domenica 14 agosto 2016

I fatti di Pontelandolfo e Casalduni avvenuti nell’agosto del 1861 sono fra i più noti della lotta al brigantaggio e sono stati sovente impiegati come argomenti contro il Risorgimento e l’Unità d’Italia, anche da pubblicisti e giornalisti che hanno parlato di molte centinaia di morti per mano dei bersaglieri.
In realtà, la documentazione archivistica ricostruisce un quadro assai lontano. Esistono studi di storia locale che hanno esaminato analiticamente le vicende suddette. Si può ricordare anzitutto il saggio “Storia dei fatti di Pontelandolfo”, scritto dal Gr. Uff. dottor Ferdinando Melchiorre Pulzella, (a cui è stata concessa la cittadinanza onoraria proprio da questo comune per i suoi meriti scientifici), che valuta le vittime fra i civili in numero di quindici, precisamente tredici a Pontelandolfo e due a Casalduni, 
Una cifra quasi equivalente è proposta da un altro ricercatore storico, Davide Fernando Panella, autore del saggio “L'incendio di Pontelandolfo e Casalduni: 14 agosto 1861”, Questo studio si è basato su documenti parzialmente o totalmente inediti ed in più esaminando le fonti già in precedenza conosciute e la bibliografia sul tema, in modo da avere un quadro complessivo il più completo possibile attuato anche con il confronto delle diverse fonti fra loro. Panella ha analizzato i libri dei morti degli archivi parrocchiali di questi due paesi ed una memoria scritta dal parroco di Fragneto Monforte: tutti questi documenti furono redatti da sacerdoti che furono testimoni oculari dell’accaduto e sono stati scritti con grande precisione e cura dei dettagli. Panella riporta nel suo studio l’elenco dei morti dovuti alla rappresaglia, mostrando come il Registro dei defunti della parrocchia Santissimo Salvatore di Pontelandolfo li enumeri ad uno ad uno, indicandone nome, cognome, genitori, età, causa della morte (ucciso in casa, ucciso per strada, morto per le fiamme ecc.).
Questo ricercatore può così fornire un quadro esatto delle vittime immediate della rappresaglia, riportandone tutte le generalità anagrafiche, il luogo di sepoltura e naturalmente il numero totale: i morti del 14 agosto furono 13, di cui 10 vennero intenzionalmente uccisi, mentre 3 morirono bruciati. Costoro erano persone anziane, che presumibilmente non erano riuscite a sfuggire alle fiamme. Fra questi 13 morti, 11 erano uomini e 2 donne, rispettivamente di 94 e 18 anni. Non risultano adolescenti o bambini fra le vittime.

Panella ha anche il merito di provare l’imprecisione con cui sovente si è scritto sui fatti di Pontelandolfo e Casalduni. Ad esempio, egli ricorda che quando si parla dell’incendio di Casalduni si riferisce frequentemente che il vecchio arciprete Giovanni Corbo sarebbe stato ucciso a fucilate dai bersaglieri. Consultando il libro dei morti di questa parrocchia Panella ha invece scoperto che questo anziano sacerdote non morì il giorno dell’incendio, tanto che questo ecclesiastico stesso iniziò a redigere personalmente pochi giorni più tardi, il 18 agosto 1861, un altro registro dei decessi, nel quale menzionava anche la rappresaglia. Don Giovanni Corbo mori nella primavera dell’anno successivo, il 27 marzo 1862, nell’abitazione in cui allora risiedeva e dopo aver ricevuto i sacramenti.
La documentazione degli archivi contrasta nettamente con quanto sostiene, fra gli altri, il signor Luigi Di Fiore nel suo ultimo libro, “La nazione napoletana”. Costui sostiene, servendosi dello suo stile che lo accomuna ad altri autori della sua medesima corrente, che a Pontelandolfo vi sarebbe stato: 
«Un eccidio spaventoso e violento, con 164 morti dichiarati, tutti civili di ogni sesso ed età. Tanti corpi non furono mai censiti, perche rimasti sotto le case bruciate. Il paese fu infatti completamente raso al suolo, fatta eccezione per tre case di riconosciuti liberali. Un episodio che ricorda i massacri delle giubbe blu americane nei villaggi di pellerossa. Gli stupri, le fucilazioni, i furti dei soldati non si contarono.»
A prescindere dall’inverosimile paragone fra episodi delle “guerre indiane” nell’Ovest americano e la campagna contro il brigantaggio in Italia meridionale, i morti accertati non risultano 164, ma 13, secondo quanto può asserire Panella sulla base dell’archivio locale.

Inoltre il paese non fu affatto raso al suolo per intero tranne tre case, come dimostrano già solo gli edifici risalenti al Medioevo od all’era moderna che tutt’ora esistono, fra cui l’archivio parrocchiale vulnerabilissimo agli incendi per il suo contenuto. Infatti, una volta partiti i soldati, gli abitanti allontanatasi ritornarono in paese e riuscirono a spegnere la maggioranza degli incendi appiccati. Il paese subì danni materiali, ma non fu cancellato, tanto che il censimento del 1861 gli attribuiva 4375 abitanti, saliti a 5079 nel 1871.
Restando a Di Fiore, egli giunge a citare, nel tentativo di supportare l’idea di un eccidio di grandi dimensioni, quel che scrive Gabriele Palladino, presentato come “funzionario e addetto stampa del comune di Pontelandolfo.
”Questo impiegato comunale aveva parlato “di una cripta nella chiesa dell’Annunziata in paese, oggi sconsacrata e diventata tempio dell’Annunziata, dove vennero ritrovati migliaia di resti umani. Ricorda Palladino: «Intorno agli anni ’80 del secolo scorso, e io ero presente a quelle operazioni, fu scoperta una sorta di montagna di ossa, di teschi.»

La chiesa dell’Annunziata esisteva già nel 1525, prima data in cui viene attestata la sua esistenza che era però certamente anteriore. Accanto ad essa esisteva l’ospedale ossia il lazzaretto. Lo storico locale Daniele Perugini afferma che, secondo l’uso diffuso in tutta Europa prima del secolo XVIII, all’interno della chiesa erano seppelliti i defunti, nella fattispecie quelli delle molte pestilenze che colpirono la città nei secoli. Sono pertanto questi i corpi che erano stati ritrovati alla fine del secolo XIX in una chiesa che era stata impiegata per almeno trecento anni, dal Cinquecento al Settecento, quale luogo di sepoltura.

