giovedì 30 marzo 2023

Il cattivo vezzo dei romanzieri di mettersi a pontificare sulla storia prosegue imperterrito da anni.


di Marco Vigna 
Tale Camilleri è riuscito a cesellare un capolavoro d'insensatezza.
Al momento dell’Unità, le maggiori industrie tessili italiane erano domiciliate in Lombardia e Piemonte, mentre erano molto più deboli nel resto d’Italia. Le filande meridionali producevano in tutto un 3,3 % del totale della produzione nazionale, contro l'88 % del nord. Il totale dei fusi, limitandosi al cotone, era di 70.000 nelle Due Sicilie contro 383.000 del resto d'Italia.
Il divario si accentua per ragioni del tutto indipendenti dalla politica. Nel cinquantennio seguente cresce fortemente l’industria settentrionale, meccanizzata, che si può servire dell’energia idrica proveniente dai corsi d’acqua nutriti, d’estate, dai ghiacciai alpini. L’industria tessile centrale e meridionale era legata alle fibre vegetali tradizionali, che mal si prestavano alla lavorazione meccanica; si ridusse ancora di più proprio perché la lavorazione a mano diventò sempre più costosa.
S. FENOALTEA. «Peeking Backward: Regional Aspects of Industrial Growth in Post-Unification Italy», Journal of Economic History, vol. 63, no. 4, 2003, pp. 1059-1102; «Textile Production in Italy’s Regions, 1861-1913», Rivista di Storia Economica, vol. 20, n. 2, 2004, pp. 145-174.
Una considerazione andrebbe aggiunta sulla sericoltura, che fu la principale fonte delle esportazioni sia degli stati preunitari ottocenteschi, sia del regno d'Italia fino ad inizio Novecento, attestandosi mediamente attorno al 30% del valore complessivo delle esportazioni. Ebbene, la regione che fu per l'intero Ottocento la più importante nel settore fu la Lombardia. B. CAIZZI, Storia dell’industria italiana dal XVIII secolo ai giorni nostri, Torino 1965.

sabato 25 marzo 2023

I danni della pseudostoria

di Marco Vigna 

 La pseudostoria è una delle pseudoscienze ed è verosimilmente la più diffusa fra queste, perché concerne direttamente componenti politiche, ossia è strumentale a rivendicazioni e progetti di tale natura. Interi movimenti politici difatti sono stati fondati e sono attivi sulla base di pseudostorie. Nonostante le differenze di contenuti, di protagonisti, di temi e periodi storici, la pseudostoria ha alcuni fattori comuni, riassunti da Garrett G. Fagan nel suo saggio Archaeological Fantasies (Routledge, New York 2006), che riguarda in modo specifico la pseudoarcheologia. Riprendendo quanto scritto da Fagan e rielaborandolo, si possono individuare alcune componenti abituali nella pseudostoria.
  1.  È immancabilmente opera di semplici dilettanti, invariabilmente privi sia d’una preparazione culturale specifica, sia d’esperienza di ricerca storica. Spesso costoro sono privi persino di una formazione universitaria di qualsivoglia genere e nella loro esistenza hanno svolto professioni lontanissime da quella di storico. In Italia, fra celebri autori di pseudostoria si ritrovano uno sceneggiatore televisivo, un tabaccaio, un cantante, giornalisti esperti di cronaca nera o di calcio…
  2. Rifiuta ogni forma di confronto con la storiografia, che viene escluso accusando a priori e senza prove tutti gli storici d’essere falsari e mentitori consapevoli, perché intenzionati a nascondere una verità che loro stessi conoscerebbero ma che vorrebbero nascondere. Insomma, postula un gigantesco complotto degli storici, nonostante la sua inverosimiglianza, considerando che tale categoria professionale è diversificata per nazionalità, idee politiche, metodologie, istituti di ricerca etc. etc. etc. Ad esempio, in Italia il sedicente revisionismo del Risorgimento immagina fantasiosamente che esista una “storia ufficiale” i cui membri sarebbero parte, tutti, di una medesima congiura contro la verità. Tale complotto comprenderebbe quindi storici monarchici e repubblicani, fascisti, liberali, democratici, socialisti, comunisti, del Nord e del Sud, cattolici e laici, durante il regno d’Italia e durante la repubblica d’Italia, insomma proprio tutti nonostante le profondissime differenze biografiche, ideologiche