giovedì 26 gennaio 2017

Speciale Risorgimento: il presunto saccheggio del sud e il brigantaggio (parte III)

Roma, 26 gen – Terza e ultima puntata di questo speciale dedicato al Risorgimento e alla critica delle teorie anti-italiane. Prima parte: Quando banchieri e inglesi facevano affari con i Borbone. Seconda parte: La spedizione dei Mille e le bufale antitaliane(IPN)


Risorgimento

L’economia e il divario Nord-Sud


Secondo il revisionismo anti-risorgimentale, l’unificazione avrebbe prodotto uno spostamento di ricchezza dal Sud al Nord, che avrebbe generato uno sviluppo economico ottenuto dalle regioni settentrionali a discapito di quelle meridionali. Il punto di partenza è l’ammontare doppio del debito pubblico del Regno di Sardegna rispetto a quello del Regno delle Due Sicilie. Alla formazione del debito pubblico del neonato Regno d’Italia concorsero rispettivamente nella misura del 60% il debito sardo e del 30% il debito duosiciliano, mentre il restante 10% proveniva dagli altri Stati annessi nel 1861.  Il tasso d’interesse con cui venivano remunerati i titoli di Stato del Regno di Sardegna, come ricordato dalla studiosa Stéphanie Collet, era conseguentemente più alto[1].
In realtà, come chiarì autorevolmente Luigi Einaudi, il deficit di bilancio delle finanze del Regno di Sardegna si spiega agevolmente alla luce dell’adozione da parte del governo di Torino di una politica che si potrebbe definire keynesiana ante litteramCavour intraprese investimenti infrastrutturali pubblici per la modernizzazione del paese e per la sua crescita economicaIl “pareggio di bilancio” borbonico (che tanto somiglia alla sciagurata “austerità” dei nostri giorni) era invece sintomo di una politica immobilista che lasciò il Meridione, fatta eccezione per poche realtà, in uno stato di sostanziale arretratezza:
 «La finanza borbonica provvedeva alle opere pubbliche atte a dare un incremento all’economia del paese entro i limiti dell’andamento spontaneo delle entrate al di sopra delle esigenze delle spese ordinarie, sì da far credere che l’opera fosse dovuta a generosità del sovrano; la finanza cavourriana non temeva di anticipare con prestiti l’incremento del gettito tributario o lo provocava con opere di ferrovie, di canali, di navigazione atte ad accrescere la produttività del lavoro nazionale»[2].
I “revisionisti” portano a supporto della loro tesi l’esistenza nel Regno delle Due Sicilie di alcune realtà industriali, tutto sommato isolate all’interno di un contesto economico arretrato e semi-feudale e rette unicamente sulle commesse statali. Esse erano il Cantiere navale di Castellammare di Stabia, il Polo siderurgico e la fabbrica d’armi di Mongiana in Calabria, l’industria tessile di San Leucio presso Caserta, la Reale Fabbrica d’armi di Torre Annunziata, le Ferriere Fieramosca e la Fonderia Ferdinandea in Calabria, la fabbrica metalmeccanica e le Officine ferroviarie di Pietrarsa a Napoli, il Cantiere navale di Castellammare di Stabia, le Fonderie Pisano a Salerno, la Fonderia Oretea e le Flotte Riunite Florio a Palermo. Tuttavia gli addetti dell’industria metalmeccanica nell’Italia del 1861 erano 11.177, concentrati per il 38% nel Regno di Sardegna, per il 24% nel Lombardo-Veneto e solo per il 21% nel Regno delle Due Sicilie. La produzione di cotone si concentrava per il 43% nel Regno di Sardegna, per il 34% nel Lombardo-Veneto e solo per il 15% nel Regno delle Due Sicilie. La lavorazione della seta si concentrava per l’88% nell’Italia settentrionale e solo per il 3,3% nel Regno delle Due Sicilie[3]. Gli studi di Angelo Massafra Domenico Demarco confermano in ultima analisi che il Mezzogiorno era meno sviluppato rispetto al resto d’Italia[4].
Abbastanza risibile è il presunto e decantato primato ferroviario del Regno delle Due Sicilie, costituito dal fatto che la prima ferrovia in Italia fu la Napoli-Portici del 1839. Si trattò a dire il vero di un’infrastruttura isolata e destinata essenzialmente non al servizio pubblico ma alle esigenze della corte borbonica («giocattolo del Re» l’ha definita Ernesto Galli della Loggia). Pochi anni dopo (1844) il Regno di Sardegna intraprese un ben più serio e organico piano ferroviario. Alla vigilia dell’unificazione (1860) il Regno di Sardegna aveva 850 km di strade ferrate, contro 607 del Lombardo-Veneto, 323 del Granducato di Toscana, 132 dello Stato Pontificio e solo 99 del Regno delle Due Sicilie, alla pari con il piccolo ducato di Parma e Piacenza. La rete ferroviaria borbonica si limitava ai soli centri di Napoli, Capua, Caserta, Castellammare di Stabia, Mercato San Severino e Vietri sul Mare. Dopo soli nove anni di unità nazionale, nel 1870, il governo unitario aveva decuplicato la rete ferroviaria meridionale, estendendola al Sannio (Benevento) e attraverso esso al Molise (Termoli), a sua volta collegato con la costa adriatica settentrionale, alla Puglia (Foggia, Candela, Barletta, Taranto, Bari, Brindisi, Lecce, Maglie) e alla Calabria (Rossano, Cariati). Furono inoltre costruite le linee Reggio-Bianconovo in Calabria e Palermo-Lercara, Leonforte-Catania-Messina e Lentini-Catania. Per quanto riguarda la rete stradale, alla vigilia dell’Unità quella del Centro-Nord era stimata approssimativamente in 75.500 km rispetto ai 14.700 km del Regno delle Due Sicilie.
Gli economisti Vittorio Daniele (Università di Catanzaro) e Paolo Malanima (Consiglio Nazionale delle Ricerche) sono giunti alla conclusione che le economie del Nord e del Sud,  per oltre trent’anni dopo l’unificazione, hanno avuto un divario costante stimato in cinque punti percentuali a favore del Nord[5]Nessun fantomatico “trasferimento di ricchezze” dal Sud al Nord e nessuna “sperequazione” avvennero all’indomani dell’unificazione nazionale, che lasciò le cose come stavano. Solo negli anni ’90 del secolo XIX le due economie del Nord e del Sud cominciarono a divergere a vantaggio del Nord a causa della rivoluzione industriale che interessò in particolare il triangolo Torino-Milano-Genova, favorito dalla vicinanza dei mercati e dei rifornimenti di materie prime dell’Europa settentrionale e centrale. La teoria secondo cui il triangolo industriale Torino-Milano-Genova si sarebbe sviluppato economicamente sottraendo risorse al Sud negli anni successivi all’unificazione, oltre a essere confutato dalle ricerche degli economisti sopra nominati, non spiega peraltro come altre regioni come il Veneto o le Marche siano riuscite a svilupparsi economicamente, come testimoniano i dati ISTAT, fino a raggiungere e anche a superare le città del triangolo industriale.
