martedì 23 luglio 2013

Camorra e regime borbonico

Scritto da Marco Vigna  

Martedì 23 Luglio 2013 11:00
Lo stato borbonico alla debolezza delle proprie antiquate istituzioni sommò la frattura con gran parte della società susseguita agli eventi del 1798-1799.
Dopo la Restaurazione la monarchia dei Borboni non poteva fare affidamento né su d’un apparato statale efficiente, né su d’una salda ed ampia base sociale, cosicché fu spinta da questa condizione a ricercare un modus vivendi con tutte quelle forze e quei settori sociali che potessero, per interesse, appoggiarla, quali i lazzaroni, la mafia, la camorra.
Il regime borbonico strinse un’alleanza di fatto con la camorra almeno dal 1816, probabile data di fondazione della setta detta dei Calderari.
Essa sarebbe stata costituita in tale anno da Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, quando era ministro della polizia, col preciso obiettivo d’operare in difesa della monarchia “legittima”.
Secondo un’altra ipotesi, la setta sarebbe stata creata su impulso di Maria Carolina (la regina straniera che aveva di fatto esautorato re Ferdinando I dalle sue mansioni regali, a cui egli non teneva affatto, e principale responsabile delle stragi dei patrioti della repubblica partenopea), tanto che essa prendeva anche il nome di “Caroliniana”.
Tale organizzazione segreta aveva come simbolo una caldaia sotto la quale “brucia e si consuma il carbone”.
Gli storici hanno avuto difficoltà a ricostruire la storia dei Calderari, proprio per la sua natura d’associazione segreta.
Appare però evidente che essa era costituita in buona misura da criminali comuni.
Il Colletta parla dei calderari come di delinquenti, tolti dalle carceri nel 1799 per arruolarli nell’armata sanfedista oppure provenienti dal brigantaggio del decennio successivo.
Il Carascosa, nelle sue Memoires historiques, concorda sostanzialmente su tale impostazione, sostenendo che i Calderari erano in massima parte persone colpevoli di fatti vergognosi e senza autentici principi.
Persino un autore chiaramente borbonico come Ulloa è sprezzante nei loro confronti, definendoli in sostanza quale plebaglia. In sintesi, i Calderari rappresentavano assieme un’associazione segreta ed un gruppo paramilitare ed erano reclutati in buona misura fra criminali comuni d’idee legittimiste, sovente ex sanfedisti, spesso camorristi.
La sua stessa struttura era ispirata almeno parzialmente all’organizzazione camorristica e si legò alla delinquenza anche al di fuori dell’area metropolitana partenopea.
L’importante storico Antonio Lucarelli, autore di fondamentali studi sulla Puglia del periodo risorgimentale, sostiene nel suo articolo Il maresciallo di campo Riccardo Church, il bandito Ciro Annichiarico e la Carboneria di Terra d’Otranto alla luce di nuovi documenti che grazie alla “tenebrosa istituzione dei Calderari sorretti dal Canosa l’odio di parte irrompe nella parte più cruenta e barbarica: aggressioni, rapine, ricatti, stupri, ferimenti, assassini”.
La setta dei Calderari, fondata da un ministro della polizia di Ferdinando I od addirittura direttamente dalla regina Carolina, venne infine formalmente proibita, ma rimase a lungo attiva e ben ramificata, nonché collusa con la camorra, tanto che alcuni suoi membri erano reclutati fra i detenuti nelle carceri borboniche, ove la camorra spadroneggiava.
Sotto il regno di Francesco I tale organizzazione criminale e politica assieme, che già aveva notevole potere in precedenza, acquistò quasi funzioni parastatali ed ebbe forti appoggi fra i ministri ed i cortigiani.
Uno dei principali collaboratori di questo monarca fu il famigerato Francesco Saverio Del Carretto, del cui spietato operato è un esempio la repressione del moto del Cilento.
I carbonari della città di Bosco tentarono una rivolta armata per ripristinare la Costituzione carbonara napoletana del 1820.
L’esercito borbonico, guidato dal Del Carretto, giunse sul posto, circondò il paese e lo spianò con l’artiglieria pesante. I superstiti furono fucilati od uccisi a baionettate.
Furono distrutti anche i paesi limitrofi di Licata, Camerata, e San Giovanni a Piro.
Dal 1831 Del Carretto, che per le sue benemerenze nei confronti del trono aveva già ottenuto il titolo di marchese e quello di cavaliere dell'Ordine di S. Giorgio, cumulò la carica di comandante della gendarmeria a quella di ministro di Polizia, che mantenne per lunghi anni sotto Ferdinando II.
Il Settembrini in Ricordanze della mia vita è durissimo verso “il re bomba” ed i suoi ministri, a cominciare dal Del Carretto, che egli conobbe personalmente.