ed anche metodologiche. Una variante del complotto della “storia ufficiale” è quella secondo cui "la storia la scrivono i vincitori". Si potrebbe scrivere un'intera monografia per spiegare quanto tale affermazione sia falsa, ma bastino pochi esempi. Scendiamo all’Antichità ed ai capolavori indiscussi dei suoi storici, modelli esemplari per tutti i loro eredi. Chi ha scritto della guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta, rendendola immortale? Tucidide, che era fra gli sconfitti ed aveva partecipato di persona alla guerra. Chi ha scritto meglio di tutti sulla II guerra punica e sulla salita di Roma a massima potenza del Mediterraneo? Polibio di Megalopoli, che finì a Roma come ostaggio dopo che la Grecia cadde sotto controllo romano. Chi ha scritto l’opera che è alla base della conoscenza della guerra giudaica fra Roma e l’insurrezione ebraica? Giuseppe Flavio, che fu il comandante dei ribelli. Chi ha descritto il fallimento del progetto di restaurazione pagana dell’imperatore Giuliano e la gravissima disfatta militare di Adrianopoli, in cui la miglior armata romana dell’epoca fu distrutta? Ammiano Marcellino, ufficiale romano di convinzioni pagane. Secondo il revisionismo del Risorgimento, la storia di tale periodo sarebbe stata “scritta dai vincitori”, dunque non rappresenterebbe la “vera storia del Sud”. Tuttavia, è sufficiente scorrere le bibliografie della saggistica universitaria sul Risorgimento per ritrovare un numero alto, se non maggioritario di storici risorgimentali che sono del Meridione. Anzi, coloro che sono ritenuti essere i maggiori studiosi del Risorgimento furono meridionali: Benedetto Croce, abruzzese e napoletano d'adozione, che fece in tempo a conoscere e frequentare vecchi borbonici; Gioacchino Volpe, abruzzese, che con L’Italia in cammino pose una pietra miliare nell’interpretazione del Risorgimento; Rosario Romeo, abitualmente ritenuto il più grande di tutti, autore di un capolavoro indiscusso come i tre ponderosi volumi di Cavour e il suo tempo, gigantesco ed accuratissimo affresco di un’intera epoca imperniata sul grande statista, era siciliano e, politicamente, un ferreo repubblicano; Alfonso Scirocco e Giuseppe Galasso, napoletanissimi. Nel periodo repubblicano, si può anzi dire che erano numerosissimi i libri di testo marxisti, insospettabili di simpatie ideologiche per la monarchia sabauda ed il liberalismo risorgimentale. Per portare un esempio concreto, per interi decenni le cattedre di storia contemporanea delle università italiane hanno visto una prevalenza di docenti di provenienza marxista, tutt’altro che disposti a simpatizzare per la monarchia dei Savoia ed il liberalismo e liberismo di Cavour e dei suoi eredi. Si noti ancora che la storiografia accademica sul Risorgimento italiano è solo in parte stata scritta da studiosi italiani, ed in buona misura da stranieri. Ad esempio, alcuni fra i maggiori biografi di Garibaldi sono stranieri. Si trovano fra di essi inglesi, tedeschi, russi, americani, uruguagi, brasiliani, persino un giapponese. A Tōkyō esiste infatti una sezione locale dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, retto dal prof. Fusatoshi Fujisawa dell'Universita Keizai, autore di molti saggi sulla figura del Nizzardo Lo stesso si può dire per la “questione meridionale", i cui principali storici sono di norma italiani del Sud, ma anche con il concorso di molti stranieri. Insomma, la storia studiata a scuola e nelle università non è stata scritta dai "vincitori" (anche perché nel secondo dopoguerra buona parte di essa è di provenienza marxista!), ma da una molteplicità di studiosi, correnti, scuole, prospettive ecc. La differenza fra essa ed il cosiddetto "revisionismo" consiste nel metodo, ovvero nel valore "scientifico" delle risultanze. Ad esempio, Garibaldi è stato studiato sotto diversi aspetti e si è giunti spesso ad interpretazioni discordanti della sua esistenza: questo però è radicalmente diverso dall'inventarsi fatti mai avvenuti (come fanno alcuni revisionisti) o nel ricostruire i fatti combinandoli a priori in modo da sostenere tesi preconcette. 