Un ambito nel quale il divario Nord-Sud era particolarmente marcato fu quello dell’istruzione. Nel 1861, il tasso di alfabetizzazione era del 14% nel Regno delle Due Sicilie a fronte del 37% nell’Italia centro-settentrionale. Sempre nel 1861 il tasso di scolarità dei bambini tra 6 e 10 anni era del 17% nel Regno delle Due Sicilie a fronte del 67% nell’Italia centro-settentrionale. A testimonianza dei forti investimenti nella scuola pubblica effettuati nel Meridione dal Regno d’Italia, dopo 10 anni di unità (1871) il tasso di scolarità dei bambini tra 6 e 10 anni era raddoppiato nell’ex Regno delle Due Sicilie, salendo al 35%[6]. Un’altra dimostrazione di come l’unificazione, pur non riuscendo a risolvere tutti gli atavici problemi del Sud, segnò comunque un progresso per le popolazioni meridionali.
Il brigantaggio
Nell’Italia meridionale dei secoli XVIII e XIX il brigantaggio era un fenomeno endemico, come ricordò Francesco Saverio Nitti: «Ogni parte d’Europa ha avuto banditi e delinquenti, che in periodi di guerra e di sventura hanno dominato la campagna e si sono messi fuori della legge […] ma vi è stato un solo paese in Europa in cui il brigantaggio è esistito si può dire da sempre […] un paese dove il brigantaggio per molti secoli si può rassomigliare a un immenso fiume di sangue e di odi […] un paese in cui per secoli la monarchia si è basata sul brigantaggio, che è diventato come un agente storico: questo paese è l’Italia del Mezzodì»[7]. Al brigantaggio «si dedicavano alacremente migliaia di individui, padri e figli, che nell’assalto ai viaggiatori, alle diligenze e al procaccio trovavano la fonte primaria del proprio sostentamento»[8]Il governo del Regno delle Due Sicilie fu costretto ad adottare leggi speciali durissime per la repressione del brigantaggio. Il Decreto di Re Ferdinando I n. 110 del 30 agosto 1821 prevedeva, per la «punizione ed esterminio dei briganti» l’istituzione di quattro corti marziali, la pubblicazione degli elenchi dei banditi che potevano essere uccisi da chiunque dietro pagamento di un premio in denaro e pene draconiane e sommarie per varie fattispecie di reato. Il Decreto di Re Francesco II n. 424 del 24 ottobre 1859 conferiva ai tribunali di guerra delle guarnigioni di Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria il potere di processare e condannare secondo le leggi di guerra coloro che si macchiavano dei reati di comitiva armata, resistenza alla forza pubblica, brigantaggio e favoreggiamento al brigantaggio.
I briganti del periodo post-unitario erano dunque in massima parte delinquenti comuni già attivi come tali sotto il precedente governo borbonico, oltre che ex soldati dell’esercito delle Due Sicilie, renitenti alla leva e persino ex appartenenti all’esercito garibaldino. Le cause politiche e sociali del brigantaggio furono numerose, ma certamente la rivolta fu promossa e finanziata dal governo borbonico in esilio, con il sostegno economico dello Stato Pontificio, delle potenze cattoliche straniere e del banchiere Adolf von Rothschild. Non mancarono le trame di un ambiguo agente di Napoleone III di nome Augustin De Langlois, miranti a destabilizzare il Regno d’Italia appena costituito per collocare sul trono di Napoli un esponente della famiglia Murat. Il brigante più famoso fu senz’altro il lucano Carmine Crocco di Rionero in Vulture, delinquente abituale già condannato dalla giustizia borbonica a 19 anni di detenzione e protagonista di vari voltafaccia tra causa garibaldina e causa borbonica.
Una ricostruzione fuorviante e falsificata del fenomeno del brigantaggio lo ha dipinto quasi come un moto di popolo ferocemente represso dai “piemontesi”, intendendo con questo termine le autorità del neo-costituito Regno d’Italia. In realtà, i briganti vessarono e saccheggiarono le popolazioni civili per sostentarsi e si resero responsabili di numerosi eccidi nei centri abitati del Mezzogiorno che ebbero la sventura di subire le loro scorrerie. Come ha ben evidenziato Alessandro Barberoi funzionari civili, i militari, le Guardie Nazionali e soprattutto i normali cittadini che si contrapposero al brigantaggio non erano certo “piemontesi”, ma salvo rare eccezioni meridionali fedeli al nuovo Stato unitario. La durezza della lotta al brigantaggio non deve tuttavia far dimenticare che i presunti “eccidi” sono riferibili a un numero molto limitato di episodi (quattro per l’esattezza quelli degni di nota: Pontelandolfo e Casalduni, Auletta, Montefalcione, Ruvo del Monte), peraltro sempre consistiti in legittime – e talvolta necessariamente cruente – attività repressive di orrendi crimini, caratterizzati da efferate atrocità e sevizie, commessi dai briganti ai danni di militari o civili.
Il 7 agosto 1861 furono catturate e uccise dai briganti alcune Guardie Nazionali a Pontelandolfo (Benevento). A Casalduni (Benevento) il tenente dell’Esercito Italiano Bracci fu torturato per otto ore, ucciso a colpi di pietra e decapitato. I soldati del suo reparto furono dilaniati a colpi di scure o di mazza, immobilizzati e calpestati vivi da briganti a cavallo e le loro membra appese come trofei per tutto il paese. Il 14 agosto 1861 seguì l’inevitabile repressione da parte dell’Esercito Italiano, che però consistette, contrariamente a fantasiose e non documentate esagerazioni che parlano di centinaia di morti, a soli tredici morti, di cui due in modo accidentale a seguito di incendi sviluppatisi durante la repressione. Il numero di tredici morti, sulla base di documentazione archivistica, è stato stabilito dal ricercatore Davide Fernando Panella e confermato dalla  rivista Frammenti del Centro culturale per lo studio della civiltà contadina nel Sannio con sede in Campolattaro (Benevento). Si registra