Un altro caso di imprecisione storica su Pontelandolfo è stato riferito dal Panella durante un convegno dedicato al tema “Il brigantaggio nell’Alto Tammaro”, svoltosi con presenza di molti studiosi e ricercatori. Panella ha citato due testi, il primo d’un giornalista che in anni recenti ha scritto anche su Pontelandolfo e Casalduni, il secondo tratto dall’archivio parrocchiale. Questo giornalista, Pino Aprile nel suo “Terroni”, ha affermato che una donna di Pontelandolfo, di nome Maria Izzo, per la sua bellezza sarebbe stata appetita dai bersaglieri, cosicché fu legata ad un albero nuda per essere violentata, prima d’essere uccisa con una baionetta nella pancia. L’archivio parrocchiale, redatto da testimoni oculari, riporta invece che Maria Izzo aveva 94 anni (novantaquattro anni) e che morì arsa nell’incendio della propria abitazione.
Appare evidente da questi cinque semplici esempi come una certa letteratura abbia offerto un quadro inesatto dei fatti di Pontelandolfo e Casalduni, giacché discorda in modo netto da quanto viene riportato e provato dalle fonti archivistiche: un arciprete morto serenamente molti mesi più tardi è stato presentato come ucciso dai bersaglieri durante la rappresaglia; una quasi centenaria di 94 anni perita nell’incendio della propria abitazione è stata spacciata per una donna bellissima violentata ed uccisa con una baionettata dai soldati; i 13 morti accertati diventano 164 ed oltre; una cripta usata come cimitero per secoli e secoli è considerata quale luogo di sepoltura delle sole vittime della rappresaglia; Pontelandolfo è descritto quale un paese raso al suolo, mentre invece ha continuato ad esistere ed ad essere abitato senza soluzione di continuità, pur avendo subito danni dagli incendi.


domenica 17 luglio 2016

“L’amor di patria” in Gaetano Filangieri

Gaetano Filangieri trattò in un apposito capitolo della "Scienza della Legislazione" il tema "Dell'amor della patria e della sua necessaria dipendenza dalla sapienza delle leggi e del governo".
Secondo  Vincenzo Ferrone, l'illuminista napoletano intendeva esporre con massima chiarezza un concetto  che si prestava ad essere considerato riduttivo e fuorviante per una società moderna da costruire.



"Non confondiamo le idee le più distinte tra loro. – scriveva Filangieri - Non abusiamo del sacro nome della patria per indicare quell'affezione al suolo natìo ch'è un appendice de' mali stessi delle civili unioni e che si può ritrovare così nella più corrotta, come nella più perfetta società".

L'amor di patria, dunque,  non poteva definirsi  con un semplice  riandare con la mente ai ricordi dell'infanzia, alla "culla", ad una primordiale appartenenza etnica. L'illuminismo apportava un amor di patria- nazione come amore delle virtù in una società repubblicana con il dovuto rispetto delle  sue leggi civili. Pertanto, secondo il Filangieri,  l’autentico amore per la nazione napoletana era fatto di ragione e volontà. Dovevano essere le virtù, i valori repubblicani a caratterizzare l'amore autentico per la nazione napoletana in quel Primo Settecento, un amore che doveva superare "l'amore di potere", insito purtroppo, sempre e naturalmente, in ogni società, e introdurre un amore nuovo nelle coscienze del popolo napoletano.
"Vi si deve introdurre, deve essere prima destato e poi adoperato". Così il Filangieri mostrava quanto quel  percorso richiedessero una graduale e necessaria evoluzione ai tempi nuovi affinchè potesse essere sentiro profondamente l’amor di patria.

Vincenzo Ferrone scrive che "il filosofo napoletano aveva subito colto la funzione politica e istituzionale che l'opinione pubblica stava assumendo come possibile forma di espressione della sovranità popolare nei confronti del dispotismo", che si nutriva dell'assenza di un autentico amor di patria incentrato sulle virtù e sui valori politici e civili condivisi. Inoltre, Gaetano Filangieri evidenziava quanto fosse deleterio accomunare uomini virtuosi e uomini corrotti entrambi appartenenti ad un’unica comunità in base ad un'errata concezione dell'amor di patria. 
L'amor di patria doveva esprimersi in un  rispetto virtuoso del nuovo sistema legislativo, che egli proponeva e diffondeva, che additava non solo alla nazione  napoletana ma al mondo intero.
Filangieri delineava un quadro  generale a cui avrebbero dovuto  attenersi la Nazione Napoletana e l’intero territorio meridionale per realizzare quel legame vero e sincero: diffusione della proprietà, abolizione delle differenze di status sociale; una istituzione di truppe civili al posto delle mercenarie, l’equa ripartizione delle ricchezze per il raggiungimento della  felicità, una giusta legislazione criminale, un piano d’istruzione pubblica, presupposto fondamentale per ampliare e fortificare i vincoli dell’unione civile della Nazione, eguale partecipazione al potere di tutti i cittadini, potere inteso come “amore della patria” e uomini virtuosi per l’attuazione della legislazione.
All'interrogativo su come diffondere tra il popolo l'amore per la patria e le sue leggi, su come affermare la passione dei cittadini per le virtù civiche, ossia su come superare la lunga stagione dell'antico regime e forgiare il nuovo cittadino, Filangieri esplicitò il ricorso agli insegnamenti e agli esempi dei grandi uomini della civiltà classica repubblicana greca e romana.
Il filosofo napoletano poneva le basi di quella che sarebbe stata la moderna cultura repubblicana, in opposizione a quell'antico regime che - come scrive testualmente Vincenzo Ferrone - " aveva smarrito i valori delle virtù civiche, dell'interesse collettivo a favore degli egoismi economici individuali", per cui egli riteneva che al più presto "occorresse ridare uno spazio adeguato al culto repubblicano degli eroi che si erano sacrificati per la collettività". Necessitava, secondo il filosofo napoletano,  nel secolo XVIII, rivisitare e aggiornare quanto, in termini di virtù e valori ideali civili, era stato elaborato dai grandi uomini nel passato repubblicano di Atene, Sparta e Roma, alla luce dei diritti dell’uomo moderno, di una rinnovata  passione politica e civile.
Il  Filangieri credeva nella funzione politica, civile e pedagogica del teatro, come scuola di virtù e sollecitava, pertanto, l’istituzione di teatri popolari a spese dello Stato in maniera da  garantire spettacoli a tutti i  cittadini, anche a quelli che vivevano come “ lazzari”, i primi che necessitavano di “una nuova religione civile che doveva predicare la pratica della virtù tra il popolo”.
A tal fine ricordava come ad Atene i cittadini stessi fossero attori.
Il Filangieri additava, pertanto, un nuovo concetto di “amor di patria” mirato a quella felicità dei popoli, quel sostantivo che sarebbe stato primariamente recepito nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America il 4 luglio 1776.