  3. La pseudostoria è costruita su ipotesi, che non sono prove. È caratteristico in essa l’interpretazione del conosciuto sulla base dello sconosciuto, ossia l’interpretazione forzata dei dati storici certi sulla base di ricostruzioni astratte ed a priori. Anziché partire dal conosciuto per raccordare gli elementi noti fra di loro ed elaborare una teoria, la pseudostoria postula a priori un’ipotesi astratta e fantasiosa, poi cerca forzatamente d’interpretare i fatti storici accertati sulla sua base. È caratteristico di questo grave errore di metodo la forzatura delle fonti, che sono omesse o rifiutate se in contrasto con l’ipotesi. Lo pseudostorico in modo sistematico o semplicemente le trascura, oppure sostiene che sono false, o che l’autore mente, o che si sbaglia. Inoltre lo pseudo storico tende ad erigere castelli in aria: formula un’ipotesi indimostrata, su cui puntella un’altra ipotesi indimostrata e così via. 
  4. La pseudostoria impiega l’espediente dell’inversione dell’onere della prova, per cui si domanda al critico di provare la falsità di quanto affermato, mentre invece principio fondamentale d’ogni scienza è che un’affermazione senza prove è priva di valore. Lo pseudostorico infila nel testo una sequela di asserzioni prive di ogni prova, senza fonti, pretendendole vere senza dimostrazione, ma invitando chi le contesti a dimostrarle false. 
  5. I suoi testi sono carichi di retorica e di appelli all’emotività. La pseudostoria cerca costantemente di suggestionare il lettore, anziché di provare quanto afferma. In altri termini, non potendo dimostrare razionalmente le sue asserzioni, si sforza di persuadere plagiando con l’irrazionalità. È tipico il caso di coloro che aizzano all’odio contro una categoria etnica, religiosa, sociale, che funge il ruolo di capro espiatorio per i problemi del gruppo di lettori a cui si rivolge lo pseudostorico. Il meccanismo, comunissimo ed elementare, risiede nel rivolgersi al gruppo A additando al gruppo B d’essere la causa dei mali del primo. Le mitologie pseudostoriche del genere della Lost Cause, come il mito asburgico, sono un’altra variante dell’uso ed abuso di un romanticismo mistificatorio. Un popolo, una società, uno stato, un gruppo politico ha subito una sconfitta politica e militare che ha segnato traumaticamente una cesura fra il prima ed il dopo. Gli sconfitti per dare un senso alla loro esperienza e cercare di sopravvivere quale comunità producono una cultura che si proclama continuazione di quella trascorsa anteriormente alla disfatta, ma che in realtà è l’esito proprio della frattura epocale. La nuova identità collettiva si costruisce non soltanto dopo ma attorno alla sconfitta. Una miscela variopinta di emozioni, aspirazioni fallite, nostalgia, collera verso i nemici, desideri di rivalsa, glorificazione dei propri protagonisti etc. sfocia in una idealizzazione del passato, trasfigurato romanticamente e rivisitato con l’omissione di tutte le componenti estranee al mito di un’età dell’oro. Ad esempio, dopo la sua scomparsa è sorto il mito dell’Old South anteriore alla guerra civile. Negli Usa si parla per questo della letteratura della Lost cause (la Causa perduta), il cui esempio più popolare è il romanzo Via col vento, da cui è stato tratta la pellicola omonima. Ma anche qui esiste un divario netto fra l’immagine mitizzata e quella reale.2 
  6. Affine al punto precedente è il ricorso ai giudizi soggettivi, che non sono neppure ipotesi indimostrate, ma appunto puri e semplici asserzioni soggettive. Lo pseudostorico riportandole si limita in ultima analisi ad esprimere suoi personali sentimenti. È come se scrivesse “questo mi piace” oppure “questo non mi piace”, soltanto in maniera più elaborata. Caratteristicamente, nella pseudostoria la figura dell’autore, che nella storiografia di norma scompare nel testo, campeggia invece in primo piano, in misura tale che talora acquista un ruolo preponderante. La sua biografia, le sue esperienze personali per necessità estremamente limitate (è così per ognuno), i suoi soggettivi sentimenti divengono la misura di tutte le cose.