Così l’importante patriota ed intellettuale originario di Napoli descriveva questo personaggio nelle sue memorie: “Francesco Saverio Del Carretto, ministro della polizia e capo della gendarmeria, aveva in mano un immenso potere e lo esercitava con arbitrio spaventevole.
Nei giudizi criminali, nei piati civili, nelle contese di famiglia, nel commercio, nell’istruzione, nell’amministrazione, metteva le mani in tutto, e tutto rimescolava con insolenza gendarmesca.
Operoso e destro, non aveva alcuna fede, fu carbonaro, poi, ribenedetto, carezzava i liberali per corromperli, lisciava le donne per usarne anche come spie.”
Questo Del Carretto, ministro della polizia e capo della gendarmeria, fu probabilmente anche membro della suddetta associazione segreta reazionaria e di stampo camorristico dei Calderari (la sua affiliazione alla Carboneria si spiegherebbe come un’infiltrazione per spiarla, come egli stesso aveva dichiarato e secondo una pratica seguita proprio dai Calderari) e si servì per la sua rete di spie e delatori anche dei criminali comuni.
Le fonti, sia di scrittori, sia amministrative, documentano il ricorso alla camorra come rete spionistica nella società e nelle carceri in funzione antiliberale, nonché i premi elargiti ai camorristi tramite proscioglimenti ed anche carriera nella polizia.
A questa attività s’aggiungeva l’attribuzione direttamente ai camorristi di ruoli da poliziotti.
Ad esempio, Marc Monnier nel suo pioneristico studio sulla camorra può asserire che questa associazione criminale era rispettata dai Borboni ed impiegata quale una sorta di corpo di polizia già sotto il ministero Del Carretto: “Comunque siasi, la camorra fu rispettata, usata spesso sotto i Borboni fino al 1848.
Essa formava una specie di polizia scismatica, meglio istruita sui delitti comuni della polizia ortodossa, che occupavasi soltanto dei delitti politici.
Quando un furto importante avveniva in un quartiere, il commissario chiamava a sé il capo dei camorristi e lo incaricava di trovare il ladro.
Il ladro era sempre trovato, salvo il caso che fosse il capo dei camorristi. ... o il commissario. Inoltre la camorra, come ho già notato, era incaricata della polizia delle prigioni, dei mercati, delle bische, dei lupanari e di tutti i luoghi mal famati della città”. (M. MonnierLa camorra. Notizie storiche raccolte e documentate, Firenze 1862, p. 84)
È per questa ragione che, osserva sempre il Monnier, "è costume preso sotto i Borboni di non tener in conto la polizia legale e ricorrere piuttosto al camorrista". (Ibidem, p. 84)
Del Carretto fu infine spedito in esilio nel 1848 dallo stesso re che egli aveva a lungo servito, come era già avvenuto al suo predecessore al ministero della Polizia, Nicola Intonti (entrambi funsero in questo modo da capro espiatorio delle politiche di Ferdinando II), ma ciò non pose fine ai legami che stringevano lo stato borbonico alla camorra.
Il professor Barbagallo, ordinario di storia contemporanea all’Università di Napoli “Federico II”, scrive che dopo il 1848 “la polizia borbonica, nella tutela dell’ordine pubblico, non mancò di servirsi dell’organizzazione camorristica […] E spesso fece ricorso ai camorristi incarcerati per avere informazioni sul comportamento dei detenuti politici”. (Francesco Barbagallo, Storia della camorra, Roma-Bari 2010, p. 12)
Barbagallo scrive che la mancanza di fonti d’archivio impedisce d’approfondire l’idea dell’esistenza d’una “precisa strategia di collaborazione tra il regime poliziesco borbonico e la camorra”, ma che comunque simili “collusioni erano denunciate da esuli liberali come Antonio Scialoja”. (op. cit.)
Il Monnier, nel suo studio sulla camorra, ricorda che Ferdinando II si alleò di fatto con la camorra e ne cercò l’amicizia in funzione antiliberale, con un legame che si accentuò dopo il fatidico 1848.
Scrive il Monnier:
"Il sovrano borbonico organizzò una polizia formidabile contro tutti coloro che gli facevan paura.
Né erano i ladri o i briganti, che non aveano opinioni politiche; usava riguardi ai primi, concedeva pensioni ai secondi (a Talarico per esempio), li relegava in un'amena isoletta, o li lasciava in libertà.
Ma i liberali erano inseguiti e perseguitati con infaticabile ardore. Tale fu l'opera moralizzatrice impresa e compiuta da re Ferdinando.
Non trattavasi di sradicare gli abusi, ma piuttosto di preservare quelli che potevano tornar utili alla conservazione del trono.