Bibliografia:
Vincenzo Ferrone, La società equa e giusta. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo,  in Gaetano Filangieri,  Bari, 2003
Elena Croce,  La Patria Napoletana, Milano, 1999

domenica 10 luglio 2016

Mistificazioni neoborboniche


di Marco Vigna

L’ultimo libro di Gigi Di Fiore, intitolato “La nazione napoletana”, è un omaggio alla galassia dei neoborbonici, di cui egli cita tutto il pantheon: i due capostipiti Carlo Alianello e Nicola Zitara, il presidente del movimento neoborbonico Gennaro De Crescenzo, l’immancabile Pino Aprile, il marittimo in pensione Antonio Ciano autore de “I Savoia e il massacro del sud”, Angelo Forgione conosciuto per il suo mescolare tifo da stadio e storia, Fiore Marro dei Comitati Due Sicilie, Nico Cimino fondatore della pagina Facebook “Briganti”, Marco Esposito ex assessore di Napoli, Vincenzo Guli del sedicente Parlamento delle Due Sicilie ecc. Nella bibliografia si trova citato anche Gilberto Oneto, leghista ed autore di “La strana unità”, pubblicata dalla casa editrice Il Cerchio.
Non vi sarebbe bisogno di aggiungere altro per far capire quale sia il tenore del testo di questo signore, comunque per dare un’idea del modus operandi di Gigi Di Fiore si può citare un solo modesto esempio. Nel suo ultimo libro egli sostiene che la fine della industria di Pietrarsa sarebbe stata dovuta allo stato italiano ed ad una sua presunta volontà di favorire industrie settentrionali: «Cominciò la graduale morte della fabbrica che anticipava decine di future dismissioni dell’industria meridionale, attraverso scelte di politica nazionale che privilegiavano altri mercati e altre collocazioni geografiche. Di pari passo, si alimento il mito dell’industria meridionale assistita, incapace di iniziative private se non sostenute da aiuti statali.» Egli propone la sua ricostruzione storica con un tono melodrammatico e dolente, tanto da terminare il capitolo con la seguente chiusura: «Il vanto dell’industria della Nazione napoletana e oggi un museo, con locomotive antiche e la statua di Ferdinando II ancora al suo posto. A futura memoria.»
Ma questo è un errore storico, poiché, nonostante ciò che scrive Luigi Di Fiore, la chiusura di Pietrarsa non è stata dovuta ad un supposto favoritismo verso le industrie settentrionali.
1) l’azienda chiuse nel 1975 (millenovecentosettantacinque), quindi 115 anni dopo che Garibaldi era giunto a Napoli. Pietrarsa aveva pertanto attraversato un periodo di oltre secolo assai denso di trasformazioni economiche, tecnologiche e di scelte politiche mutevoli, fra cui due guerre mondiali, quelle che sono definite la seconda e la terza rivoluzione industriale, la crisi finanziari del 1929, il miracolo economico italiano del dopoguerra, la fine della convertibilità del dollaro in oro.
La causa immediata della fine di Pietrarsa fu quella che viene chiamata la crisi petrolifera del 1973, che determinò per il 1974 ed il 1975 una grave recessione nell’economia mondiale con chiusura di innumerevoli aziende. Tuttavia, la ragione basilare era stata la scomparsa dell’impiego della trazione a vapore a favore di quella elettrica.

2) invece di essere scientemente “abbandonata” dallo stato italiano, Pietrarsa per un periodo di 15 anni subito dopo l’Unità visse principalmente proprio di commesse statali. Il suo fatturato dipendeva per oltre i 4/5 da lavori commissionati per le ferrovie, l’esercito o la marina. L’azienda inoltre non si autofinanziava, poiché il capitale con cui funzionava proveniva per lo più dal Banco di Napoli
L’incapacità di questa ditta di reggere il mercato era dovuto ai costi di produzione troppo elevati in confronto a quelli dei concorrenti, che erano determinati da una tecnologia superata.
Il suo vero declino però iniziò soltanto quando l’energia a vapore incominciò progressivamente ad essere abbandonata, quindi all’inizio del Novecento.
Inoltre, anche dopo il periodo della Destra storica, ossia in quello successivo della Sinistra storica, Pietrarsa poté contare sul sostegno pubblico, poiché dal 1878 essa tornò sotto diretto controllo dello stato.

[Su tutto ciò, si può consultare anzitutto A. Giuntini, “Ascesa e declino delle prime officine ferroviarie italiane. Appunti per una storia di Pietrarsa dalle origini al museo”, in “Storia economica”, anno IX, (n. 2-3), Napoli 2006.]
Il caso è facilmente riconoscibile. Per lunghi anni anche dopo il 1861 Pietrarsa rimase un’azienda che viveva grazie alle commesse statali ed ai capitali provenienti da una banca a capitale pubblico, non essendo in condizioni di resistere autonomamente alla concorrenza. Di fatto, era un’azienda che lavorava in perdita ma che era sostenuta dallo stato per ragioni di ordine politico e sociale. Già la sua fondazione sotto Ferdinando II aveva risposto ad un progetto di sviluppo basato sull’intervento dello stato, che però nel caso specifico non era riuscito a portare ad un’azienda realmente autonoma dall’aiuto pubblico. Lungi dal brigare per farla fallire, l’amministrazione italiana almeno per tutto il periodo della Destra storica proseguì nella sostanza il sostegno dato a Pietrarsa già dai governi borbonici. La definitiva chiusura dell’azienda è avvenuta soltanto nel 1975 ed ha avuto come causa il mutamento tecnologico con il passaggio delle locomotive alla trazione elettrica.
L'ipotesi di Gigi Di Fiore su Pietrarsa quale azienda condotta al fallimento per responsabilità principale dello stato italiano risulta pertanto priva di fondamento storico. Sul suo libro questo basti, sebbene di affermazioni storicamente discutibili esso “haccene più di millanta, che tutta notte canta”.

domenica 12 giugno 2016

Giuseppe Decina, prigioniero dei briganti

Dalla biografia del patriota Luigi Toro ed il libro del suo discepolo Nicola Borrelli, emerge quanto  il brigantaggio fosse una piaga endemica nel territorio di Terra di Lavoro, ai confini con lo Stato Pontificio, dove operavano le bande di Francesco Guerra e Domenico Fuoco.
Fa riflettere la triste vicenda del tredicenne Giuseppe Decina rapito dai briganti e costretto a vivere con loro fino alla consegna del riscatto da parte della famiglia .
Era un giorno di fine estate del 1865 quando, al calar della sera, il ragazzo fu catturato, mentre con il suo garzone conducevano le bestie a Pescasseroli. Una ventina di briganti con a capo Domenico Fuoco intimarono al garzone di recarsi dalla famiglia Decina per chiedere un riscatto di mille ducati. “La via che percorremmo non saprei indicarla perché fatta di notte . Camminammo molte ore ascendendo una montagna e ci fermammo ad una grotta dove trovammo altri briganti, tra cui Guerra con la moglie”- dichiarò in seguito Giuseppe al Comandante della Frontiera Pontificia, presso il distaccamento di Sora, come riportato nel verbale dell’ 11 novembre 1865 , avente per oggetto “Liberazione di Decina Giuseppe , prigioniero dei Briganti” e inviato al Comandante del Dipartimento Militare – Ufficio Territoriale di Napoli.