  7. La pseudostoria, per tutte queste cause, sconfina nella letteratura in senso proprio, con una miscela di vero, verosimile ed inverosimile, la mescolanza di realtà e finzione che appartiene ai romanzi storici. Difatti, proprio i romanzi storici sono talora adoperati come fonti dagli pseudostorici e, cosa ancor più importante, alcuni celebri (o famigerati) testi di pseudostoria sono veri e propri romanzi. Restando in Italia, il capostipite del revisionismo del Risorgimento fu uno sceneggiatore televisivo, Carlo Alianello, con suoi quattro romanzi (L’Alfiere, Soldati del re, L’eredità della priora, La conquista del Sud), che sono alla base di tutta la posteriore corrente, in modo diretto od indiretto. Molte sue creazioni puramente letterarie sono state prese per autentiche dai suoi epigoni e spacciate quali storiche, con comica credulità. Infatti il successivo “revisionismo” ha scopiazzato largamente dal romanziere Alianello, da cui riprende gran parte delle proprie ipotesi fantasiose: il fantomatico complotto massonico contro il reame borbonico; l’altrettanto chimerico tradimento dei generali e degli ammiragli; il brigantaggio come sollevazione popolare contro i “piemontesi”; la presunta infelice sorte degli ex militari delle Due Sicilie; la decadenza economica del Mezzogiorno quale conseguenza dell’Unità ecc. Può dare un’idea dell’attendibilità e dello stile di questo novelliere basti accennare alla conclusione de La conquista del Sud, il capitolo Al chiaro di luna. L’autore si troverebbe di notte a Messina presso i ruderi della ex cittadella borbonica ed a questo punto avrebbe una visione, in cui gli apparirebbe il fuciliere Nicola Marturano del 1° reggimento Re. Costui è un fantasma che vaga a Messina, in uniforme e fucile, ma che non sa di essere morto. Quando infine gli viene rivelato da Alianello che è morto, appare in una visione l’intera guarnigione. Durante il colloquio fra Alianello e lo spettro, il romanziere racconta al fantasma che il generale Gennaro Fergola, ultimo comandante borbonico della cittadella, sarebbe stato insultato e fucilato da Cialdini dopo la resa. Visione spiritica a parte, Enrico Cialdini al momento della resa non insultò Fergola, ma anzi si complimentò con lui per la difesa prestata, tanto da concedergli ciò che si definisce resa con l’onore delle armi. Era usanza secolare nelle guerre europee che al momento della capitolazione di un esercito il suo comandante consegnasse la propria spada a quello nemico, che poteva accettarla oppure restituirla per onorare il vinto. È per questo che al generale borbonico fu permesso, in segno di stima e rispetto, di conservare la propria arma personale. Fergola inoltre non fu ucciso da Cialdini, poiché dopo un brevissimo periodo di prigionia fu congedato, con l’autorizzazione a conservare il proprio grado di generale ed una pensione corrisposta dallo stato italiano. Gennaro Fergola morì 10 (dieci) anni dopo la resa della piazzaforte di Messina, nel 1870. Vi sarebbe molto altro da aggiungere sulla pseudostoria, tuttavia i tratti sopra riportati possono ritenersi suoi tipici e si ritrovano regolarmente nei suoi esponenti. La pseudostoria ha sostanziale disinteresse per la storia in quanto tale, poiché essa diviene unicamente lo strumento per perseguire progetti politici oppure interessi personali, o magari entrambi, dei suoi fautori.

 Note 1. Si è avuto un dibattito sulla epistemologia delle pseudoscienze, inclusa la pseudostoria: D. Allchin, ‘Pseudohistory and Pseudoscience’, in Science & Education 13, 2004, pp. 179–195. David R. Hershey, Pseudohistory and Pseudoscience: Corrections to Allchin’s Historical, Conceptual and Educational Claims in Science & Education, 15, 2006, pp. 121-125. 2. K.B. Grant, G. Grant, Lost Causes: The Romantic Attraction of Defeated Yet Unvanquished Men and Movements, Nashville 1999, p. 13. Alan Nolan, The anatomy of the myth in Gary Gallagher-Alan Nolan (a cura di), The Myth of the Lost Cause and Civil War History, Bloomington (Indiana USA) 2010; Eduardo González Calleja-Carmine Pinto, Cause perdute. Memorie, rappresentazioni e miti dei vinti, in «Meridiana», n. 88, 2017, pp. 9–17.

venerdì 17 marzo 2023

162 anni di Italia ? No Molti , molti di più.


di Marco Vigna
La festa del 17 marzo commemora la data in cui fu proclamato il regno d’Italia nel 1861 sotto Vittorio Emanuele II. Si sente talora affermare che questo sarebbe l’inizio dell’Italia stessa, poiché secondo alcuni tale nazione non sarebbe esistita affatto in precedenza, o quantomeno non sarebbe esistito uno stato italiano. Simili visioni, care in particolar modo ai secessionisti o comunque a coloro che contestano lo stato nazionale predicandone la dissoluzione e la scomparsa, non hanno in realtà fondamento storico alcuno.