Non si pensava in guisa alcuna a trarre la plebe dal suo avvilimento; anzi si desiderava di mantenervela fino alla fine dei secoli, ben sapendo che la monarchia assoluta non è possibile, nei tempi in cui viviamo, se non in un popolo snervato e degradato.
La camorra non potea quindi esser trattata da Ferdinando come nemica. Prima del 1848 essa non si era occupata del governo: non lo avea combattuto, e neppure molestato.
A che muoverle contro? Fu lasciata tranquilla, tanto più volentieri perché non si amava averla nemica. I camorristi, lo notai, erano plebei energici. Quindi meritavano riguardi dal governo sempre dominato dalla paura.
D'altra parte essi rendevano servigi alla polizia: si vuole anche che ne facessero parte. Ho nelle mie mani appunti molto curiosi, scritti da un camorrista pentito, il quale forniva ragguagli singolari intorno alle relazioni della setta coll'antica prefettura di Napoli.
Secondo questi appunti divisi in articoli, e colla forma di un codice segreto della camorra, la setta era posta, a' tempi dei Borboni, sotto la sorveglianza della polizia.
All'indomani della sua elezione, il nuovo affiliato presentavasi al commissario del suo quartiere, e chiedevagli un’udienza particolare: «Voi vedete» gli diceva «un nuovo operaio che ha ricevuto la proprietà». E dopo ciò gli dava dieci piastre.
Il commissario trasmetteva la notizia al prefetto di polizia, il quale in capo ad un mese riceveva una mancia di cento ducati. Né basta.
Il prefetto non limitavasi a prender la sua parte di barattolo, ma presiedeva anche all’organamento della società segreta e nominava egli stesso i capi dei dodici quartieri, ciascuno de'quali avea una provvisione di cento ducati (425 lire italiane) al mese, pagata sui fondi segreti della polizia
In ricambio i funzionari governativi incaricati di vegliare alla pubblica sicurezza non sdegnavano di riempire le loro tasche con il denaro estorto ai poveri da questi malandrini a ciò autorizzati.
Quando si divideva il Carusiello, un terzo dei benefizi era religiosamente portato al commissario, che a sua volta lo divideva coll'ispettor di servizio e col caposquadra. E ciò avveniva nei dodici quartieri e durante tutto il felicissimo regno di Ferdinando II. Questo affermano gli appunti del camorrista." (MonnierLa camorra, cit., pp. 82-83).
Questa condizione d’alleanza con intenti politici s’affiancava a forme di commistione fra lo stato e le associazioni criminali. Il professor Barbagallo scrive che la camorra nel periodo borbonico esercitava un dominio sulle carceri, sui mercati, sulle bische di fatto autorizzate dalla polizia, e sulle attività daziarie, talvolta spesso in vera e propria sostituzione dei funzionari (Barbagallo, cit., pp. 7-11).
“La camorra costituiva quindi una specie di potere parallelo rispetto a una debole struttura statale”, può concludere Barbagallo. (Ibidem, p. 11)
Inoltre, non vi è dubbio che la camorra “riusciva a far carriera nella «bassa polizia» ed a confermare, anche per questa via, il suo ruolo di dominio sulle masse plebee della capitale”. (Barbagallo, cit., p. 12)
Esistono inoltre “documenti e rapporti dei ministeri borbonici che attestano la profonda corruzione degli organi di polizia ai diversi livelli”(Ibidem, p. 13)
Le attività camorristiche erano in parte ispirate dalle azioni estorsive e dalla corruzione comunissime nella polizia borbonica, i cui membri praticavano estorsioni (ovvero la richiesta del “pizzo”) ai negozi ed esercizi:
“In tal modo la pessima amministrazione di questo settore basilare del regime forniva un preciso paradigma operativo per la già esperta e attiva organizzazione camorristica; che si occupava di sovrintendere all’ordine delle prigioni, nei mercati, nei bordelli, nelle bische”(Ibidem, p. 13)
Un fenomeno analogo avvenne in Sicilia, nella quale la mafia, nel suo sviluppo a cavallo fra Settecento ed Ottocento, si strutturò sulla base della natura feudale della società e delle istituzioni borboniche e strinse poi un patto con Salvatore Maniscalco, capo della polizia borbonica nell’isola dal 1849 al 1860. (Salvatore LupoStoria della mafia dalle origini ai giorni nostri, Roma 1993)
È facile pertanto individuare una lunga linea di complicità fra il potere borbonico da una parte e la camorra e più genericamente il crimine comune dall’altra, che attraversa i regni di Ferdinando I, Francesco I, Ferdinando II, sotto la cui corona non solo il potere pubblico s’alleò tacitamente con la delinquenza, ma addirittura contribuì direttamente od indirettamente a modellarla e rafforzarla.

