martedì 30 luglio 2024
Il regno delle Due Sicilie ossia il sistematico sfruttamento delle province a vantaggio di Napoli.
di Marco Vigna
Il regno delle Due Sicilie era caratterizzato da un duplice marcato squilibrio, insieme sociale e territoriale: 1) la stragrande maggioranza delle terre era di proprietà di latifondisti, per cui esistevano pochi ricchissimi ed una massa sterminata di braccianti e mezzadri poverissimi; 2) Napoli e la sua immediata conurbazione concentravano in sé il grosso delle risorse disponibili.
Scrisse lo storico napoletano (nativo di Pozzuoli) Giuseppe Galasso, massimo esperto della storia del regno di Napoli:
«Accentramento burocratico e giudiziario, concentrazione residenziale della nobiltà e della migliore borghesia, monopolio degli studi universitari, sicurezza annonaria, prezzo politico del pane, esenzioni fiscali e giurisdizionali, possesso dell’unico grande porto del paese, convergenza del grande commercio e del commercio con l’estero, concentrazione di direzione di istituti religiosi e ancora altri fattori…» [G. Galasso, Napoli, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. XII. ]
Due dati di ordine quantitativo possono rendere ragione del divario e della sua genesi dovuta alle politiche governative: la distribuzione del circolante; il residuo fiscale ossia la differenza fra quanto lo stato estraeva da una regione tramite il fisco e quanto spendeva in essa.
Si è calcolato che nel 1833 nella parte continentale del regno, dunque esclusa la Sicilia, vi fosse una circolazione monetaria di 20 milioni di ducati circa. Fra questi, 14 milioni di ducati si trovavano concentrati a Napoli, i restanti 6 milioni erano sparsi fra Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria, Salernitano, Irpinia, Sannio, Lazio meridionale.
Le province, in cui abitavano avevano appena il 30% del circolante. Napoli aveva invece il 70% del circolante. [G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, Milano 1975 vol. II, pp.327-328]
Secondo l’Atlante Corografico Storico e Statistico del Regno delle Due Sicilie di Benedetto Marzollo (Reale Litografia Militare, 1832), nel 1832 il regno delle Due Sicilie nella parte continentale (esclusa quindi la Sicilia) aveva 5.727.141 abitanti, di cui 357.273 residenti a Napoli. Perciò, vi sarebbero stati 4 milioni di ducati per 5.369.868 abitanti e 16 milioni per 357.273, rispettivamente 0,7 ducati pro capite nelle province e 45 ducati pro capite a Napoli. In altri termini, il patrimonio finanziario pro capite di Napoli era 64 (sessantaquattro) volte quello delle province.
Il residuo fiscale era dicotomico fra le province e Napoli, con un flusso di denaro costante che il regime borbonico trasferì da tutto il Mezzogiorno verso la capitale. Lo stato borbonico dal 1816 al 1859 spese per la capitale 380 milioni di ducati in più di quanto aveva incassato da essa con tasse ed imposte. La differenza fu ricoperta dalle province, che per tutto questo periodo versarono allo stato tramite la leva fiscale più denaro di quanto ne tornasse indietro come spesa. (su questo si rinvia Nicola Ostuni, “Finanza ed economia nel regno delle Due Sicilie”, Napoli, Liguori, 1992, specie pp. 325 sgg.)
Le cifre sono le seguenti. Napoli ricevette dal 1816 al 1859 una spesa superiore dell’86% a quanto aveva versato. Le province invece ebbero per lo stesso periodo una spesa statale inferiore a quanto versato secondo le seguenti percentuali:
Terra di lavoro: - 32%
Abruzzo Ultra I: -68%
Abruzzo Ultra II: - 63%
Abruzzo Citra: -64%
Principato Citra: -57%
Principato Ultra: -82,19%
Molise: - 84%
Capitanata: - 76%
Terra di Bari: - 84%
Terra d’Otranto: -80%
Basilicata: - 81%
Calabria Citra: - 67%
Calabria Ultra I: -77%
Calabria Ultra II: -62%
Il Molise e la Terra di Bari furono le regioni più sfruttate, perché videro l’84% del loro prelievo fiscale dirottato su Napoli, con appena il 16% restituito come spesa pubblica. La Terra di Lavoro fu la meno sfruttata, con una differenza di “appena” il 32%. Però, con la sola eccezione proprio della Terra di Lavoro, tutte le province del Sud ebbero la maggioranza assoluta del denaro da esse pagato come tasse ed imposte inviato a Napoli.