È appena il caso di precisare che nazione e stato non sono sinonimi e che la patria o gruppo etnico continua ad esistere qualunque sia la forma politica in cui si trova. L’Italia ha un’esistenza più che due volte millenaria che si esprime sul piano della lingua, dell’onomastica, della toponomastica, della letteratura, dell’architettura, dell’urbanistica, della musica, delle strutture giuridiche, della coscienza collettiva ecc. Essa non nasce quindi nel 1861, essendo pienamente esistente quantomeno dal I secolo avanti Cristo.
Non è neppure vero che l’Italia non fosse mai stata unita prima del Risorgimento. Il 17 marzo del 1861 è il momento in cui il regno d’Italia viene ad essere ufficialmente e giuridicamente ri-costituito, non costituito, poiché esso era già esistito in precedenza e per lunghi secoli. Prima ancora del medievale regno d’Italia questa regione e la sua nazione italiana erano state ambedue unificate da Roma antica per un periodo plurisecolare.
L’Italia viene ad essere unificata sul piano giuridico già sotto l’imperatore romano Ottaviano Augusto, il quale così facendo non fa altro che riconoscere l’ormai raggiunta unità culturale ed etnica nella penisola. Questa unificazione legislativa ed amministrativa permane per tutti i secoli seguenti, anche dopo il 476 che alcuni pongono come fine dell’impero romano d’Occidente.
La famosissima deposizione di Romolo Augustolo non equivaleva per nulla, né formalmente, né nelle intenzioni d’Odoacre, alla fine dell’impero, bensì alla sua ricostituzione. Essa coincideva comunque con la costituzione di un “regnum Italiae”, il cui sovrano era Odoacre, corrispondente all’antico ager Romanus, ossia alla prefettura d’Italia ovvero alla diocesi italiana.
Il regnum Italiae continua ad esistere anche sotto i Goti. Il sovrano goto è assieme rex Gothorum (intendendo ciò alla maniera del diritto germanico, che non era territoriale) e rex Italiae (intendendo ciò secondo il diritto romano), ossia sovrano del popolo dei Goti ed assieme sovrano dell’Italia.
Questa distinzione ricompare anche sotto i Longobardi. Questi appartenevano alla famiglia detta dei Germani orientali ed erano, fra tutte le popolazioni germaniche, le meno assimilate alla civiltà romana al momento della loro invasione (oltre che le meno germaniche di tutte le popolazioni germaniche, poiché largamente imbevute di cultura turco-mongola e di sciamanesimo). L’irruzione dei Longobardi in Italia segnò una vera frattura nella storia della penisola, sia perché pose termine sino al XIX secolo alla sua unità politica (mantenutasi ininterrotta dal II secolo a.C.), sia perché sconvolse le strutture politiche, economiche, sociali, culturali ancora conservatesi profondamente tardo antiche. I Longobardi però erano numericamente assai pochi e con una cultura di molto inferiore a quella degli autoctoni, cosicché nel giro di poche generazioni andarono incontro ad un rapido processo di latinizzazione ed assieme di cattolicizzazione (praticamente sinonimi nell’Italia dell’epoca). I loro primi sovrani si definivano rex Langobardorum (intendendo ciò alla maniera germanica), ma si noti che i romanici in territorio longobardo, purché di condizione libera, s’amministravano secondo il diritto romano. Ben presto però, sopraggiunta una prima romanizzazione, Agilulfo (che non era nemmeno di stirpe longobarda, essendo un turingio) si proclamò “gratia Dei rex totius Italiae”. Era il 604 d.C., quindi erano passati meno di quarant’anni dall’invasione in Italia (avvenuta nel 568). La proclamazione avvenne introducendo anche pratiche di corte ispirate a quelle in uso nell’impero romano d’Oriente e su sollecitazione di consiglieri latini. Agilulfo rimaneva rex Langobardorum (alla maniera germanica), ma si proclamava anche rex Italiae (questa volta secondo il diritto romano). L’Italia infatti era sempre rimasta nel sistema giuridico romano regione a sé stante, distinta dalle altre dell’impero, sin dai tempi d’Augusto. Sebbene avesse perduto ogni privilegio nel corso del III secolo d.C., pure era sempre rimasta amministrativamente e giuridicamente separate dalle altre “prefetture” (Galliae, Hispaniae, Grecia ecc.). Proclamandosi rex Italiae, Agilulfo si rifaceva a questa tradizione storica e giuridica.