L’ampio verbale costituisce una preziosa testimonianza storica in relazione anche al modo di vivere dei briganti capeggiati da Francesco Guerra e Domenico Fuoco, essendo il ragazzo stato con loro per ben due mesi, tempo impiegato dalla famiglia per racimolare il denaro richiesto. Il ragazzo fu fortemente impressionato dalla vita promiscua dei briganti che, anche facendo venire sulla montagna “qualche malafemmina”, consumavano libere oscenità sessuali a cui volevano costringere a partecipare lo stesso ragazzino che ogni volta si era rifiutato  sdegnosamente.
Tra altri particolari Giuseppe raccontò come fosse costretto in quella grotta a leggere ai suoi carcerieri  le avventure di  Guerrin Meschino, un'opera letteraria  a metà strada fra la favola e il romanzo cavalleresco, la cui prima edizione era stata scritta intorno al 1410 dal trovatore italiano Andrea da Barberino. Guerrino era una sorta di condottiero dei poveri e le sue avventure  piacevano tanto al brigante Francesco Guerra la cui compagna, Michelina De Cesare , “si sgravò in quella grotta di un maschio che chiamò Michelangelo”.
Giuseppe raccontò come la lettura del Guerrin Meschino, lo avesse salvato dalle minacce di Domenico Fuoco di recidergli le orecchie. Più volte era stato difeso da Francesco Guerra solo perché quella lettura gli  era particolarmente gradita.
Il verbale aggiunge che “Fuoco raccontava di essere stato nominato Aiutante con decreto del Borbone e di avere avuto assicurazioni che presto gli sarebbe giunto il decreto di Capitano”.
E’ questa un’ulteriore conferma di quanto i briganti si sentissero graduati borbonici autorizzati ad entrare nei paesi sventolando la bandiera gigliata ed  inneggiando a Francesco II, alla Regina Maria Sofia e a Pio IX.
Portavano anelli di zinco fatti distribuire dai Borbone ed ogni sorta di oggetto che credevano li proteggesse dal malocchio e dalla malasorte come anche filtri e porzioni per unire o dividere. Una vita, la loro,  intrisa di superstizione ed egregiamente descritta dall’antropologo Ernesto De Martino nel suo testo “Sud e Magia”. La parte finale dell’ampio verbale redatto riporta la descrizione dei banditi Guerra e Fuoco fornita dal tredicenne rapito, che si soffermò  anche nella descrizione degli orecchini indossati dai briganti. Quando arrivò la somma del riscatto “pagato in Lire 900 circa” il giovanissimo Decima fu trattenuto ancora per due giorni,  il tempo necessario per finire la lettura del Guerrin Meschino.


Categoria principale: Storia
Categoria: Storia del Risorgimento
Creato Domenica, 12 Giugno 2016 18:55
Ultima modifica il Domenica, 12 Giugno 2016 19:10
Pubblicato Domenica, 12 Giugno 2016 18:55
Scritto da Angelo Martino

Bibliografia
M. Lunardelli, Guardie e ladri. L'unità d'Italia e la lotta al brigantaggio, Torino, 2010