Va aggiunta per una migliore comprensione la spesa pubblica pro capite nelle Due Sicilie sempre negli anni 1816-1859. Riportando soltanto i due estremi della forbice di spesa:
Napoli: 1100 ducati
Terra di Lavoro: 71 ducati;
Principato Citra: 55 ducati;
Calabria Ultra II: 50 ducati;
Abruzzo Ultra I: 8 ducati
Allora per ogni abitante di Napoli in media lo stato borbonico spese 1100 ducati, per la Terra di Lavora (al secondo posto in questa classifica) appena 71, mentre al fondo si trovava l’Abruzzo Ultra I con appena 8.
Il privilegio sistematico di Napoli rispetto alle province nel regno delle Due Sicilie era evidenziato anche da altri fattori, dalla concentrazione di tutte le istituzioni nella capitale alla selezione del personale politico ed amministrativo, ma i dati suddetti già lo provano. Anche la Sicilia fu assoggetta a tale pesante discriminazione a favore della capitale, tuttavia la sua condizione fu un caso a sé stante nell’ordinamento delle Due Sicilie.
Si può concludere con due osservazioni. Primo, lo sfruttamento delle province, tutte senza eccezioni, a vantaggio di Napoli fu sistematico e strutturale, facendo affluire al centro la maggioranza assoluta del prelievo fiscale del regno e provocando un divario abissale di spesa pro capite. Secondo, l’assorbimento del grosso della spesa pubblica sulla sola capitale ed a beneficio della minuscola classe dominante, essenzialmente parassitaria, fu improduttivo e danneggiò anche sul medio e lungo periodo l’intero Sud, lasciato privo degli investimenti, specie d’infrastrutture ed istruzione, di cui necessitava per una modernizzazione.
mercoledì 13 marzo 2024
Giuseppe Massari e la "questione meridionale
A 140 anni dalla morte di Giuseppe Massari (11 agosto 1821 – Roma, 13 marzo†1884) occorre ricordarne la memoria e tracciarne un serio bilancio.
Tarantino di nascita, prima giovane patriota, poi segretario personale di Cavour negli anni cruciali dell'impresa unitaria, deputato al Parlamento subalpino, Massari fu incaricato di stendere una «Relazione sulle cause del brigantaggio nel Mezzogiorno» presentata poi alla Camera nel 1863. Quello che segue è solo un estratto della predetta Relazione.
« Nel comitato segreto del 16 dicembre 1862 ci veniva commesso l'incarico di riferire intorno alle cause ed allo stato del brigantaggio nelle province napolitane, e intorno ai più acconci provvedimenti che fossero a prendersi dal Parlamento e da suggerire al governo per la più efficace repressione di esso. In conformità di quest'incarico noi veniamo oggi a dirvi quali siano, a senso nostro, le cause del brigantaggio, quale il suo stato attuale, e quali i diversi provvedimenti che Governo e Parlamento debbono prendere non solo per reprimere gli effetti immediati del male, ma anche per rimuoverne le cause, e prevenirne in tal guisa il possibile rinnovamento. incominciamo dalle cagioni. ( ... ) Facil cosa è dire che il brigantaggio si è manifestato nelle province meridionali a motivo della crisi politica ivi succeduta; con ciò si enuncia il motivo più visibile del doloroso fatto, ma si rimangono nell'ombra le ragioni sostanziali( ... ) La prima domanda che spontanea sorgeva nell'animo nostro era la seguente: il brigantaggio che da tre anni contrista le province continentali del mezzodì dell'Italia, è conseguenza esclusiva del cangiamento politico avvenuto nel 1860, oppure questo cangiamento è stato soltanto un'occasione dalla quale lo sviluppamento del brigantaggio è stato determinato? ( ... )Gl'influssi della crisi politica non potevano essere, non sono stati diversi nelle diverse province dell'ex reame napolitano: se dunque in ogni caso la loro azione è stata identica, gli effetti avrebbero pure dovuto essere i medesimi in ognuna di quelle province, e queste avrebbero perciò dovuto essere allo stesso grado infestate dal