tratto da il Nuovo Monitore Napoletano: http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1265%3Acamorra-e-regime-borbonico&catid=85%3Astoria-del-risorgimento&Itemid=28
Ultimo aggiornamento Martedì 23 Luglio 2013 11:37

sabato 20 luglio 2013

Quell’odio dei Siciliani verso i Borbone

Scritto da Angelo Martino  

Sabato 20 Luglio 2013 18:11
D’altronde la prima delle tante rivoluzioni europee del 1848 avvenne proprio in Sicilia il 12 gennaio 1848.
La Rivoluzione Siciliana contro la tirannia borbonica fu la prima rivolta dei moti rivoluzionari in tutta Europa di tale anno e gli ideali del popolo siciliano erano gli stessi di tanti anni precedenti: affrancarsi dal Regno Borbonico, ottenere l’indipendenza nell’ambito di un’unificazione nazionale, già interiorizzata tanti anni prima dell’Unità.
La Sicilia ambiva all’autonomia ed era portatrice di un forte sentimento indipendentista prima del 1848; i siciliani odiavano quel Regno delle Due Sicilie, governato da tiranni quali i Borbone.
Dopo un terribile inverno segnato da povertà, il 12 gennaio il popolo palermitano eresse le barricate e si rivoltò, sventolando per le strade dell’isola il tricolore italiano e inneggiando all’Italia, alla costituzione.
Dalla tetra fortezza di Castellammare le forze borboniche bombardarono la città con gli artiglieri che scagliarono piogge di proiettili contro la folla degli insorti.
I tiranni borbonici decisero di ritirarsi solo dopo aver lasciato sul terreno in solo quel giorno trentasei vittime.
Il loro sacrificio non fu vano, poiché nel giro di pochi giorni i contadini delle campagne si unirono ai rivoltosi, assaltando i municipi e dando alle fiamme i registri delle imposte e del catasto.