I longobardi, ormai pressoché completamente italianizzatisi e romanizzatisi, si proposero anzi quale obiettivo fondamentale della propria azione politica la riunificazione dell’Italia, ossia del regnum Italiae: il monarca “longobardo” ad un certo punto prese a definirsi “rex totius Italiae”, re di tutta l’Italia. Tre sovrani, Liutprando, Astolfo e Desiderio, tentarono questa impresa, fallendo soltanto per la capacità del vescovo di Roma di servirsi della propria autorità spirituale e religiosa per scagliargli contro invasioni straniere, ossia i Franchi.
Il concetto e l’istituto di regno d’Italia si ripresenta anche sotto il dominio franco. Carlo Magno, conquistata Pavia, si proclama Gratia Dei rex Francorum et Langobardorum, ma è anche rex Italiae (781). Proprio con Carlo Magno si ha un passo giuridico fondamentale nella storia di questo “regno”, poiché il sovrano dei Franchi e dei Longobardi facendosi proclamare imperatore (romano), rivendica per sé il titolo di sovrano universale (non re di un dato popolo: la distinzione è basilare). Egli fa ciò anche perché rex Italiae, in quanto il sovrano dell’Italia, patria di Roma e culla dell’antico impero, ha diritto al titolo imperiale.
Il regnum Italiae conserva i suoi istituti politici, amministrativi e giuridici, anche sotto la dominazione carolingia, ma finisce coinvolto come tutti gli altri organismi politici dell’Occidente medievale nella crisi del IX secolo, con una progressiva frammentazione e disarticolazione delle sue strutture a beneficio di poteri locali. Ma continuare ad esistere l’idea di una Italia distinta dai territori transalpini: «Riguardo al regno d’Italia, la nozione di un confine che lo distinguesse dai regni di Germania e di Borgogna rimase, nonostante l’unione dinastica sotto un unico re» [Giovanni Tabacco, Giovanni Grado Merlo, “Medioevo”, Bologna 1989, p. 202]
È nell’Alto Medioevo che si ha comunque un importante tentativo politico di riunificare l’Italia, ad opera di Arduino d’Ivrea, che si proclamò rex Italiae nell’anno 1000, fu incoronato a Pavia nel 1002 e continuò con alterne vicende a perseguire il suo progetto sino al 1014, fallendo soltanto per l’opposizione della Chiesa, che si alleò con principi germanici.
Il titolo di rex Italiae ed il correlato regnum Italiae continuarono però ad esistere anche nei secoli successivi. L’impero romano per gli uomini del Medioevo, non era scomparso, ma continuava ad esistere, soltanto in forma mutata. Semplificando al massimo grado per ragioni di sintesi, l’imperium era ritenuto essere stato ordinato da Dio stesso per l’umanità intera ed avrebbe continuato ad esistere sino alla fine dei tempi. L’imperatore quindi non era sovrano soltanto d’alcuni territori, ma di tutta la terra. Di fatto però, era evidente che l’autorità dell’imperatore era riconosciuta solo in alcune regioni e, si badi bene, non perché imperatore, ma in quanto principe, duca ecc. di determinati territori. Il titolo imperiale però era collegato, sempre e necessariamente, a quello di rex Italiae, poiché l’Italia era il centro dell’impero con Roma. Non è un caso che un altro tentativo di ripristinare l’unità politica della nazione italiana avvenne con Federico II di Svevia, che a detta di
Ernst Kantorowicz
, suo massimo biografo, pensava a sé stesso come “romano” e che fu sia fra i patrocinatori della riscoperta dell’antico, sia fra i promotori dell’italiano letterario. Questo sovrano progettava l’“unio regni et imperi”, ossia l’unione del regnum Italiae in senso stretto, che le vicissitudini storiche avevano portato a comprendere soltanto la maggior parte dell’Italia centro-settentrionale, ed il più giovane regnum Siciliae, sorto solo nel secolo XI.
Seppure solo sul piano simbolico e formale, il regnum Italiae conservò la sua esistenza anche nell’evo moderno, tanto che la famosa Corona Ferrea venne usata dal VI secolo sino al XIX per l'incoronazione dei re d'Italia.
Con buona pace dei separatisti o comunque di coloro che negano l'esistenza della nazione italiana, essa esiste da oltre 2000 anni e la consapevolezza di questo non è mai venuta meno, neppure durante il periodo di frammentazione politica.