brigantaggio. La conclusione è strettamente logica: ma il fatto la contraddice, poiché è indubitato che mentre in alcune province il brigantaggio ha infierito e ha raggiunto terribili proporzioni, come, a cagion d'esempio, in Capitanata e in Basilicata, in altre, come le Calabrie, o non ha allignato molto, o tutto al più si è astretto in angusti limiti. Per rendere ragione di questo contrasto è dunque mestieri supporre o che la crisi politica non abbia avuto nessun influsso in alcune province emolto in altre, oppure che le rispettive condizioni di quelle province non essendo identiche gli effetti della crisi siano stati diversi.La prima di queste ipotesi non regge all'esame: il rivolgimento politico essendo unico nella sua essenza e nella sua origine non poteva non tramandare i suoi influssi alla stessa guisa e con la medesima efficacia in tutte le località, e quindi sarebbe all'intutto gratuito e assurdo il supporre e l'asserire che questi influssi si manifestassero e fossero attivissimi a Foggia ed a Potenza, latenti od inerti a Catanzaro ed a Reggio.La ragione del divario va dunque ricercata altrove, e propriamente nella diversità delle condizioni delle varie province ( ... ). Il brigantaggio se ha pigliato le mosse dal mutamento politico, ripete però la sua origine intrinseca da una condizione di cose preesistente a quel mutamento, e che i nostri liberi istituti debbono assolutamente distruggere e cangiare. Molto acconciamente è stato detto e ripetuto essere il brigantaggio il fenomeno, il sintomo di un male profondo ed antico: questo paragone desunto dall'arte medica regge pienamente, ed alla stessa guisa che nell'organismo umano le malattie derivano da cause immediate e da cause predisponenti, la malattia sociale, di cui il brigantaggio è il fenomeno, è originata anch'essa dallo stesso duplice ordine di cause. Le prime adunque cause del brigantaggio sono le cause predisponenti. E, prima fra tutte, la condizione sociale, lo stato economico del campagnuolo, che in quelle province appunto, dove il brigantaggio ha raggiunto proporzioni maggiori, è assai infelice. Quella piaga della moderna società che è il proletariato ivi appare più ampia che altrove. Il contadino non ha nessun vincolo che lo stringa alla terra. La sua condizione è quella del vero nullatenente, e quand'anche la mercede del suo lavoro non fosse tenue, il suo stato economico non ne sperimenterebbe miglioramento.Dove il sistema delle mezzerie è in vigore, il numero dei proletari di campagna è scarso; ma là dove si pratica la grande coltivazione, sia nell'interesse del proprietario, sia in quello del fittaiolo, il numero dei proletari è necessariamente copioso. A Foggia, a Cerignola, a San Marco in Lamis hanno un ceto di popolazione, addimandato col nome di terrazzani, che non possiede assolutamente nulla e che vive di rapina.Nella sola città di Foggia i terrazzani assommano ad alcune migliaia. Grande coltura: nessun colono: e molta gente che non sa come fare per lucrarsi la vita. «I terrazzani ed i cafoni -ci diceva il direttore del demanio e tasse della provincia di Foggia -, hanno pane di tal qualità che non ne mangerebbero i cani». Tanta miseria e tanto squallore sono naturale apparecchio al brigantaggio. La vita del brigante abbonda di attrattive per il povero contadino, il quale, ponendola a confronto con la vita stentata e misera che egli è condannato a menare, non inferisce di certo dal paragone conseguenze propizie all'ordine sociale. Il contrasto è terribile, e non è da maravigliare se nel maggior numero dei casi il fascino della tentazione a male operare sia irresistibile. I cattivi consigli della miseria, non temperati dalla istruzione e dalla educazione, non infrenati da quella religione grossolana che si predica alle moltitudini, avvalorati dallo spettacolo del cattivo esempio, prevalgono