L'esercito borbonico, capitanato dal generale De Majo, cercò di opporre una qualche resistenza ma, dopo che Palermo fu luogo di aspri combattimenti, l'esercito borbonico si ritirò e si insediò un comitato generale che si assunse le funzioni di governo, chiedendo la convocazione di un Parlamento siciliano.
Il 2 marzo, dopo 30 anni, venne proclamato nuovamente il Parlamento di Sicilia, presieduto da Vincenzo Fardella di Torrearsa, fra l'ottimismo e la gioia dei politici e del popolo, e la Sicilia riesce ad essere nuovamente retta da un governo costituzionale con la proclamazione del nuovo Regno di Sicilia.

Il capo del nuovo governo, Ruggero Settimo, già ammiraglio della flotta borbonica, ma che da sempre nutriva schietti sentimenti liberali e si opponeva alla tirannia borbonica nei confronti del popolo isolano, fu accolto con entusiasmo e salutato come padre della patria siciliana.
Tra i ministri, furono nominati Francesco Crispi, Francesco Paolo Perez, Mariano Stabile, Michele Amari e Salvatore Vigo
La bandiera del Regno della Sicilia fu il tricolore: verde, bianco e rosso.

Alle notizie della rivolta siciliana, la stessa Napoli si sollevò contro i tiranni borbonici, come anche i contadini del Cilento.
In quel frangente Ferdinando II, consapevole ormai che le sue truppe non erano ben disposte a combattere, liberò dal carcere Carlo Poerio, e ciò ebbe un significato notevole, dato che diede coraggio a tutti i liberali napoletani che organizzarono una manifestazione di venticinquemila persone sulla grande piazza di fronte al Palazzo Reale.
Ferdinando II fu costretto a concedere la Costituzione del Regno delle due Sicilie il 29 gennaio dello stesso anno, redatta dal liberale moderato Francesco Paolo Bozzelli e promulgata il successivo 11 febbraio.

Tuttavia con il presente scritto intendiamo focalizzare l’attenzione sul sentimento dei siciliani contro la dinastia borbonica per ribadire che vi erano, già tanti anni precedenti l’unificazione, idee ben radicate negli stessi siciliani a favore dell’indipendenza dal Regno borbonico nell’ambito di un’unità nazionale.

Quindi un neoborbonismo, che non si fa scrupolo di inneggiare a Francesco II Borbone ed al Regno delle Due Sicilie, finge di non ricordare che i siciliani non volevano i Borbone, non volevano essere governati da loro, li odiavano ed è ovvio che attesero l’intervento di Garibaldi come una liberazione . Altro che occupazione!

L’occupazione vera era stato un atto compiuto dai Borboni contro i Siciliani, i quali erano stati da tanti anni tradizionalmente antiborbonici, e precisamente nel corso di oltre un secolo, più volte avevano preso le armi reclamando un’autonomia e autogoverno.
Anche dopo la sconfitta della rivoluzione del 1848, i siciliani, come prima e più di prima, continuarono negli anni successivi e precedenti alla spedizione dei Mille a battersi per l’indipendenza, per la costituzione.

Non si po’ non ricordare uno dei più conosciuti di tali momenti storici che avvenne nel novembre del 1856, quando Salvatore Spinuzza e Francesco Bentivegna provarono a spingere le masse contro l’oppressione borbonico-napoletana.
Anche tale tentativo, pur velleitario ma ricco di generosità e idealità, si concluse drammaticamente con una sconfitta che costò ai due patrioti la condanna alla pena capitale dopo un sommario processo nel marzo dello 1857.

Non si può fingere di non ricordare che il 4 aprile 1860, a poche settimane dallo sbarco dei Mille, si verificò un ultimo disperato tentativo rivoluzionario, questa volta ad opera di un popolano, l’artigiano Francesco Riso, quella che gli storici chiamano “ rivolta della Gancia.
Anche quella rivolta si concluse con il sacrificio di ben tredici vittime il cui martirio acuì l’odio che i siciliani nutrivano verso i Borbone, considerati, anche dalle classi popolari, come stranieri e oppressori.