domenica 29 maggio 2016

Carmine Crocco, un brigante nella grande storia


29 MAGGIO 2016 di Dino Messina
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Gli attenti lettori del “Corriere della sera” al nome di Corleto Perticara, paese lucano di 2500 abitanti, assoceranno subito il giacimento petrolifero di Tempa Rossa e l’inchiesta giudiziaria che la Procura di Potenza sta conducendo. Il Comune della val d’Agri su cui sono stati proiettati i riflettori nazionali in realtà ebbe un momento di notorietà ben più vasto e attrasse l’attenzione nientemeno che di Federico Engels, l’economista e filosofo collaboratore di Carlo Marx quando in un articolo apparso sul “New York Daily Tribune” il 21 settembre 1860, a commento della straordinaria spedizione dei Mille, definita “una delle più sensazionali imprese militari del secolo”, individuò in “Carletto Perticara” (sic!) il centro propulsore del movimento insurrezionale in Basilicata. Un movimento, dicono gli storici del Risorgimento, che fu determinante nell’alleggerire la pressione su Garibaldi, facilitarne lo sbarco di Calabria e accelerare la sua marcia nelle regioni continentali.
Questa pillola di erudizione è frutto della lettura della biografia che lo storico Ettore Cinnella ha dedicato a un personaggio che l’Unità nazionale la combatté: Carmine Crocco (1830-1905), il più temuto brigante dell’Ottocento, a capo di un esercito di oltre mille ribelli che nessun generale piemontese sapeva domare. Soltanto il tradimento di un suo compagno d’armi (Giuseppe Caruso) riuscì a sconfiggerlo.
La biografia scritta da Cinnella, che ha insegnato storia dell’Europa orientale all’università di Pisa e di solito si occupa di Rivoluzione russa e dintorni, torna ora per i tipi di Della Porta Editori in una versione arricchita di una postfazione, che pone alcune questioni di metodo e offre un’interpretazione complessiva del “brigantaggio”. Non fu semplicemente una reazione dei lealisti borbonici alla conquista regia sabauda; né soltanto un movimento armato con connotazioni di classe; né un’esplosione spontanea della plebe contro i soprusi e i provvedimenti drastici imposti dal governo piemontese, primo fra tutti la leva obbligatoria; o lo scioglimento dell’esercito garibaldino che spinse le camicie rosse del Nord a rientrare deluse al più presto alle attività domestiche e tanti combattenti del Sud, in un contesto sociale più difficile, a darsi alla macchia.
Carmine Crocco era già un bandito temuto nel 1860. Né si può confondere il suo nome con quello dei patrioti liberali, come Giacomo Racioppi, Michele Lacava, Carmine Senise, Emilio Petrucelli. Tuttavia sarebbe negare l’evidenza dei fatti se non si raccontasse che durante i moti risorgimentali, che culminarono il 18 agosto nella “liberazione” di Potenza, un ruolo militare importante lo ebbe anche il bandito di Rionero in Vulture, chiamato con i suoi compari a dare manforte all’insurrezione. Ne furono testimoni il grande meridionalista Giustino Fortunato, allora un ragazzo dodicenne, che vide “Crocco venire innanzi, alto magro e mobilissimo nella persona, con la fascia tricolore al fianco ed il berretto della guardia nazionale in campo”.
Anche un testimone al processo celebrato a Potenza contro il bandito nel 1872, il canonico Luigi Rubino, disse che Crocco “si mostrava con entusiasmo attaccato al Nazionale Risorgimento…”.
Qualcuno dei maggiorenti liberali gli aveva promesso che i suoi precedenti reati sarebbero stati condonati, ma le promesse non furono mantenute e dopo la denuncia di una guardia nazionale che era stata sequestrata dalla sua banda, Crocco si diede nuovamente alla macchia. Arrestato brevemente, riuscì ad evadere e dal 1861 cominciò la nuova carriera del brigante più temuto del Sud: nella sua banda acquartierata nei boschi attorno ai laghi di Monticchio confluirono sbandati dell’esercito borbonico, renitenti alla leva, altri fuorilegge.
Tra i figuri della banda Crocco, le cui imprese fanno parte dell’epica popolare locale, spiccano Vincenzo Mastronardi, Michele Larotonda e Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco-Nanco, rinomato per la ferocia.
Prima della comparsa in Basilicata di un gentiluomo bretone, Augustin Marie Olivier de Langlais, le macabre imprese della banda Crocco (sequestri, omicidi, assalti ai villaggi) non ebbero colorazione politica. Fu sotto la regìa di questo lealista francese che Carmine Crocco, a capo ormai di 43 bande e di oltre mille uomini, da semplice fuorilegge divenne “generale” al servizio dei Borbone, per riportare sul trono lo spodestato Francesco II.
Un altro personaggio cruciale nella carriera antirisorgimentale di Crocco fu il nobile spagnolo José Borges: fedele alla causa dei Borbone più del francese, cercò di prendere il comando delle bande di Crocco senza riuscirvi. Finì fucilato da un plotone piemontese mentre il Langlais, che era la vera mente delle insorgenze lealiste in Basilicata, cui Crocco faceva riferimento, riuscì a riparare in Francia.
Nell’agosto 1864, pressato dalla morsa predisposta dall’abile generale sabaudo Emilio Pallavicini di Priola, con il determinante aiuto del “traditore” Caruso, Carmine Crocco scappò nello Stato pontificio, dove credeva di poter vivere con i denari che aveva portato con sé. Ma venne arrestato a Roma. Rimase in carcere fino al 1867, quando, scrive Cinnella, “il governo pontificio tentò di liberarsene procurandogli un passaporto francese”. Ma a Marsiglia fu di nuovo arrestato e rimandato nello Stato pontificio: venne rinchiuso nella fortezza di Paliano, nei pressi di Frosinone, “dove rimase fino all’arrivo dell’esercito italiano nel 1870”.
Crocco tornò in Basilicata per la celebrazione del processo a Potenza nel 1872. La condanna a morte, per volere del re, gli venne commutata in ergastolo. Morì nel carcere di Portoferraio a 75 anni. Agli eredi lasciò 6 calze di cotone, una maglia di cotone e una di lana, due berretti da notte.
Il racconto di Cinnella, saggista dalla prosa nitida e coinvolgente, si ispira alla storiografia classica sul brigantaggio, da Pasquale Villari a Franco Molfese, ma soprattutto è basato sui documenti dell’epoca. Innanzitutto le varie autobiografie di Carmine Crocco (fondamentale la versione messa in italiano dal capitano Eugenio Massa) e le interviste che vari studiosi della scuola lombrosiana dedicarono ai vari briganti. Come lo storico di vaglia deve saper fare, Cinnella risale dalla foglia alla foresta. Partendo dalla descrizione della controversa vicenda umana di un pastore semianalfabeta del Sud più arretrato, l’autore ci offre un quadro d’insieme del fenomeno del brigantaggio meridionale.
Dino Messina

mercoledì 11 maggio 2016

Corrado Gini smonta Francesco Saverio Nitti

Francesco Saverio Nitti
Ricorre con relativa frequenza nella storiografia dilettantesca o nella pubblicistica il richiamo a quanto ebbe a scrivere Francesco Saverio Nitti in un suo saggio pubblicato nell’anno 1900, “Il bilancio dello stato dal 1862 al 1896-1897”, ripubblicato successivamente in “Scritti sulla questione meridionale”. Ciò che asseriva il Nitti è noto, cosicché non è necessario riprenderlo per esteso: in pratica egli sosteneva che il Mezzogiorno fosse stato svantaggiato dalle politiche economiche dello stato italiano per quasi un quarantennio, versando in tasse ed imposte più di quanto ricevesse come investimenti ed in generale risorse. Questa ipotesi era il cardine di quella, più ampia ed articolata, secondo cui la causa principale del dualismo economico nord/sud sarebbe stato proprio il drenaggio di risorse finanziarie dal mezzogiorno al settentrione.


Corrado Gini
Il sociologo, economista e statistico Corrado Gini, conosciuto in tutto il mondo per il suo “coefficiente di Gini” tutt’ora utilizzato per misurare le disuguaglianze socio-economiche, analizzò l’ipotesi di Nitti nel suo saggio “L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni”, pubblicato nel 1910. Il Gini esaminò e smontò, pezzo a pezzo e con argomentazioni serrate di ordine matematico, quanto aveva sostenuto il Nitti. Questo illustre statistico ebbe modo di provare inoltre che lo scritto dell’importante politico e storico meridionalista era stato viziato da manipolazioni, per non dire falsificazioni. In ogni caso, il Gini poteva concludere che, dati statistici alla mano, il Mezzogiorno non aveva ricevuto dallo stato meno di quanto avesse versato nel periodo 1862-1897, anzi era avvenuto il contrario.
Quanto sostenuto sul punto suddetto ne “L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni” non ricevette nessuna replica o contestazione, neppure dal Nitti stesso. Di fatto, chiuse la questione per quanto riguardava la distribuzione regionale delle risorse dello stato italiano nel suo primo quarantennio di vita. A distanza di oltre un secolo, si ritrovano però persone che riprendono i contenuti de “Il bilancio dello stato dal 1862 al 1896-1897”, ignorando del tutto il successivo studio del Gini del 1910.
Nicola Zitara
Zitara ad esempio, che è stato il tramite fra divulgatori puri e semplice quale Aprile o Del Boca ed il dibattito fra Nitti e Gini, si limitava ad osservare in modo sibillino (in “L’Unità d’Italia: nascita di una colonia”) che gli era difficile stabilire chi fra i due avesse ragione, perché l’argomento non era più stato ripreso da specialisti di storia delle finanze (sic!). Questo pubblicista gramsciano non si rendeva conto, o fingeva di non rendersi conto, che nessuno aveva più esaminato di nuovo la questione poiché il Gini aveva detto la parola definitiva, giacché i dati ed i calcoli da egli presentati sono apparsi umanamente incontestabili e difatti sono rimasti da allora incontestati.
di Marco VIgna

