoli. Prima ancora del medievale regno d’Italia questa regione e la sua nazione italiana erano state ambedue unificate da Roma antica per un periodo plurisecolare.
L’Italia viene ad essere unificata sul piano giuridico già sotto l’imperatore romano Ottaviano Augusto, il quale così facendo non fa altro che riconoscere l’ormai raggiunta unità culturale ed etnica nella penisola. Questa unificazione legislativa ed amministrativa permane per tutti i secoli seguenti, anche dopo il 476 che alcuni pongono come fine dell’impero romano d’Occidente.
La famosissima deposizione di Romolo Augustolo non equivaleva per nulla, né formalmente, né nelle intenzioni d’Odoacre, alla fine dell’impero, bensì alla sua ricostituzione. Essa coincideva comunque con la costituzione di un “regnum Italiae”, il cui sovrano era Odoacre, corrispondente all’antico ager Romanus, ossia alla prefettura d’Italia ovvero alla diocesi italiana.
Il regnum Italiae continua ad esistere anche sotto i Goti. Il sovrano goto è assieme rex Gothorum (intendendo ciò alla maniera del diritto germanico, che non era territoriale) e rex Italiae (intendendo ciò secondo il diritto romano), ossia sovrano del popolo dei Goti ed assieme sovrano dell’Italia.
Questa distinzione ricompare anche sotto i Longobardi. Questi appartenevano alla famiglia detta dei Germani orientali ed erano, fra tutte le popolazioni germaniche, le meno assimilate alla civiltà romana al momento della loro invasione (oltre che le meno germaniche di tutte le popolazioni germaniche, poiché largamente imbevute di cultura turco-mongola e di sciamanesimo). L’irruzione dei Longobardi in Italia segnò una vera frattura nella storia della penisola, sia perché pose termine sino al XIX secolo alla sua unità politica (mantenutasi ininterrotta dal II secolo a.C.), sia perché sconvolse le strutture politiche, economiche, sociali, culturali ancora conservatesi profondamente tardo antiche. I Longobardi però erano numericamente assai pochi e con una cultura di molto inferiore a quella degli autoctoni, cosicché nel giro di poche generazioni andarono incontro ad un rapido processo di latinizzazione ed assieme di cattolicizzazione (praticamente sinonimi nell’Italia dell’epoca). I loro primi sovrani si definivano rex Langobardorum (intendendo ciò alla maniera germanica), ma si noti che i romanici in territorio longobardo, purché di condizione libera, s’amministravano secondo il diritto romano. Ben presto però, sopraggiunta una prima romanizzazione, Agilulfo (che non era nemmeno di stirpe longobarda, essendo un turingio) si proclamò “gratia Dei rex totius Italiae”. Era il 604 d.C., quindi erano passati meno di quarant’anni dall’invasione in Italia (avvenuta nel 568). La proclamazione avvenne introducendo anche pratiche di corte ispirate a quelle in uso nell’impero romano d’Oriente e su sollecitazione di consiglieri latini. Agilulfo rimaneva rex Langobardorum (alla maniera germanica), ma si proclamava anche rex Italiae (questa volta secondo il diritto romano). L’Italia infatti era sempre rimasta nel sistema giuridico romano regione a sé stante, distinta dalle altre dell’impero, sin dai tempi d’Augusto. Sebbene avesse perduto ogni privilegio nel corso del III secolo d.C., pure era sempre rimasta amministrativamente e giuridicamente separate dalle altre “prefetture” (Galliae, Hispaniae, Grecia ecc.). Proclamandosi rex Italiae, Agilulfo si rifaceva a questa tradizione storica e giuridica.
I longobardi, ormai pressoché completamente italianizzatisi e romanizzatisi, si proposero anzi quale obiettivo fondamentale della propria azione politica la riunificazione dell’Italia, ossia del regnum Italiae: il monarca “longobardo” ad un certo punto prese a definirsi “rex totius Italiae”, re di tutta l’Italia. Tre sovrani, Liutprando, Astolfo e Desiderio, tentarono questa impresa, fallendo soltanto per la capacità del vescovo di Roma di servirsi della propria autorità spirituale e religiosa per scagliargli contro invasioni straniere, ossia i Franchi.
