giovedì 30 marzo 2023

Il cattivo vezzo dei romanzieri di mettersi a pontificare sulla storia prosegue imperterrito da anni.


di Marco Vigna 
Tale Camilleri è riuscito a cesellare un capolavoro d'insensatezza.
Al momento dell’Unità, le maggiori industrie tessili italiane erano domiciliate in Lombardia e Piemonte, mentre erano molto più deboli nel resto d’Italia. Le filande meridionali producevano in tutto un 3,3 % del totale della produzione nazionale, contro l'88 % del nord. Il totale dei fusi, limitandosi al cotone, era di 70.000 nelle Due Sicilie contro 383.000 del resto d'Italia.
Il divario si accentua per ragioni del tutto indipendenti dalla politica. Nel cinquantennio seguente cresce fortemente l’industria settentrionale, meccanizzata, che si può servire dell’energia idrica proveniente dai corsi d’acqua nutriti, d’estate, dai ghiacciai alpini. L’industria tessile centrale e meridionale era legata alle fibre vegetali tradizionali, che mal si prestavano alla lavorazione meccanica; si ridusse ancora di più proprio perché la lavorazione a mano diventò sempre più costosa.
S. FENOALTEA. «Peeking Backward: Regional Aspects of Industrial Growth in Post-Unification Italy», Journal of Economic History, vol. 63, no. 4, 2003, pp. 1059-1102; «Textile Production in Italy’s Regions, 1861-1913», Rivista di Storia Economica, vol. 20, n. 2, 2004, pp. 145-174.
Una considerazione andrebbe aggiunta sulla sericoltura, che fu la principale fonte delle esportazioni sia degli stati preunitari ottocenteschi, sia del regno d'Italia fino ad inizio Novecento, attestandosi mediamente attorno al 30% del valore complessivo delle esportazioni. Ebbene, la regione che fu per l'intero Ottocento la più importante nel settore fu la Lombardia. B. CAIZZI, Storia dell’industria italiana dal XVIII secolo ai giorni nostri, Torino 1965.

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