giovedì 3 marzo 2016

I giustiziati di Napoli dal 1556 al 1862


Chi sostiene che i viaggi nel tempo non esistono non conosce Antonella Orefice. I suoi libri sono scrigni magici che superano ogni confine visibile, sono contenitori di memoria, odori, pensieri, intenzioni, lacrime, dolori, gioie, amori, sentimenti confusi e nascosti dallo scorrere inesorabile di un tempo frettoloso.
Con rispetto e in punta di piedi Antonella racconta pagina dopo pagina, in un libro che è il vero testamento delle tante esistenze dimenticate, sentimenti potenti e strazianti. Quanti giustiziati innocenti o spietatamente colpevoli …quanti pensieri…quanti segreti … quanti cuori battono ancora in quelle umide carte di archivio consultate e tradotte in silenzio e commozione dalla storica partenopea che regala, con passione e generosità, la sua voce a chi voce non ne ha più.

“Registro dopo registro, pagina dopo pagina, quelle anime si sono sprigionate, presentandosi al cospetto della storia dell’umanità con il loro drammatico vissuto, materializzando epoche, volti, emozioni. Sono tornate in punta di piedi, senza pretese, senza vanità, umili e ignude, sperando solo d’essere vestite di memoria. Da ogni nome si è levato uno sguardo, uno stralcio di vita, una voce afona capace di trasmettere mille pensieri in una manciata di parole…”.
E ti ritrovi, semplicemente girando la pagina di un libro, ad ascoltare e rivivere lo strazio di un frate gracile e mingherlino di cui ignoravi l’esistenza, Tommaso Pignatelli, la cui unica colpa era quella di essere seguace del filosofo Tommaso Campanella, pronto ad affrontare tortura e morte con dignità e dolcezza infinita solo perché ritenute giusta punizione per il suo peccato.
A piangere per la sua detenzione lunghissima e ingiusta passata in una fossa buia e profonda di Castel Nuovo e terminata con la morte avvenuta per strozzamento all’interno della stessa fossa per mano dei ministri di giustizia e davanti a guardie e preti commossi fino alle lacrime.
Ti ritrovi a respirare l’aria fetida della peste che nel 1656 invase Napoli impossessandosi di case e strade, di corpi e anime e a sdegnarti di fronte alla presunzione di un potere ottuso e sordo.
Ti ritrovi ad ascoltare i sussurri della congiura di Macchia e ad assistere alla persecuzione e uccisione di tanti nobili napoletani e alla decapitazione del marchese Carlo de Sangro che, impossibilitato a camminare perché nella fuga si era rotto i reni, affrontò il suo destino con dignità, “seduto su una sedia di paglia in giamberga da laccheo e sentimenti di vero cavaliere cristiano”
Ti ritrovi a scoprire una grande storia d’amore e di morte …quella di Giulia della Torre e Geronimo Esposito, nobile e plebeo, assassini per amore, che commosse e zittì preti e popolo. La loro fine viene descritta così dai pietosi Bianchi della Giustizia: “Fu appiccata prima la donna perché non pareva bene che l’altro la vedesse così pendente quando si giustiziava, giudicò il Padre Superiore che si calasse la donna prima che s’eseguisse la giustizia dell’huomo e così fu fatto e poi morto il secondo fu di nuovo appiccata la donna”
Ti ritrovi a visitare una terribile storia di peccato e violenza, quella di Giuditta Guastamacchia e del suo amante prete, che diabolicamente uccisero, senza il minimo pentimento, il giovanissimo sposo di lei, con l’istinto di voler chiudere gli occhi davanti a tanto orrore.
Ti ritrovi a sfiorare gli ultimi istanti di vita di troppe donne, giustamente o ingiustamente condannate, e a osservare, nella lunga fila di anime aiutate a “ben morire” dai frati, nomi sconosciuti di assassine come Geronima Ruta- Rebecca della Cava- Anna Mileto Montalto- Agnese Sorrentino- mischiarsi ai nomi delle uniche due donne ree di stato condannate alla pena capitale, Luigia Sanfelice e Eleonora Pimentel Fonseca.
Girando semplicemente le pagine di un libro ti ritrovi ad ascoltare il rumore potente di una moltitudine di voci, flebili e potenti, delicate e prepotenti, colpevoli e innocenti, fermate nella memoria da frati compassionevoli e raccontate con amore infinito da una donna che non dimentica mai di mettere il battito del suo cuore in ogni parola scritta.


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A. Orefice,  I giustiziati di Napoli dal 1556 al 1862. Nella documentazione dei Bianchi della Giustizia, Prefaz. Antonio Illibato, M. D’Auria Editore, Napoli 2015, pp.370.
Il volume è stato pubblicato con il patrocinio dell’Archivio Storico Diocesano di Napoli  in edizione limitata. Per info e richieste:
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martedì 23 febbraio 2016

Briganti nel carcere borbonico di S. Stefano


Carcere di S. StefanoL’isola di Santo Stefano, di fronte a quella di Ventotene e nell’arcipelago delle isole Pontine, fu adibita a carcere per volontà di Ferdinando IV di Borbone. Questi aveva deciso di deportare gli ergastolani in colonie penali nettamente separate anche a livello geografico dal resto della popolazione. L’incarico di realizzarlo fu dato all’ufficiale del genio Antonio Winspeare ed all’architetto Francesco Carpi.

Il carcere fu ufficialmente inaugurato nel 1795 quando vi furono rinchiusi circa 200 ergastolani. Le dimensioni della colonia carceraria crebbero rapidamente, poiché già nel 1797 a santo Stefano si trovavano 600 detenuti, saliti quasi a mille nel secolo XIX.
Una minuziosa descrizione della vita nella prigione si ritrova nell’autobiografia “Ricordanze della mia vita” dell’intellettuale e politico Luigi Settembrini, che era stato incarcerato per motivi politici sotto Ferdinando II. A Santo Stefano i detenuti politici erano mescolati ai moltissimi comuni, fra cui si trovavano numerosi briganti, attivi sotto la dinastia borbonica.  Settembrini ne riporta vividi ritratti.
«C'è un vecchio di 89 anni, nato in Itri, seguace de’ briganti Pronio e fra Diavolo, condannato alla galera sin dal 1800, sta da trentadue anni nell'ergastolo: c'è un altro calabrese di 75 anni, stupratore ed omicida il 1797, brigante col cardinal Ruffo, dannato alla galera in vita il 1802, poi uscito per le vicende politiche, poi capo di scherani, infine gettato nell'ergastolo nel 1825; si vanta di avere uccisi trentacinque uomini. Ci sono molti altri antichi briganti, che ebbero parte ne' terribili fatti narrati dalla nostra storia; ed alcuni di essi portano ancora sui fieri volti e sui corpi le cicatrici avute nei combattimenti, i quali essi narrano a modo loro. Qui dove tutti hanno delitti, nessuno vergogna o teme di confessare i suoi, anzi li dice con orgoglio per mostrarsi maggiore degli altri.»

