domenica 17 luglio 2016

“L’amor di patria” in Gaetano Filangieri

Gaetano Filangieri trattò in un apposito capitolo della "Scienza della Legislazione" il tema "Dell'amor della patria e della sua necessaria dipendenza dalla sapienza delle leggi e del governo".
Secondo  Vincenzo Ferrone, l'illuminista napoletano intendeva esporre con massima chiarezza un concetto  che si prestava ad essere considerato riduttivo e fuorviante per una società moderna da costruire.



"Non confondiamo le idee le più distinte tra loro. – scriveva Filangieri - Non abusiamo del sacro nome della patria per indicare quell'affezione al suolo natìo ch'è un appendice de' mali stessi delle civili unioni e che si può ritrovare così nella più corrotta, come nella più perfetta società".

L'amor di patria, dunque,  non poteva definirsi  con un semplice  riandare con la mente ai ricordi dell'infanzia, alla "culla", ad una primordiale appartenenza etnica. L'illuminismo apportava un amor di patria- nazione come amore delle virtù in una società repubblicana con il dovuto rispetto delle  sue leggi civili. Pertanto, secondo il Filangieri,  l’autentico amore per la nazione napoletana era fatto di ragione e volontà. Dovevano essere le virtù, i valori repubblicani a caratterizzare l'amore autentico per la nazione napoletana in quel Primo Settecento, un amore che doveva superare "l'amore di potere", insito purtroppo, sempre e naturalmente, in ogni società, e introdurre un amore nuovo nelle coscienze del popolo napoletano.
"Vi si deve introdurre, deve essere prima destato e poi adoperato". Così il Filangieri mostrava quanto quel  percorso richiedessero una graduale e necessaria evoluzione ai tempi nuovi affinchè potesse essere sentiro profondamente l’amor di patria.

Vincenzo Ferrone scrive che "il filosofo napoletano aveva subito colto la funzione politica e istituzionale che l'opinione pubblica stava assumendo come possibile forma di espressione della sovranità popolare nei confronti del dispotismo", che si nutriva dell'assenza di un autentico amor di patria incentrato sulle virtù e sui valori politici e civili condivisi. Inoltre, Gaetano Filangieri evidenziava quanto fosse deleterio accomunare uomini virtuosi e uomini corrotti entrambi appartenenti ad un’unica comunità in base ad un'errata concezione dell'amor di patria. 
L'amor di patria doveva esprimersi in un  rispetto virtuoso del nuovo sistema legislativo, che egli proponeva e diffondeva, che additava non solo alla nazione  napoletana ma al mondo intero.
Filangieri delineava un quadro  generale a cui avrebbero dovuto  attenersi la Nazione Napoletana e l’intero territorio meridionale per realizzare quel legame vero e sincero: diffusione della proprietà, abolizione delle differenze di status sociale; una istituzione di truppe civili al posto delle mercenarie, l’equa ripartizione delle ricchezze per il raggiungimento della  felicità, una giusta legislazione criminale, un piano d’istruzione pubblica, presupposto fondamentale per ampliare e fortificare i vincoli dell’unione civile della Nazione, eguale partecipazione al potere di tutti i cittadini, potere inteso come “amore della patria” e uomini virtuosi per l’attuazione della legislazione.
All'interrogativo su come diffondere tra il popolo l'amore per la patria e le sue leggi, su come affermare la passione dei cittadini per le virtù civiche, ossia su come superare la lunga stagione dell'antico regime e forgiare il nuovo cittadino, Filangieri esplicitò il ricorso agli insegnamenti e agli esempi dei grandi uomini della civiltà classica repubblicana greca e romana.
Il filosofo napoletano poneva le basi di quella che sarebbe stata la moderna cultura repubblicana, in opposizione a quell'antico regime che - come scrive testualmente Vincenzo Ferrone - " aveva smarrito i valori delle virtù civiche, dell'interesse collettivo a favore degli egoismi economici individuali", per cui egli riteneva che al più presto "occorresse ridare uno spazio adeguato al culto repubblicano degli eroi che si erano sacrificati per la collettività". Necessitava, secondo il filosofo napoletano,  nel secolo XVIII, rivisitare e aggiornare quanto, in termini di virtù e valori ideali civili, era stato elaborato dai grandi uomini nel passato repubblicano di Atene, Sparta e Roma, alla luce dei diritti dell’uomo moderno, di una rinnovata  passione politica e civile.
Il  Filangieri credeva nella funzione politica, civile e pedagogica del teatro, come scuola di virtù e sollecitava, pertanto, l’istituzione di teatri popolari a spese dello Stato in maniera da  garantire spettacoli a tutti i  cittadini, anche a quelli che vivevano come “ lazzari”, i primi che necessitavano di “una nuova religione civile che doveva predicare la pratica della virtù tra il popolo”.
A tal fine ricordava come ad Atene i cittadini stessi fossero attori.
Il Filangieri additava, pertanto, un nuovo concetto di “amor di patria” mirato a quella felicità dei popoli, quel sostantivo che sarebbe stato primariamente recepito nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America il 4 luglio 1776.