l’esecuzione di quarantacinque tra banditi e fiancheggiatori dopo la riconquista da parte del Regio Esercito di Auletta (Salerno) il 30 luglio 1861. In Irpinia, nel settembre 1860, ad Ariano Irpino e Montemiletto, alcuni criminali avevano ucciso e seviziato alcune decine di cittadini delle due località. I responsabili dell’eccidio si diedero alla macchia e dopo alcuni mesi di clandestinità, occuparono il 5 luglio 1861 Montefalcione e l’8 luglio 1861 Montemiletto, dove sterminarono numerose famiglie di cittadini liberali, tra cui numerose donne e bambini. Il 9 luglio 1861 l’Esercito riconquistò Montefalcione, dove persero la vita un centinaio di banditi e fiancheggiatori tra uccisi in combattimento e fucilati. Anche a Ruvo del Monte (Potenza) la repressione da parte del Regio Esercito scaturì dai crimini commessi dai briganti di Carmine Crocco, che il 10 agosto 1861 massacrarono e decapitarono tredici cittadini e stuprarono numerose donne. Anche in questo caso, trenta tra banditi e fiancheggiatori furono giustiziati.
Il 15 agosto 1863 fu approvata la legge n. 1409 (Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette), chiamata legge Pica dal nome del deputato abruzzese che ne fu il promotore. Il suo campo d’applicazione era l’intero Meridione continentale d’Italia (senza quindi la Sicilia), con l’eccezione delle province di Napoli, Reggio Calabria, Bari e “Terra d’Otranto” (comprendente le odierne province di Lecce e Taranto). Secondo lo storico Salvatore Lupo, la pur severa legge Pica del 1863 ebbe il merito di impedire le fucilazioni sommarie dei briganti e offrì a questi ultimi alcune garanzie di diritto penale sostanziale e processuale seppur nel quadro dell’eccezionalità della situazione, prevedendo peraltro l’esecuzione capitale soltanto nei confronti di coloro che opponevano resistenza armata all’arresto. La legge rimase in vigore fino al 31 dicembre 1865, raggiungendo con efficacia e rapidità gli obiettivi prefissi.
Un episodio poco noto del brigantaggio anti-unitario fu la spedizione legittimista e filo-borbonica guidata dal generale catalano José Borjes nel Meridione d’Italia, sbarcata a Brancaleone in Calabria il 13 settembre 1861 al fine di suscitare una sollevazione contro il Regno d’Italia. La spedizione partì da Malta con la scoperta tolleranza delle autorità britanniche, nonostante le rimostranze delle autorità diplomatiche italiane e con l’incidente diplomatico dell’arresto di due ufficiali della Regia Marina italiana a seguito di un alterco con i redattori di un giornale filo-borbonico pubblicato a Malta. Questo episodio fa giustizia del luogo comune secondo cui la conquista del Regno delle Due Sicilie sarebbe stata favorita dal Regno Unito.
La natura delinquenziale del brigantaggio meridionale è peraltro confermata da Cesare Carletti nel suo libro L’esercito pontificio dal 1860 al 1870 (1904), dove si dà conto dei furti, delle rapine e degli stupri commessi nel Lazio meridionale dalle bande di briganti provenienti dall’ex Regno delle Due Sicilie che, per sfuggire alla repressione dell’Esercito Italiano, varcavano il confine con lo Stato Pontificio, che dovette istituire il corpo speciale degli “Squadriglieri” per reprimerle.
Conclusione
La mistificazione anti-risorgimentale e anti-unitaria, oltre a essere una costruzione piuttosto recente, si dissolve come neve al sole di fronte a una corretta e documentata analisi storica. La denigrazione del periodo più importante della nostra storia nazionale, peraltro, non costituisce certamente un fatto innocente o casuale in un periodo in cui il grande capitale finanziario apolide ha puntato sul superamento degli Stati nazionali e sovrani a favore di organismi sovranazionali controllati dalle élites finanziarie. Non è un caso che, nei venticinque anni successivi al famigerato Trattato di Maastricht, una bassa informazione politico-giornalistica, assolutamente priva di pregio scientifico, abbia tentato di denigrare il processo storico attraverso il quale l’Italia conquistò la sua unità e la sua indipendenza. Gli Italiani del Mezzogiorno devono riscoprire la gloriosa storia del Risorgimento, che tra mille sacrifici ed eroismi ricongiunse i loro avi ai fratelli del Settentrione in una Patria comune. Il modo migliore per riscoprire la sola, autentica e spendibile tradizione politica nazionale, che è quella risorgimentale, consiste nel coltivare la memoria dei grandi patrioti meridionali che con il pensiero e con l’azione parteciparono alla costruzione dello Stato nazionale unitario. Tra loro ricordiamo qui i siciliani Ruggero Settimo, Francesco Bentivegna, Francesco Crispi, Rosolino Pilo e Michele Amari; i calabresi Michele Morelli, Domenico Romeo e Giovanni Nicotera; i lucani Domenico Corrado, Francesco e Giuseppe Venita e Francesco Petruccelli della Gattina; i pugliesi Nicolò Mignogna, Giuseppe Massari, Giuseppe Libertini e Giuseppe Fanelli; i campani Florestano e Guglielmo Pepe, Giuseppe Silvati, Luigi Settembrini, Carlo Pisacane, Carlo Poerio, Giacinto Albini, Francesco De Sanctis, Pasquale Stanislao Mancini, Carlo e Luigi Mezzacapo; gli abruzzesi Gabriele Rossetti, Cesare De Horatiis, Bertrando e Silvio Spaventa; i molisani Leopoldo Pilla e Francesco De Feo. Al loro fianco stanno i 30.000 anonimi e gloriosi volontari meridionali che nel 1860 marciarono vittoriosi dalla Sicilia al Volturno e tutti coloro che prima di loro credettero nell’Italia una e indipendente.
Luca Cancelliere
________________________
Note
[2] L. Einaudi, Miti e paradossi della giustizia tributaria, Torino 19592, p. 274.
[3] Cfr. A. Caprarica, C’era una volta in Italia, Milano 2010.
[4] Cfr. A. Massafra (a cura di), Il Mezzogiorno preunitario: economia, società e istituzioni, Bari 1988; D. Demarco, Il crollo delle Regno delle Due Sicilie. La struttura sociale (1960), Napoli 2000.
[5] Cfr. V. Daniele – P. Malanima, Il divario Nord-Sud in Italia (1861-2011), Soveria Mannelli 2011.
[6] Cfr. E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, Bologna 2013.
[7] F. S. Nitti, Eroi e briganti (1899), Venosa 1987, p. 9.
[8] A. Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Bologna 2008, p. 222.