Costoro, racconta il Settembrini, «s'irritano e s'inviperiscono per la più lieve cagione, per uno sguardo, per una parola, per nulla: e decidono loro contese con le armi. Tutti hanno loro coltelli, che chiamano tagliapane, spesso lunghi quanto una spada».
Non vi erano però coraggio o lealtà: «I loro combattimenti non sono forti, e direi generosamente scellerati, ma traditori e vigliacchi: molti s'avventano su di uno che siede o che dorme, e lo feriscon di dietro; o mentre passa innanzi una porta gli cacciano un pugnale nel fianco.»
Questi briganti e criminali comuni si odiavano ferocemente fra di loro anche per pure rivalità regionali: «le continue risse che nascono per stolte e turpi cagioni, e pel sempre funesto amore di parti; dappoiché questi sciagurati, che una pena tremenda dovrebbe unire, sono divisi tra loro secondo le province: e siciliani, calabresi, pugliesi, abruzzesi, napolitani, si odiano fieramente fra loro, spesso senza cagione e senza offese; e se per caso si scontrano si lacerano come belve e si uccidono. Non si cerca di spegnere questi odi di parte, perché per essi si hanno le spie, si vendono favori, si fanno eseguir vendette, si fa paura a tutti: una è l'arte di opprimere, ed ogni malvagio la conosce.»
La vendetta cadeva anche su uomini incolpevoli: «se un uomo della tua provincia, che tu neppure conosci, si rissa con un altro; costui ed i suoi paesani se per caso t'incontrano su la loggia, nel loro cieco furore, ti corrono addosso perché sei paesano del loro nemico, e ti uccidono.»
Fra questi delinquenti compariva anche tale Moscariello: «Questo brigante detto Moscariello, narra i suoi casi ridendo e schiettamente nel suo nasale ed ispido dialetto. Fu soldato, disertò, prese moglie, e lasciata la zappa si diede con altri a rubare».
La sua attività brigantesca non aveva naturalmente nessun carattere politico od ideale, consistendo unicamente in furti, rapine, sequestri di persona: «narra ad uno ad uno i furti che fece, le persone che egli spogliò, i denari e le robe che prese, e ritenne per sé o diede ai suoi protettori; come una volta essendo nascosto con altri in un macchione per attendere uno che dovevano svaligiare, un povero contadino per caso li vide e conobbe alcuni, i quali tosto lo presero, lo legarono, e condottolo sul monte, egli lo uccise per non essere scoperto; come altra volta uccise quelli che rubò»
Infatti Moscariello ricordava «come è bella la vita del brigante, padrone di tutto, temuto da tutti».
La professione di brigante aveva però i suoi inconvenienti, non ultimo la slealtà che si ritrovava fra i banditi. Moscariello fu infatti tradito da suoi compagni:  «come un dì egli dormiva in una grotta, e due compagni, sperando impunità, gli tirarono un colpo di fucile, che gli spezzò l'osso dell'omero sinistro e gli fece larga ferita su la mammella; come egli inseguì i traditori che fuggirono e non osarono finirlo; come stette sei giorni senza curar la ferita che lo ardeva; come ricoverato da un romito invece di vedere un chirurgo, vide i gendarmi che legatelo su di un asino, e messogli sul berretto un cartello dove era scritto “II famoso Moscariello”, lo menarono prigione in Cosenza.»
Anche se incarcerato, Moscariello conservava il suo carattere feroce: «Una mattina svegliandosi sa che la notte è stato ucciso un ergastolano, che gli aveva rubate alcune salsicce: egli si leva, e con feroce sorriso dice: “Ora manderò l'acquavite a chi lo ha ucciso; ed oggi io mi voglio ubbriacare”.»

Articolo scritto da Marco Vigna per il Nuovo Monitore Napoletano.