Bibliografia:
Vincenzo Ferrone, La società equa e giusta. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo,  in Gaetano Filangieri,  Bari, 2003
Elena Croce,  La Patria Napoletana, Milano, 1999

domenica 10 luglio 2016

Mistificazioni neoborboniche


di Marco Vigna

L’ultimo libro di Gigi Di Fiore, intitolato “La nazione napoletana”, è un omaggio alla galassia dei neoborbonici, di cui egli cita tutto il pantheon: i due capostipiti Carlo Alianello e Nicola Zitara, il presidente del movimento neoborbonico Gennaro De Crescenzo, l’immancabile Pino Aprile, il marittimo in pensione Antonio Ciano autore de “I Savoia e il massacro del sud”, Angelo Forgione conosciuto per il suo mescolare tifo da stadio e storia, Fiore Marro dei Comitati Due Sicilie, Nico Cimino fondatore della pagina Facebook “Briganti”, Marco Esposito ex assessore di Napoli, Vincenzo Guli del sedicente Parlamento delle Due Sicilie ecc. Nella bibliografia si trova citato anche Gilberto Oneto, leghista ed autore di “La strana unità”, pubblicata dalla casa editrice Il Cerchio.
Non vi sarebbe bisogno di aggiungere altro per far capire quale sia il tenore del testo di questo signore, comunque per dare un’idea del modus operandi di Gigi Di Fiore si può citare un solo modesto esempio. Nel suo ultimo libro egli sostiene che la fine della industria di Pietrarsa sarebbe stata dovuta allo stato italiano ed ad una sua presunta volontà di favorire industrie settentrionali: «Cominciò la graduale morte della fabbrica che anticipava decine di future dismissioni dell’industria meridionale, attraverso scelte di politica nazionale che privilegiavano altri mercati e altre collocazioni geografiche. Di pari passo, si alimento il mito dell’industria meridionale assistita, incapace di iniziative private se non sostenute da aiuti statali.» Egli propone la sua ricostruzione storica con un tono melodrammatico e dolente, tanto da terminare il capitolo con la seguente chiusura: «Il vanto dell’industria della Nazione napoletana e oggi un museo, con locomotive antiche e la statua di Ferdinando II ancora al suo posto. A futura memoria.»
Ma questo è un errore storico, poiché, nonostante ciò che scrive Luigi Di Fiore, la chiusura di Pietrarsa non è stata dovuta ad un supposto favoritismo verso le industrie settentrionali.
1) l’azienda chiuse nel 1975 (millenovecentosettantacinque), quindi 115 anni dopo che Garibaldi era giunto a Napoli. Pietrarsa aveva pertanto attraversato un periodo di oltre secolo assai denso di trasformazioni economiche, tecnologiche e di scelte politiche mutevoli, fra cui due guerre mondiali, quelle che sono definite la seconda e la terza rivoluzione industriale, la crisi finanziari del 1929, il miracolo economico italiano del dopoguerra, la fine della convertibilità del dollaro in oro.
La causa immediata della fine di Pietrarsa fu quella che viene chiamata la crisi petrolifera del 1973, che determinò per il 1974 ed il 1975 una grave recessione nell’economia mondiale con chiusura di innumerevoli aziende. Tuttavia, la ragione basilare era stata la scomparsa dell’impiego della trazione a vapore a favore di quella elettrica.

2) invece di essere scientemente “abbandonata” dallo stato italiano, Pietrarsa per un periodo di 15 anni subito dopo l’Unità visse principalmente proprio di commesse statali. Il suo fatturato dipendeva per oltre i 4/5 da lavori commissionati per le ferrovie, l’esercito o la marina. L’azienda inoltre non si autofinanziava, poiché il capitale con cui funzionava proveniva per lo più dal Banco di Napoli
L’incapacità di questa ditta di reggere il mercato era dovuto ai costi di produzione troppo elevati in confronto a quelli dei concorrenti, che erano determinati da una tecnologia superata.
Il suo vero declino però iniziò soltanto quando l’energia a vapore incominciò progressivamente ad essere abbandonata, quindi all’inizio del Novecento.
Inoltre, anche dopo il periodo della Destra storica, ossia in quello successivo della Sinistra storica, Pietrarsa poté contare sul sostegno pubblico, poiché dal 1878 essa tornò sotto diretto controllo dello stato.

[Su tutto ciò, si può consultare anzitutto A. Giuntini, “Ascesa e declino delle prime officine ferroviarie italiane. Appunti per una storia di Pietrarsa dalle origini al museo”, in “Storia economica”, anno IX, (n. 2-3), Napoli 2006.]
Il caso è facilmente riconoscibile. Per lunghi anni anche dopo il 1861 Pietrarsa rimase un’azienda che viveva grazie alle commesse statali ed ai capitali provenienti da una banca a capitale pubblico, non essendo in condizioni di resistere autonomamente alla concorrenza. Di fatto, era un’azienda che lavorava in perdita ma che era sostenuta dallo stato per ragioni di ordine politico e sociale. Già la sua fondazione sotto Ferdinando II aveva risposto ad un progetto di sviluppo basato sull’intervento dello stato, che però nel caso specifico non era riuscito a portare ad un’azienda realmente autonoma dall’aiuto pubblico. Lungi dal brigare per farla fallire, l’amministrazione italiana almeno per tutto il periodo della Destra storica proseguì nella sostanza il sostegno dato a Pietrarsa già dai governi borbonici. La definitiva chiusura dell’azienda è avvenuta soltanto nel 1975 ed ha avuto come causa il mutamento tecnologico con il passaggio delle locomotive alla trazione elettrica.
L'ipotesi di Gigi Di Fiore su Pietrarsa quale azienda condotta al fallimento per responsabilità principale dello stato italiano risulta pertanto priva di fondamento storico. Sul suo libro questo basti, sebbene di affermazioni storicamente discutibili esso “haccene più di millanta, che tutta notte canta”.