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mercoledì 25 gennaio 2017

L’economia e il divario Nord-Sud

 L’economia e il divario Nord-Sud

Secondo il revisionismo anti-risorgimentale, l’unificazione avrebbe prodotto uno spostamento di ricchezza dal Sud al Nord, che avrebbe generato uno sviluppo economico ottenuto dalle regioni settentrionali a discapito di quelle meridionali. Il punto di partenza è l’ammontare doppio del debito pubblico del Regno di Sardegna rispetto a quello del Regno delle Due Sicilie. Alla formazione del debito pubblico del neonato Regno d’Italia concorsero rispettivamente nella misura del 60% il debito sardo e del 30% il debito duosiciliano, mentre il restante 10% proveniva dagli altri Stati annessi nel 1861.  Il tasso d’interesse con cui venivano remunerati i titoli di Stato del Regno di Sardegna, come ricordato dalla studiosa Stéphanie Collet, era conseguentemente più alto[1].

In realtà, come chiarì autorevolmente Luigi Einaudi, il deficit di bilancio delle finanze del Regno di Sardegna si spiega agevolmente alla luce dell’adozione da parte del governo di Torino di una politica che si potrebbe definire keynesiana ante litteramCavour intraprese investimenti infrastrutturali pubblici per la modernizzazione del paese e per la sua crescita economicaIl “pareggio di bilancio” borbonico (che tanto somiglia alla sciagurata “austerità” dei nostri giorni) era invece sintomo di una politica immobilista che lasciò il Meridione, fatta eccezione per poche realtà, in uno stato di sostanziale arretratezza: «La finanza borbonica provvedeva alle opere pubbliche atte a dare un incremento all’economia del paese entro i limiti dell’andamento spontaneo delle entrate al di sopra delle esigenze delle spese ordinarie, sì da far credere che l’opera fosse dovuta a generosità del sovrano; la finanza cavourriana non temeva di anticipare con prestiti l’incremento del gettito tributario o lo provocava con opere di ferrovie, di canali, di navigazione atte ad accrescere la produttività del lavoro nazionale»[2].

I “revisionisti” portano a supporto della loro tesi l’esistenza nel Regno delle Due Sicilie di alcune realtà industriali, tutto sommato isolate all’interno di un contesto economico arretrato e semi-feudale e rette unicamente sulle commesse statali. Esse erano il Cantiere navale di Castellammare di Stabia, il Polo siderurgico e la fabbrica d’armi di Mongiana in Calabria, l’industria tessile di San Leucio presso Caserta, la Reale Fabbrica d’armi di Torre Annunziata, le Ferriere Fieramosca e la Fonderia Ferdinandea in Calabria, la fabbrica metalmeccanica e le Officine ferroviarie di Pietrarsa a Napoli, il Cantiere navale di Castellammare di Stabia, le Fonderie Pisano a Salerno, la Fonderia Oretea e le Flotte Riunite Florio a Palermo. Tuttavia gli addetti dell’industria metalmeccanica nell’Italia del 1861 erano 11.177, concentrati per il 38% nel Regno di Sardegna, per il 24% nel Lombardo-Veneto e solo per il 21% nel Regno delle Due Sicilie. La produzione di cotone si concentrava per il 43% nel Regno di Sardegna, per il 34% nel Lombardo-Veneto e solo per il 15% nel Regno delle Due Sicilie. La lavorazione della seta si concentrava per l’88% nell’Italia settentrionale e solo per il 3,3% nel Regno delle Due Sicilie[3]. Gli studi di Angelo Massafra e Domenico Demarco confermano in ultima analisi che il Mezzogiorno era meno sviluppato rispetto al resto d’Italia[4].

Abbastanza risibile è il presunto e decantato primato ferroviario del Regno delle Due Sicilie, costituito dal fatto che la prima ferrovia in Italia fu la Napoli-Portici del 1839. Si trattò a dire il vero di un’infrastruttura isolata e destinata essenzialmente non al servizio pubblico ma alle esigenze della corte borbonica («giocattolo del Re» l’ha definita Ernesto Galli della Loggia). Pochi anni dopo (1844) il Regno di Sardegna intraprese un ben più serio e organico piano ferroviario. Alla vigilia dell’unificazione (1860) il Regno di Sardegna aveva 850 km di strade ferrate, contro 607 del Lombardo-Veneto, 323 del Granducato di Toscana, 132 dello Stato Pontificio e solo 99 del Regno delle Due Sicilie, alla pari con il piccolo ducato di Parma e Piacenza. La rete ferroviaria borbonica si limitava ai soli centri di Napoli, Capua, Caserta, Castellammare di Stabia, Mercato San Severino e Vietri sul Mare. Dopo soli nove anni di unità nazionale, nel 1870, il governo unitario aveva decuplicato la rete ferroviaria meridionale, estendendola al Sannio (Benevento) e attraverso esso al Molise (Termoli), a sua volta collegato con la costa adriatica settentrionale, alla Puglia (Foggia, Candela, Barletta, Taranto, Bari, Brindisi, Lecce, Maglie) e alla Calabria (Rossano, Cariati). Furono inoltre costruite le linee Reggio-Bianconovo in Calabria e Palermo-Lercara, Leonforte-Catania-Messina e Lentini-Catania. Per quanto riguarda la rete stradale, alla vigilia dell’Unità quella del Centro-Nord era stimata approssimativamente in 75.500 km rispetto ai 14.700 km del Regno delle Due Sicilie.

Gli economisti Vittorio Daniele (Università di Catanzaro) e Paolo Malanima (Consiglio Nazionale delle Ricerche) sono giunti alla conclusione che le economie del Nord e del Sud,  per oltre trent’anni dopo l’unificazione, hanno avuto un divario costante stimato in cinque punti percentuali a favore del Nord[5]Nessun fantomatico “trasferimento di ricchezze” dal Sud al Nord e nessuna “sperequazione” avvennero all’indomani dell’unificazione nazionale, che lasciò le cose come stavano. Solo negli anni ’90 del secolo XIX le due economie del Nord e del Sud cominciarono a divergere a vantaggio del Nord a causa della rivoluzione industriale che interessò in particolare il triangolo Torino-Milano-Genova, favorito dalla vicinanza dei mercati e dei rifornimenti di materie prime dell’Europa settentrionale e centrale. La teoria secondo cui il triangolo industriale Torino-Milano-Genova si sarebbe sviluppato economicamente sottraendo risorse al Sud negli anni successivi all’unificazione, oltre a essere confutato dalle ricerche degli economisti sopra nominati, non spiega peraltro come altre regioni come il Veneto o le Marche siano riuscite a svilupparsi economicamente, come testimoniano i dati ISTAT, fino a raggiungere e anche a superare le città del triangolo industriale.