presso quegl'infelici, e l'abito a delinquere diventa seconda natura. La fioca voce del senso morale è soffocata, e il furto anziché destare ripugnanza appare mezzo facile e legittimo di sussistenza e di guadagno, ond'è che sorgendo dall'occasione l'impulso al brigantaggio le sue fila non indugiano ad essere ingrossate. Su 375 briganti che si trovavano il giorno 15 aprile nelle carceri della provincia di Capitanata, 293 appartengono al misero ceto dei così detti braccianti. Là invece dove le relazioni tra il proprietario e il contadino sono migliori, là dove questi non è in condizione nomade ed è legato alla terra in qual si voglia modo, ivi il brigantaggio può, manifestandosi, allettare i facinorosi, che non mancano in nessuna parte del mondo, ma non può gettare radici profonde ed è con maggiore agevolezza distrutto.La condizione di cose, della quale siamo venuti fin qui discorrendo, ci sembra porgere in modo non equivoco la nozione di una delle cause che con maggiore efficacia generano fatalmente in alcune province meridionali la funesta predisposizione al brigantaggio. Il sistema feudale spento dal progredire della civiltà e dalle prescrizioni delle leggi ha lasciato una eredità che non è ancora totalmente distrutta; sono reliquie d'ingiustizie secolari che aspettano ancora di essere annientate. I baroni non sono più ma la tradizione dei loro soprusi e delle loro prepotenze non è ancora cancellata, e in parecchie delle località che abbiamo nominate l'attuale proprietario non cessa dal rappresentare agli occhi del contadino l'antico signore feudale. Il contadino sa che le sue fatiche non gli fruttano benessere né prosperità; sa che il prodotto della terra innaffiata dai suoi sudori non sarà suo; si vede e si sente condannato a perpetua miseria e l'istinto della vendetta sorge spontaneo nell'animo suo. L'occasione si presenta; egli non se la lascia sfuggire; si fa brigante; richiede alla forza quel benessere, quella prosperità che la forza gli vieta di conseguire, ed agli onesti e mal ricompensati sudori del lavoro preferisce i disagi fruttiferi della vita del brigante. Il brigantaggio diventa in tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie.»
Diario
Massari descrisse dettagliatamente gli eventi politici e sociali dell’epoca, le sue esperienze personali e le sue riflessioni sui protagonisti del movimento risorgimentale. Inoltre narrò le difficoltà e le speranze dei patrioti italiani, le lotte per l’unificazione e le tensioni interne tra le diverse fazioni politiche. Il diario fu anche una fonte importante per comprendere il clima culturale e intellettuale del tempo, con riferimenti a incontri con figure di spicco come Cavour, Garibaldi e Mazzini. In particolare, egli dedicò ampio spazio alla questione del brigantaggio nel Sud Italia, analizzando le cause e le conseguenze di questo fenomeno e criticando le politiche repressive adottate dal governo.
Su Garibaldi
Inizialmente, Massari ebbe delle riserve sull"'eroe dei due mondi", considerandolo un’incognita di cui poco fidarsi. Tuttavia, con il passare del tempo, modificò il suo giudizio riconoscendo in lui un “capitano valoroso”, capace di ispirare ammirazione e fiducia. Nel suo diario, Giuseppe Massari rappresentò Giuseppe Garibaldi come una figura complessa e affascinante. Massari ne apprezzò il coraggio e la determinazione, sottolineandone il ruolo cruciale nelle campagne militari che contribuirono all’unificazione dell’Italia. Nonostante le iniziali diffidenze, Massari ne riconobbe l’importanza delle azioni militari per il successo del movimento risorgimentale e per la causa dell’unità nazionale. La relazione tra Giuseppe Massari e Giuseppe Garibaldi durante il Risorgimento fu complessa e caratterizzata da una certa evoluzione nel tempo.
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