"All’inizio del 1860 - scrive Alfonso Scirocco - la Sicilia appariva sempre più inquieta, tanto da destare le preoccupazioni dei governi europei, che temevano un’insurrezione imminente".

Tuttavia, nonostante le sollecitazioni continue di Rosolino Pilo, fervente mazziniano siciliano che perirà in uno scontro a fuoco in marcia verso Palermo nel 1860, Giuseppe Garibaldi non voleva arrischiare un'impresa senza possibilità di successo.
Come evidenzia bene lo stesso Scirocco: “ in sintesi (Garibaldi) non era disponibile a un tentativo avventuroso, rivolto a suscitare un’insurrezione non ancora iniziata, come erano stati quelli dei Fratelli Bandiera e di Pisacane”.
Tale questione non è di poco conto: la sconfitta dei Fratelli Bandiera e soprattutto quella più recente di Pisacane avevano incrinato le certezze dei mazziniani.

Pisacane aveva scritto nel saggio sulla Rivoluzione, di essere disponibile ad un «sacrificio senza speranza di premio»:
«ogni mia ricompensa io la troverò nel fondo della mia coscienza e nell'animo di questi cari e generosi amici... che se il nostro sacrificio non apporta alcun bene all'Italia, sarà almeno una gloria per essa aver prodotto figli che vollero immolarsi al suo avvenire».
Le parole di Pisacane erano nobili, ma tante sconfitte avevano lasciato il segno.

Lo storico Scirocco si sofferma su tanti momenti di esitazione prima della spedizione dei Mille in Sicilia, ma infine si era deciso che l’impresa si mostrava necessaria per liberare anche la Sicilia dall’occupazione borbonica.
E anche a tal riguardo, si finge di dimenticare che proprio Giuseppe Garibaldi, liberata la Sicilia, consigliato dal suo segretario di Stato, Francesco Crispi, ordinasse il ripristino, in blocco, dei decreti, delle leggi e dei regolamenti esistenti il 15 maggio 1849″, cioè quel sistema normativo che i Siciliani si erano dati a seguito della gloriosa rivoluzione del 1848 e che i vincitori borbonici si erano affrettati ad abrogare.

Angelo Martino

Riferimenti bibiografici:

Denis Mack Smith- Storia della Sicilia medievale e moderna- Laterza
Alberto Scirocco- Garibaldi- Laterza
Carlo Pisacane – Saggio su la Rivoluzione- 1944

sabato 13 luglio 2013

Costituzione e Libertà. Il Risorgimento dell'Italia del Sud

Sabato 13 Luglio 2013 10:14
Benedetto MusolinoIl risveglio della coscienza unitaria agli inizi dell’ottocento partì  dal Sud dell'Italia.
Mentre Giuseppe Mazzini lanciava la sua “Giovane Italia”, negli stessi anni al Sud si organizzava a partire dal 1830 un movimento denominato la “ setta dei Figliuoli della Giovane Italia”, fondata da un calabrese, Benedetto Musolino che promuoveva gli ideali libertari e repubblicani nel Regno delle Due Sicilie.
Prima ancora di Musolino era stato il sacerdote Luigi Minichini di Nola, coadiuvato da un gruppo di ufficiali a dare inizio ad un movimento rivoluzionario nel 1820, il cui programma si compendiava nella richiesta di “Costituzione e Libertà”.

Quindi nel 1820 al Sud vi era un fermento unitario che rivendicava la costituzione e che portò alla sollevazione della città di Palermo contro il Regime Borbonico.
Specificamente al sacerdote Luigi Minichini si unì un gruppuscolo di carbonari di Nola con un centinaio di militari al comando del tenente Michele Morelli.

L’iniziativa ebbe anche l’adesione di diversi alti ufficiali che in passato avevano militato sotto il re Gioacchino Murat, tra cui il generale Guglielmo Pepe.
La rivoluzione napoletana ebbe un suo primo successo, dato che vi partecipava il ceto piccolo e medio borghese, artigiani e basso clero, e soprattutto quadri intermedi dell’esercito.
Il sovrano si vide costretto ad emanare un editto in cui si prometteva la promulgazione della costituzione. Con tale formale premessa le forze liberali poterono ritenersi soddisfatte. Aver raggiunto il risultato di un regime con alcune pur minime garanzie costituzionali poteva considerarsi accettabile.