Un ambito nel quale il divario Nord-Sud era particolarmente marcato fu quello dell’istruzione. Nel 1861, il tasso di alfabetizzazione era del 14% nel Regno delle Due Sicilie a fronte del 37% nell’Italia centro-settentrionale. Sempre nel 1861 il tasso di scolarità dei bambini tra 6 e 10 anni era del 17% nel Regno delle Due Sicilie a fronte del 67% nell’Italia centro-settentrionale. A testimonianza dei forti investimenti nella scuola pubblica effettuati nel Meridione dal Regno d’Italia, dopo 10 anni di unità (1871) il tasso di scolarità dei bambini tra 6 e 10 anni era raddoppiato nell’ex Regno delle Due Sicilie, salendo al 35%[6]. Un’altra dimostrazione di come l’unificazione, pur non riuscendo a risolvere tutti gli atavici problemi del Sud, segnò comunque un progresso per le popolazioni meridionali.

Il brigantaggio

Nell’Italia meridionale dei secoli XVIII e XIX il brigantaggio era un fenomeno endemico, come ricordò Francesco Saverio Nitti: «Ogni parte d’Europa ha avuto banditi e delinquenti, che in periodi di guerra e di sventura hanno dominato la campagna e si sono messi fuori della legge […] ma vi è stato un solo paese in Europa in cui il brigantaggio è esistito si può dire da sempre […] un paese dove il brigantaggio per molti secoli si può rassomigliare a un immenso fiume di sangue e di odi […] un paese in cui per secoli la monarchia si è basata sul brigantaggio, che è diventato come un agente storico: questo paese è l’Italia del Mezzodì»[7]. Al brigantaggio «si dedicavano alacremente migliaia di individui, padri e figli, che nell’assalto ai viaggiatori, alle diligenze e al procaccio trovavano la fonte primaria del proprio sostentamento»[8]Il governo del Regno delle Due Sicilie fu costretto ad adottare leggi speciali durissime per la repressione del brigantaggio. Il Decreto di Re Ferdinando I n. 110 del 30 agosto 1821 prevedeva, per la «punizione ed esterminio dei briganti» l’istituzione di quattro corti marziali, la pubblicazione degli elenchi dei banditi che potevano essere uccisi da chiunque dietro pagamento di un premio in denaro e pene draconiane e sommarie per varie fattispecie di reato. Il Decreto di Re Francesco II n. 424 del 24 ottobre 1859 conferiva ai tribunali di guerra delle guarnigioni di Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria il potere di processare e condannare secondo le leggi di guerra coloro che si macchiavano dei reati di comitiva armata, resistenza alla forza pubblica, brigantaggio e favoreggiamento al brigantaggio.

I briganti del periodo post-unitario erano dunque in massima parte delinquenti comuni già attivi come tali sotto il precedente governo borbonico, oltre che ex soldati dell’esercito delle Due Sicilie, renitenti alla leva e persino ex appartenenti all’esercito garibaldino. Le cause politiche e sociali del brigantaggio furono numerose, ma certamente la rivolta fu promossa e finanziata dal governo borbonico in esilio, con il sostegno economico dello Stato Pontificio, delle potenze cattoliche straniere e del banchiere Adolf von Rothschild. Non mancarono le trame di un ambiguo agente di Napoleone III di nome Augustin De Langlois, miranti a destabilizzare il Regno d’Italia appena costituito per collocare sul trono di Napoli un esponente della famiglia Murat. Il brigante più famoso fu senz’altro il lucano Carmine Crocco di Rionero in Vulture, delinquente abituale già condannato dalla giustizia borbonica a 19 anni di detenzione e protagonista di vari voltafaccia tra causa garibaldina e causa borbonica.

Una ricostruzione fuorviante e falsificata del fenomeno del brigantaggio lo ha dipinto quasi come un moto di popolo ferocemente represso dai “piemontesi”, intendendo con questo termine le autorità del neo-costituito Regno d’Italia. In realtà, i briganti vessarono e saccheggiarono le popolazioni civili per sostentarsi e si resero responsabili di numerosi eccidi nei centri abitati del Mezzogiorno che ebbero la sventura di subire le loro scorrerie. Come ha ben evidenziato Alessandro Barberoi funzionari civili, i militari, le Guardie Nazionali e soprattutto i normali cittadini che si contrapposero al brigantaggio non erano certo “piemontesi”, ma salvo rare eccezioni meridionali fedeli al nuovo Stato unitario. La durezza della lotta al brigantaggio non deve tuttavia far dimenticare che i presunti “eccidi” sono riferibili a un numero molto limitato di episodi (quattro per l’esattezza quelli degni di nota: Pontelandolfo e Casalduni, Auletta, Montefalcione, Ruvo del Monte), peraltro sempre consistiti in legittime – e talvolta necessariamente cruente – attività repressive di orrendi crimini, caratterizzati da efferate atrocità e sevizie, commessi dai briganti ai danni di militari o civili.

Il 7 agosto 1861 furono catturate e uccise dai briganti alcune Guardie Nazionali a Pontelandolfo (Benevento). A Casalduni (Benevento) il tenente dell’Esercito Italiano Bracci fu torturato per otto ore, ucciso a colpi di pietra e decapitato. I soldati del suo reparto furono dilaniati a colpi di scure o di mazza, immobilizzati e calpestati vivi da briganti a cavallo e le loro membra appese come trofei per tutto il paese. Il 14 agosto 1861 seguì l’inevitabile repressione da parte dell’Esercito Italiano, che però consistette, contrariamente a fantasiose e non documentate esagerazioni che parlano di centinaia di morti, a soli tredici morti, di cui due in modo accidentale a seguito di incendi sviluppatisi durante la repressione. Il numero di tredici morti, sulla base di documentazione archivistica, è stato stabilito dal ricercatore Davide Fernando Panella e confermato dalla  rivista Frammenti del Centro culturale per lo studio della civiltà contadina nel Sannio con sede in Campolattaro (Benevento). Si registra l’esecuzione di quarantacinque tra banditi e fiancheggiatori dopo la riconquista da parte del Regio Esercito di Auletta (Salerno) il 30 luglio 1861. In Irpinia, nel settembre 1860, ad Ariano Irpino e Montemiletto, alcuni criminali avevano ucciso e seviziato alcune decine di cittadini delle due località. I responsabili dell’eccidio si diedero alla macchia e dopo alcuni mesi di clandestinità, occuparono il 5 luglio 1861 Montefalcione e l’8 luglio 1861 Montemiletto, dove sterminarono numerose famiglie di cittadini liberali, tra cui numerose donne e bambini. Il 9 luglio 1861 l’Esercito riconquistò Montefalcione, dove persero la vita un centinaio di banditi e fiancheggiatori tra uccisi in combattimento e fucilati. Anche a Ruvo del Monte (Potenza) la repressione da parte del Regio Esercito scaturì dai crimini commessi dai briganti di Carmine Crocco, che il 10 agosto 1861 massacrarono e decapitarono tredici cittadini e stuprarono numerose donne. Anche in questo caso, trenta tra banditi e fiancheggiatori furono giustiziati.