Il concetto e l’istituto di regno d’Italia si ripresenta anche sotto il dominio franco. Carlo Magno, conquistata Pavia, si proclama Gratia Dei rex Francorum et Langobardorum, ma è anche rex Italiae (781). Proprio con Carlo Magno si ha un passo giuridico fondamentale nella storia di questo “regno”, poiché il sovrano dei Franchi e dei Longobardi facendosi proclamare imperatore (romano), rivendica per sé il titolo di sovrano universale (non re di un dato popolo: la distinzione è basilare). Egli fa ciò anche perché rex Italiae, in quanto il sovrano dell’Italia, patria di Roma e culla dell’antico impero, ha diritto al titolo imperiale.
Il regnum Italiae conserva i suoi istituti politici, amministrativi e giuridici, anche sotto la dominazione carolingia, ma finisce coinvolto come tutti gli altri organismi politici dell’Occidente medievale nella crisi del IX secolo, con una progressiva frammentazione e disarticolazione delle sue strutture a beneficio di poteri locali. Ma continuare ad esistere l’idea di una Italia distinta dai territori transalpini: «Riguardo al regno d’Italia, la nozione di un confine che lo distinguesse dai regni di Germania e di Borgogna rimase, nonostante l’unione dinastica sotto un unico re» [Giovanni Tabacco, Giovanni Grado Merlo, “Medioevo”, Bologna 1989, p. 202]
È nell’Alto Medioevo che si ha comunque un importante tentativo politico di riunificare l’Italia, ad opera di Arduino d’Ivrea, che si proclamò rex Italiae nell’anno 1000, fu incoronato a Pavia nel 1002 e continuò con alterne vicende a perseguire il suo progetto sino al 1014, fallendo soltanto per l’opposizione della Chiesa, che si alleò con principi germanici.
Il titolo di rex Italiae ed il correlato regnum Italiae continuarono però ad esistere anche nei secoli successivi. L’impero romano per gli uomini del Medioevo, non era scomparso, ma continuava ad esistere, soltanto in forma mutata. Semplificando al massimo grado per ragioni di sintesi, l’imperium era ritenuto essere stato ordinato da Dio stesso per l’umanità intera ed avrebbe continuato ad esistere sino alla fine dei tempi. L’imperatore quindi non era sovrano soltanto d’alcuni territori, ma di tutta la terra. Di fatto però, era evidente che l’autorità dell’imperatore era riconosciuta solo in alcune regioni e, si badi bene, non perché imperatore, ma in quanto principe, duca ecc. di determinati territori. Il titolo imperiale però era collegato, sempre e necessariamente, a quello di rex Italiae, poiché l’Italia era il centro dell’impero con Roma. Non è un caso che un altro tentativo di ripristinare l’unità politica della nazione italiana avvenne con Federico II di Svevia, che a detta di
Ernst Kantorowicz
, suo massimo biografo, pensava a sé stesso come “romano” e che fu sia fra i patrocinatori della riscoperta dell’antico, sia fra i promotori dell’italiano letterario. Questo sovrano progettava l’“unio regni et imperi”, ossia l’unione del regnum Italiae in senso stretto, che le vicissitudini storiche avevano portato a comprendere soltanto la maggior parte dell’Italia centro-settentrionale, ed il più giovane regnum Siciliae, sorto solo nel secolo XI.
Seppure solo sul piano simbolico e formale, il regnum Italiae conservò la sua esistenza anche nell’evo moderno, tanto che la famosa Corona Ferrea venne usata dal VI secolo sino al XIX per l'incoronazione dei re d'Italia.
Con buona pace dei separatisti o comunque di coloro che negano l'esistenza della nazione italiana, essa esiste da oltre 2000 anni e la consapevolezza di questo non è mai venuta meno, neppure durante il periodo di frammentazione politica.