Le aspettative dei napoletani furono oltremodo rese complicate dalla contemporanea insurrezione siciliana. Nella rivolta che scoppiò nell’isola a metà luglio prevaleva infatti la tradizionale tendenza separatistica della Sicilia.
L’odio verso il governo dei Borboni aveva cementato un’alleanza tra le corporazioni degli artigiani e alcune frange della nobiltà.
La rivolta dei ribelli siciliani subì una durissima repressione. Il dispotico sovrano inviò un esercito di circa 6.500 soldati ai quali si aggiunsero altrettanti di guarnigione nella parte orientale della Sicilia che non aveva aderito alla rivolta agli ordini di Florestano Pepe (poi sostituito dal generale Pietro Colletta) che riconquistò la Sicilia con cruente e sanguinose battaglie, ristabilendo la monarchia assoluta e ripristinando l'autorità del governo di Napoli. Naufragarono quindi le speranze di Luigi Minichini e degli altri patrioti che chiedevano “ costituzione e libertà". Tuttavia, le sollevazioni delle terre napoletane ebbero una funzione di esempio per i patrioti della parte settentrionale della penisola.
Circa dieci anni dopo fu Benedetto Musolino a raccogliere l’eredità dei patrioti napoletani, sempre attivi a rivendicare repubblica, costituzione e libertà con l’obiettivo di fornire il contributo alla realizzazione del  sogno unitario.
Quindi , come ha scritto in maniera esemplare Saverio Musolino, in occasione dell’uscita nelle sale del film Noi Credevamo
“Un'unificazione fatta dal Nord – guidata dal Piemonte – venuto a liberare e civilizzare un Sud represso e incapace di autodeterminazione” è una tesi storica inaccettabile nel momento in cui non prende in considerazione, si trascurano i sacrifici di tanti patrioti meridionali, tra i primi ad avere consapevolezza della necessità e di un'Italia Unita con una Costituzione".

C’è un orgoglio del Sud di rivendicare costituzione e libertà anni prima degli eventi del 1860, che Saverio Musolino esplicita in questi termini:
“ Il contributo meridionale non fu subalterno ai disegni che maturarono in altre parti d’Italia: il Mezzogiorno volle l’Unità e fu determinante nel realizzarla e nel modo in cui essa si realizzò. I propositi degli organizzatori sono fondati.
Il Sud non fu subalterno né sotto il profilo organizzativo né sotto quello dell’azione: basti pensare che la Giovane Italia diffusa nel Mezzogiorno non fu quella del Mazzini, come ancora si sente ripetere, ma quella ideata dal calabrese Benedetto Musolino, cui aderì prontamente il Settembrini e che contribuì a diffondere, già nei primi anni ‘30, l’ideale di un’Italia una, libera e repubblicana.”

Come si può facilmente evidenziare gli ideali dei patrioti del Sud sono ben definiti e delineati: una repubblica democratica, tendenzialmente egualitaria.

Molto illuminante è la storia di Giovanni Vincenti, che aveva aderito alla “Giovane Italia Meridionale” di Benedetto Musolino.
Vincenti era un attore drammatico e patriota veronese che morì allo Spielberg dopo dieci anni di carcere all’età di 30 anni, il quale aveva preferito aderire alla Giovane Italia Meridionale, dato che, per cospirare per l’unità della Patria, si doveva andare al Sud (siamo negli anni tra il 1835 e il 1839 ), dove c'era tutto un fermento sconosciuto nel Lombardo – Veneto .

Scrive ancora Saverio Musolino: "La coscienza del contributo dato dal Meridione alla formazione dello Stato Unitario farà bene anche al Nord, contribuendo a vincere antichi pregiudizi e retaggi”.