Il 15 agosto 1863 fu approvata la legge n. 1409 (Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette), chiamata legge Pica dal nome del deputato abruzzese che ne fu il promotore. Il suo campo d’applicazione era l’intero Meridione continentale d’Italia (senza quindi la Sicilia), con l’eccezione delle province di Napoli, Reggio Calabria, Bari e “Terra d’Otranto” (comprendente le odierne province di Lecce e Taranto). Secondo lo storico Salvatore Lupo, la pur severa legge Pica del 1863 ebbe il merito di impedire le fucilazioni sommarie dei briganti e offrì a questi ultimi alcune garanzie di diritto penale sostanziale e processuale seppur nel quadro dell’eccezionalità della situazione, prevedendo peraltro l’esecuzione capitale soltanto nei confronti di coloro che opponevano resistenza armata all’arresto. La legge rimase in vigore fino al 31 dicembre 1865, raggiungendo con efficacia e rapidità gli obiettivi prefissi.

Un episodio poco noto del brigantaggio anti-unitario fu la spedizione legittimista e filo-borbonica guidata dal generale catalano José Borjes nel Meridione d’Italia, sbarcata a Brancaleone in Calabria il 13 settembre 1861 al fine di suscitare una sollevazione contro il Regno d’Italia. La spedizione partì da Malta con la scoperta tolleranza delle autorità britanniche, nonostante le rimostranze delle autorità diplomatiche italiane e con l’incidente diplomatico dell’arresto di due ufficiali della Regia Marina italiana a seguito di un alterco con i redattori di un giornale filo-borbonico pubblicato a Malta. Questo episodio fa giustizia del luogo comune secondo cui la conquista del Regno delle Due Sicilie sarebbe stata favorita dal Regno Unito.

La natura delinquenziale del brigantaggio meridionale è peraltro confermata da Cesare Carletti nel suo libro L’esercito pontificio dal 1860 al 1870 (1904), dove si dà conto dei furti, delle rapine e degli stupri commessi nel Lazio meridionale dalle bande di briganti provenienti dall’ex Regno delle Due Sicilie che, per sfuggire alla repressione dell’Esercito Italiano, varcavano il confine con lo Stato Pontificio, che dovette istituire il corpo speciale degli “Squadriglieri” per reprimerle.

Conclusione

La mistificazione anti-risorgimentale e anti-unitaria, oltre a essere una costruzione piuttosto recente, si dissolve come neve al sole di fronte a una corretta e documentata analisi storica. La denigrazione del periodo più importante della nostra storia nazionale, peraltro, non costituisce certamente un fatto innocente o casuale in un periodo in cui il grande capitale finanziario apolide ha puntato sul superamento degli Stati nazionali e sovrani a favore di organismi sovranazionali controllati dalle élites finanziarie. Non è un caso che, nei venticinque anni successivi al famigerato Trattato di Maastricht, una bassa informazione politico-giornalistica, assolutamente priva di pregio scientifico, abbia tentato di denigrare il processo storico attraverso il quale l’Italia conquistò la sua unità e la sua indipendenza. Gli Italiani del Mezzogiorno devono riscoprire la gloriosa storia del Risorgimento, che tra mille sacrifici ed eroismi ricongiunse i loro avi ai fratelli del Settentrione in una Patria comune. Il modo migliore per riscoprire la sola, autentica e spendibile tradizione politica nazionale, che è quella risorgimentale, consiste nel coltivare la memoria dei grandi patrioti meridionali che con il pensiero e con l’azione parteciparono alla costruzione dello Stato nazionale unitario. Tra loro ricordiamo qui i siciliani Ruggero Settimo, Francesco Bentivegna, Francesco Crispi, Rosolino Pilo e Michele Amari; i calabresi Michele Morelli, Domenico Romeo e Giovanni Nicotera; i lucani Domenico Corrado, Francesco e Giuseppe Venita e Francesco Petruccelli della Gattina; i pugliesi Nicolò Mignogna, Giuseppe Massari, Giuseppe Libertini e Giuseppe Fanelli; i campani Florestano e Guglielmo Pepe, Giuseppe Silvati, Luigi Settembrini, Carlo Pisacane, Carlo Poerio, Giacinto Albini, Francesco De Sanctis, Pasquale Stanislao Mancini, Carlo e Luigi Mezzacapo; gli abruzzesi Gabriele Rossetti, Cesare De Horatiis, Bertrando e Silvio Spaventa; i molisani Leopoldo Pilla e Francesco De Feo. Al loro fianco stanno i 30.000 anonimi e gloriosi volontari meridionali che nel 1860 marciarono vittoriosi dalla Sicilia al Volturno e tutti coloro che prima di loro credettero nell’Italia una e indipendente.

Luca Cancelliere

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Note

[1] Cfr. S. ColletA Unified Italy? The Investor Scepticism, 2012.

[2] L. Einaudi, Miti e paradossi della giustizia tributaria, Torino 19592, p. 274.

[3] Cfr. A. Caprarica, C’era una volta in Italia, Milano 2010.

[4] Cfr. A. Massafra (a cura di), Il Mezzogiorno preunitario: economia, società e istituzioni, Bari 1988; D. Demarco, Il crollo delle Regno delle Due Sicilie. La struttura sociale (1960), Napoli 2000.

[5] Cfr. V. Daniele – P. Malanima, Il divario Nord-Sud in Italia (1861-2011), Soveria Mannelli 2011.

[6] Cfr. E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, Bologna 2013.

[7] F. S. Nitti, Eroi e briganti (1899), Venosa 1987, p. 9.

[8] A. Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Bologna 2008, p. 222.

Speciale Risorgimento: la spedizione dei Mille e le bufale antitaliane (parte II)

Risorgimento


Roma, 25 gen – Seconda puntata di questo speciale dedicato al Risorgimento e alla critica delle teorie anti-italiane. 