lunedì 25 gennaio 2016

Antonio Genovesi: il riformatore

Antonio Genovesi
Antonio Genovesi, maestro riconosciuto della Scuola di economia della seconda metà del Settecento, furono orientate ad affrontare e superare la piaga dell'arretratezza. Per favorire il benessere e l'aumento dei consumi, secondo il Genovesi, era necessario promuovere in ogni modo la cultura e la civiltà, perché tutti i progressi andavano di pari passo con l'autonomia della ragione e con l'affermazione della libertà. Bisognava diffondere la cultura anche e soprattutto nei ceti più bassi affinché potesse realizzarsi l'ordine e l'economia dapprima nelle famiglie, e poi nella civiltà in generale. A tal scopo esortava gli intellettuali ad approfondire "la cultura delle cose", evitando di perdersi in vane speculazioni metafisiche, che non potevano risolvere i problemi concreti della società. Genovesi attribuiva una notevole rilevanza al ruolo svolto dall'educazione per la formazione degli uomini proprio. A tal proposito riteneva fondamentale lo sviluppo delle scienze e delle arti, in aperta polemica con Rousseau, per il quale il cosiddetto "progresso" costituiva la fonte di tutti i mali umani. Genovesi esaltava anche l'importanza del lavoro per il bene dei singoli e della società, denunciando la presenza di un numero eccessivo di persone che vivevano esclusivamente di rendita.. La premessa alla ristampa del saggio di Ubaldo Montelatici, Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l’agricoltura, segnò, nel 1753, il passaggio di Genovesi dagli studi filosofici agli studi di economia e di “Filosofia pratica”. Tramite l’amicizia con il toscano Bartolomeo Intieri, amministratore dei beni dei Corsini e del Medici, il Genovesi ottenne la cattedra di economia. Le sue lezioni riscossero un grande successo, attirando un gran numero di giovani, per i temi trattati che non erano usuali. La fusione tra temi filosofici e teologici e temi economici e di vita civile si delineava nell’opera Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze. Secondo il Genovesi “I primi filosofi furono in un tempo istesso i legislatori, i padri, i catechisti, i sacerdoti delle nazioni. La loro filosofia era tutta cose, e la vita era vita di cittadini persuasi che come partecipavano a’ comodi della società, così dovevano aver parte alle cure ed alle fatiche, o per lo ben pubblico o per lo ben domestico”. Ponendosi a mezza strada fra le posizioni di Broggia e Doria e quelle fisiocratiche del Verri, il Genovesi era vicino alle idee mercantiliste di Vincent de Gournay. Nel suo Discorso, insisteva sulla necessità di creare accademie agrarie per studiare il suolo, di educare i giovani a iniziare dall’agricoltura, di diffondere la nuova mentalità superando tutti i possibili ostacoli. La nuova strada intrapresa da Genovesi spostava l’interesse dai temi di una cultura metafisico-teologica a quelli pratici rivolti a studiare il mondo per appagare i bisogni delle popolazioni utilizzando gli apporti della rivoluzione scientifica operata da Bacone e da Galilei e tutte le invenzioni e tecniche che servivano a migliorare la condizione umana. La diffusione della nuova cultura e dell’istruzione, oltre ad ammodernare le attività produttive, avrebbe dovuto contribuire ad elevare lo stato sociale e civile del popolo. Solo la conoscenza dei bisogni degli individui e della società poteva suggerire i mezzi e i rimedi per migliorare gli stessi. Per attuare un piano di rinnovamento occorreva sviluppare la coscienza diretta delle necessità e delle risorse particolari per poter attuare la rigenerazione e l’affratellamento degli uomini. Il reame, “semenzaio di nobili e grandi ingegni”, poteva migliorare e diventare il faro di una risorgente civiltà italiana. “La ragione non è utile se non quanto diventa utile e pratica”, affermava Genovesi nelDiscorso, sostenendolo di averlo scritto “più con zelo dei veri vantaggi della Patria che con sapere e arte”. Il pensiero di Genovesi relativamente ai diritti dell’uomo nella società, appariva ispirato a un ideale di giustizia, ad una ‘egualità naturale’ da cui scaturiva il rispetto dei diritti del singolo. Ogni persona aveva ricevuto dalla natura un ‘diritto di esistere’, e per legge di natura ‘niuno in niuna maniera attenti ai diritti primitivi di niuno’. Nelle Lezioni di commercio o sia di economia civile, tenute nel 1757-1758 il commercio, nell’analisi del Genovesi rappresentava un fattore di benessere e di incivilimento, un’attività dell’uomo volta non solo al soddisfacimento dei suoi bisogni, ma allo sviluppo dei rapporti tra gli individui e i popoli. Dalle lezioni del Genovesi partirono tutte le idee di riforma e tutte le opere più significative del Settecento, da quelle del molisano Francesco Longano a quelle di Giuseppe Maria Galanti, da quelle di Domenico Grimaldi a quelle di Gaetano Filangieri. La ragione, oltre che a nutrire e perfezionare le scienze e le arti si rendeva “operatrice” per diffondersi nel costume e nelle arti in modo da costituire una “sovrana regola”. Dopo la pubblicazione dell’Esprit des lois nel 1748, iniziò una grande discussione, che assunse il carattere di critica tradotta dal Genovesi in una serie di postille apposte sul testo tra il 1760 ed il 1766. Il confronto con Montesquieu, per Genovesi, si poneva nel discorso attinente al lusso che richiamava le due opposte valutazioni contenute nella Favola delle Api di Mandeville e nell’Utopia di Morelly, ma era anche posto su un piano più moderato in quanto il lusso veniva visto come stimolo per uno sviluppo economico efficace. Ma è sul piano delle considerazioni dell’economia che l’opera del Genovesi acquistava tutto il suo vigore, perché non solo criticava l’ordine esistente, ma offriva uno stimolo per tutte le classi a modificare le condizioni economiche del Regno di Napoli. In tutti i suoi scritti Genovesi si preoccupava di fornire delle regole per dare la felicità agli uomini e, nel contempo, per dimostrare che cosa occorresse perché una nazione fosse felice e potente. Il testo, col quale sul piano dell’etica Genovesi riprese le discussioni con Montesquieu, Rousseau, Muratori, Hume, è Della diceosina, o sia della filosofia del giusto e dell’onesto per gli giovanetti, pubblicata ampliata con un manoscritto dell’autore nel 1777. Il lavoro ebbe una grande influenza, divenendo un testo base sui concetti del giusto e dell’onesto, con l’invito “ai giovanetti filosofi” ad avere una visione realistica di tutta la società. Genovesi affermava che il primo dovere del filosofo “si è di coltivar sua ragione non colle inutili ricerche, e colle contese di setta, ma colla scienza delle cose divine e umane”. Per quanto concerne la nascita delle “repubbliche, regni ed imperi, Genovesi precisava che esse “non han potuto nascere, né si conservano, che per un patto sociale, espresso o tacito, tra molte famiglie, pel quali si stringono fra loro e col capo”. L’accordo si basava sulla valutazione di un vantaggio comune. Per giovare oltre che a se stesso alla società di cui faceva parte, occorreva che l’individuo sentisse il dovere morale di esercitare un’attività. Genovesi non condivideva l’idea che dalla proprietà discendessero i mali e che lo stato di natura rappresentasse un vantaggio per i cittadini. Il diritto di cittadinanza si perdeva se la Repubblica veniva interamente rovesciata e distrutta. E precisava in seguito che “se un paese da Repubblica o regno diveniva vero dispotismo di botto tutti cessavano di essere cittadini, non già per veruna legge di giustizia, o per giusto diritto di guerra, ma per violenza, perché nel dispotismo ogni persona è schiava”. Nel Ragionamento sul Commercio in universale premesso alla Storia del Commercio dellaGran Brettagna di John Cary, Genovesi chiariva che il primo fine dell’economia politica era l’aumento della popolazione per cui era necessario da una parte eliminare “le cagioni spopolatrici”, siano esse fisiche che morali, dall’altra favorire le “cagioni aumentatrici”, consistenti nel promuovere lo sviluppo a vasto raggio. In tal modo, l’aumento della popolazione assumeva un significato non tanto di natura demografica, quanto di natura sociale ed economica, ma anche politica nell’accrescere la gloria, la sicurezza e il rispetto degli Stati vicini. L’uomo politico doveva conoscere anche le cause spopolatrici della popolazione per poterle rimuovere o limitarle, estirpando pestilenze, ma anche correggendo “ gli eccessi fiscali”, eseguendo lavori di bonifica e favorendo le varie arti. Genovesi ritieneva importante che la nazione non dovesse dipendere dalle altre perché ad una “minore dipendenza”, corrispondeva una maggiore ricchezza e una maggiore forza. Ogni classe doveva avere una sua funzione. “Il diritto di vivere è un diritto primitivo, e la terra un primitivo patrimonio di tutti; al quale diritto, e al quale patrimonio non si rinuncia per il patto delle genti se non quando si può vivere in altra maniera”.