La spedizione dei Mille e la conquista del Regno delle Due Sicilie
La prima e più nota accusa riguardante la spedizione dei Mille consiste nel presunto appoggio britannico. Come tuttavia ha ricordato la storica irlandese Lucy Riall: «Non vi è alcuna prova che il governo della Gran Bretagna avesse cospirato con Garibaldi per rovesciare la monarchia borbonica»[1]. Nella seduta parlamentare del 21 maggio 1860, il Ministro degli Esteri Lord Russell chiarì che la presenza dei due vascelli inglesi Argus e Intrepid a Marsala tre ore prima della comparsa delle navi garibaldine Piemonte e Lombardo il 12 maggio 1860 (noto “cavallo di battaglia” dagli scrittori revisionisti) era stata ordinata dalla Royal Navy per corrispondere alle richieste di protezione provenienti dai numerosi sudditi britannici aventi magazzini e attività commerciali a Marsala – ciò è assolutamente verosimile e corrispondente alla normale prassi delle relazioni internazionali in casi analoghi. Lo storico inglese George Macaulay Trevelyan conferma che le due navi britanniche non presero alcuna iniziativa in favore di Garibaldi né avrebbero potuto farlo, poiché perché avevano le caldaie spente ed erano ormeggiate al largo, con i loro comandanti a terra assieme a parte dell’equipaggio. La stretta neutralità britannica è confermata anche dal fatto che durante l’assedio di Palermo Giuseppe Garibaldi, rimasto quasi privo di munizioni, ricevette un diniego alla richiesta di polvere da sparo formulata ai comandanti delle navi britanniche ormeggiate al largo della costa.
Sulla presunta influenza britannica sul Risorgimento nazionale e in particolare sulla conquista del Sud devono essere formulate due obiezioni, la prima metodologica e la seconda di merito. L’obiezione metodologica è che la storia delle relazioni internazionali insegna che un processo di liberazione nazionale, sia esso condotto da un movimento rivoluzionario (come in Grecia nel 1821) o da una piccola potenza (come il Regno di Sardegna nel Risorgimento), deve necessariamente inserirsi nel gioco diplomatico delle grandi potenze. Questo fecero Cavour e i suoi successori interagendo ora con l’una, ora con l’altra potenza dell’epoca, in continuità con la tradizionale diplomazia sabauda dei secoli precedenti. L’obiezione di merito è che il Regno Unito, tra le potenze europee dell’epoca, ha dato un contributo all’unificazione italiana sicuramente inferiore, tanto per fare un esempio, alla Francia (alleata militare dell’Italia nella Seconda Guerra d’Indipendenza del 1859) e alla Prussia (alleata militare dell’Italia nella Terza Guerra d’Indipendenza del 1866 e alleata de facto nel 1870). L’atteggiamento delle potenze straniere verso le aspirazioni italiane è stato inoltre molto variabile durante il Risorgimento. Basti pensare alla Francia, che nella Prima Guerra d’Indipendenza (1848-1849) ha condotto una spedizione contro la Repubblica Romana, durante la Seconda Guerra d’Indipendenza (1859) è stata alleata militare del Regno di Sardegna, per poi essere sostanzialmente ostile al movimento nazionale italiano, come si vedrà dopo, a partire dalla spedizione dei Mille (1860) e fino alla Terza Guerra d’Indipendenza del 1866 (passando per Aspromonte e Mentana).  Il Regno Unito osteggiò decisamente la guerra franco-sarda contro l’Austria nel 1859, tanto che la Regina Vittoria scrisse il 9 dicembre 1858 al Ministro degli Esteri Malmesbury: «Tutto ciò che si può fare per distogliere il pensiero dell’Imperatore da un simile disegno, dovrebbe essere fatto». Successivamente, nel 1861 il Regno Unito agevolò da Malta la partenza della spedizione filo-borbonica e legittimista di Borjes nell’Italia meridionale, nonostante le rimostranze italiane. La Russia mantenne invece una posizione favorevole al Regno di Sardegna e poi al Regno d’Italia, a partire dalla proposta del 18 marzo 1859 di una conferenza internazionale per risolvere la questione italiana. Della Prussia si è già detto. La Realpolitik procede in modo completamente diverso dalle fantasiose ricostruzioni dei complottisti.
Un’analisi organica della spedizione garibaldina in Sicilia porta alla conclusione che ridurre la medesima alla sola “spedizione dei Mille” (in realtà 1089), partiti da Quarto (Genova) il 5 maggio 1860 e sbarcati a Marsala il 12 maggio 1860, è assai riduttiva. La rivoluzione in Sicilia era stata accuratamente preparata dai mazziniani Francesco Crispi e Rosolino Pilo. Il 4 aprile 1860 si era avuto il prologo della “rivolta della Gancia” a Palermo. Nello stesso mese vi erano state insurrezioni a Bagheria, Misilmeri, Capaci, Carini (epicentro della rivolta) e Piana dei Greci (oggi Piana degli Albanesi). Nelle campagne numerose bande di “picciotti” erano in armi e pronte a intervenire a seguito dello sbarco garibaldino. Inoltre dal 24 maggio al 3 settembre 1860 arrivarono in Sicilia ben 40 spedizioni navali provenienti dai porti di Genova e Livorno, che sbarcarono circa 20.000 volontari garibaldini. A questi si aggiunsero, nel corso della spedizione, quasi 30.000 insorti reclutati in Sicilia e, dopo che l’insurrezione lucana del 18 agosto 1860 consentì ai garibaldini il passaggio dello stretto di Messina (Melito di Porto Salvo, 19 agosto 1860), nel Mezzogiorno continentale. Alla vigilia della battaglia del Volturno l’esercito garibaldino, secondo Trevelyan, contava 50.000 uomini di cui 7.000 presidiavano la Sicilia, mentre gli altri 43.000 per metà presidiavano i territori appena conquistati e per metà si apprestavano a fronteggiare i borbonici nella battaglia finale del Volturno (26 settembre – 2 ottobre 1860).
L’altro “cavallo di battaglia” degli scrittori revisionisti è il presunto tradimento degli ufficiali del Regno delle Due Sicilie di fronte ai Mille. A riguardo è appena il caso di rammentare che, ammesso e non concesso che tale tradimento possa essere concretamente dimostrato (Angela Pellicciari e Gigi Di Fiore hanno potuto formulare solo illazioni prive di riscontri documentali), esso sarebbe semmai un’ulteriore dimostrazione dello stato di totale disfacimento e corruzione dell’amministrazione borbonica, elementi che sicuramente hanno rivestito un ruolo nella fine dell’ormai decrepito Regno delle Due Sicilie.
Secondo un’altra accusa revisionista, l’ingresso dei garibaldini a Napoli sarebbe stato favorito dalla camorra. Dopo la Restaurazione (1815), la debolezza del regime borbonico costrinse il Ministro di Polizia Francesco Saverio Del Carretto ad appoggiarsi alla criminalità organizzata, nella quale furono reclutati gli appartenenti alla setta reazionaria dei “Calderari”. Come ricorda Marc Monnier, la camorra «formava una specie di polizia scismatica, meglio istruita sui delitti comuni della polizia ortodossa, che occupavasi soltanto dei delitti politici»[2]Francesco Barbagallo ricorda che anche dopo il 1848 «la polizia borbonica, nella tutela dell’ordine pubblico, non mancò di servirsi dell’organizzazione camorristica»[3]Salvatore Lupo ricorda il patto intercorso tra la mafia e Salvatore Maniscalco, capo della polizia borbonica in Sicilia dal 1849 al 1860[4]. Lo stesso scrittore revisionista Gigi Di Fiore ammette che «sotto i Borboni la camorra era un’organizzazione tollerata in piena luce e richiesta di servigi non infrequenti. Ai tempi del cardinale Ruffo era lo stato maggiore delle orde reazionarie. Ai tempi del Del Carretto, capo della polizia, era l’alleato politico e poliziesco del governo. Là dove la sagacia dei commissarii e il braccio rude dei feroci non riusciva a colpire, riusciva la camorra» (1993). È peraltro ben nota l’accusa di William Gladstone contro il sistema giudiziario e penale borbonico: «Non descrivo severità accidentali, ma la violazione incessante, sistematica, premeditata delle leggi umane e divine; la persecuzione della virtù, quand’è congiunta a intelligenza, la profanazione della religione, la violazione di ogni morale, sospinte da paure e vendette, la prostituzione della magistratura per condannare uomini i più virtuosi ed elevati e intelligenti e distinti e culti; un vile selvaggio sistema di torture fisiche e morali. Effetto di tutto questo è il rovesciamento di ogni idea sociale, è la negazione di Dio eretta a sistema di governo». Nelle sue Memorie Giuseppe Garibaldi scrisse: «Dopo la ritirata di Francesco II il 6 settembre, e quella dell’esercito Borbonico da Napoli, la fiducia principale dei Sanfedisti, nella capitale, fondavasi sulla camorra». Ammissioni in tal senso da parte borbonica si rinvengono ad esempio nella lettera di Leopoldo di Borbone, conte di Siracusa e fratello del Re Ferdinando II di Borbone, scritta da Parigi alla madre il 16 febbraio 1848: «Carissima mamma (…) Il nome di Borboni, grazie alle inutili e barbare esecuzioni e grazie all’eccidio di tante centinaia di vittime sacrificate ad un principio che non è certo quello del bene dell’umanità, risveglia un’idea di orrore in tutti, siano italiani siano esteri».
Del resto, se lo stesso Liborio Romano, prefetto di polizia borbonico di Napoli, era un personaggio ambiguo, certo di questo dev’essere rimproverato Francesco II  che gli conferì tale incarico in tempo di pace, non chi ve lo trovò in tempo di guerra e pragmaticamente lo utilizzò per assicurare un ordinato passaggio di consegne una situazione di straordinaria necessità e urgenza. Del resto, è cosa nota che il capo della camorra napoletana Salvatore De Crescenzo fu arrestato nel 1862 e dopo di lui altri mille camorristi furono arrestati tra il 1863 e il 1864.
Un’ulteriore critica relativa alle modalità di annessione delle province meridionali è quella espressa a suo tempo da Antonio Gramsci, secondo cui la conquista del Sud sarebbe stata viziata dalla mancata riforma agraria attesa dalle popolazioni contadine. Detta interpretazione è stata organicamente confutata dallo storico Rosario Romeo. La prima obiezione alla teoria di Gramsci è metodologica. Gramsci sarebbe caduto in un anacronismo, attribuendo aspirazioni di tipo socialista e marxista ai contadini siciliani di metà Ottocento. Dal punto di vista delle relazioni internazionali, inoltre, una rivoluzione contadina avrebbe provocato l’intervento delle grandi potenze. Dal punto di vista prettamente economico, infine, la formazione di una piccola proprietà contadina, priva di risorse e competenze tecniche, avrebbe inibito lo sviluppo capitalistico delle aziende agrarie e l’accumulazione originaria del capitale necessaria al progresso economico.
Legata alla questione agraria in Sicilia è la jacquerie contadina di Bronte dell’agosto 1860. È questo un cavallo di battaglia tanto della storiografia marxista che della polemica revisionista anti-unitaria, a riguardo del quale è stata esercitato quel rovesciamento della verità tipico di certa falsificatrice propaganda pseudo-storica. Nel corso della rivolta furono bruciate decine di case, il teatro civico e la casa comunale. Furono massacrate sedici persone appartenenti a famiglie di proprietari terrieri, incluse donne e bambini. Seguì l’intervento dei reparti garibaldini guidati da Nino Bixio e, dopo sommario processo, l’inevitabile condanna ed esecuzione dei cinque responsabili. Con un’evidente manipolazione della realtà, tuttavia, quando si parla di “eccidio” di Bronte non ci si riferisce alla strage dei sedici cittadini di Bronte, ma all’esecuzione capitale dei responsabili dell’efferata strage.
Un cenno infine alla presunta vicenda del “Lager dei Savoia” di Fenestrelle in Piemonte, dove secondo la propaganda anti-risorgimentale sarebbero morti di stenti addirittura 8.000 prigionieri dell’esercito delle Due Sicilie ivi deportati dopo la resa del novembre 1860, i cui cadaveri sarebbero stati gettati nella calce viva. Di tali fatti, semplicemente, non esiste traccia nella pubblicistica ottocentesca di parte sia risorgimentale che legittimistaAlessandro Barbero ha ricostruito minuziosamente la vicenda dei prigionieri borbonici[5]. La stragrande maggioranza dei militari borbonici (60.000 uomini) fu arruolata nelle forze armate del Regno d’Italia. I prigionieri reclusi a Fenestrelle erano solo 1168, di cui solo quattro morirono durante la detenzione. Gli altri ebbero varie vicende dopo la liberazione, rientrando a casa o venendo arruolati nell’esercito del Regno d’Italia. (Continua)
Luca Cancelliere
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Note
[1] L. Riall, Il Sud e i conflitti sociali, in L’Unificazione, Treccani, Roma 2011.
[2] M. Monnier, La camorra. Notizie storiche raccolte e documentate, Firenze 18633, p. 84.
[3] F. Barbagallo, Storia della camorra, Roma-Bari 2010, p. 12.
[4] Cfr. S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Roma 1993.
[5] Cfr. A. Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, Roma-Bari 2012.