E’ tale l’orgoglio del Sud,  un Sud in prima linea nel travagliato percorso della conquista dell’Unità d’Italia.

Scritto da Angelo Martino   su il "Nuovo Monitore Napoletano"

martedì 9 luglio 2013

Carmine Crocco: storia di un criminale in carriera

Quando il brigantaggio divenne una splendida occasione di bottino e di fama


Scritto da Angelo Martino
Martedì 09 Luglio 2013 14:32
La biografia del brigante lucano Carmine Crocco, scritta da Ettore Cinnella, ex docente di Storia Contemporanea presso l’Università di Pisa, "Carmine Crocco - un brigante nella grande Storia - "non fa parte di quella recente pubblicistica, a volte di successo, che sta provando a riscrivere la storia della fine del Regno delle Due Sicilie attraverso tentativi revisionisti, spesso di esclusivo taglio giornalistico, ma si mostra più che attenta ad inquadrare il brigantaggio in un serio contesto storico.

Il libro utilizza la vasta produzione erudita e la memorialistica prodotte nella seconda metà dell’800, con la successiva, consistente, bibliografia sul brigantaggio. Il risultato è un studio serio e documentato, che finalmente fa giustizia di tanti luoghi comuni che vengono ripetuti per attribuire loro un valore storico.
Quindi una lettura che appassiona, dato che, supportato da una documentazione rigorosa, il libro si fregia anche di un impianto metodologico che “legge” a sua volta la documentazione disponibile e i fatti con il necessario distacco che il secolo e mezzo trascorso impone agli eventi, soprattutto inquadrandoli in quella “grande storia” che impedisce ogni abbandono a localismi di sorta e a idealizzazioni fuorvianti dei protagonisti.

Del resto Ettore Cinnella fa da decenni il mestiere di storico in maniera egregia.

L’autore affronta già nelle prime pagine la tanto decantata questione di un brigante che da alcuni è considerato un antesignano degli eroi protagonisti di una lotta di liberazione di stampo socialista, scrivendo a pag- 40 nel capitolo “ Da Pastore a Brigante” :
“Chi si è detto sicuro della collocazione storica del pastore di Rionero, annoverandolo tra gli antesignani della rivoluzione sociale o socialista, non si è nemmeno curato di appurare come davvero egli si chiamasse e ha scambiato il soprannome (Donatelli ) con il cognome autentico.
Eppure per non perpetuare l’equivoco, sarebbe bastato leggere qualche documento originale, anziché copiare maldestramente da altri libri.”

Quindi Carmine Crocco detto Donatelli o Donatello dal nome del nome paterno Donato, già disertore della milizia borbonica per aver assassinato un commilitone, diventò un brigante nelle campagne della Basilicata.
In questo periodo Crocco iniziò ad avere i primi contatti con altri fuorilegge, costituendo una banda armata che visse di rapine e furti.
Fu arrestato e rinchiuso nel bagno penale di Brindisi il 13 ottobre 1855, ricevendo una condanna di 19 anni di carcere. Il 13 dicembre 1859 riuscì ad evadere, nascondendosi tra i boschi di Monticchio e Lagopesole.
“ Non si deve però credere – scrive Cinnella - che Crocco fosse già divenuto un bandito di strada nel vero senso della parola. Le carte processuali ci descrivono piuttosto un ladruncolo casereccio”.

Nella sua autobiografia, Crocco ci parla del suo soccorso alla sorella Rosina, insidiata da Don Peppino, un signorotto di Rionero in Vulture, che il brigante ammazzò per un delitto d’onore. Ettore Cinnella , sulla base di riferimenti storici ben precisi, smonta tale invenzione di Crocco, dimostrando che tale vicenda del delitto d'onore sia completamente priva di fondamento.

Ciononostante, la storia del delitto d'onore è stata presa sul serio, secondo lo storico Ettore Cinnella, poiché per molto tempo si è attinto alle ristampe successive dell'autobiografia di Crocco, senza le note e l'apparato critico a cura del capitano Massa che accompagnavano la prima edizione.
Dunque, fuor di ogni leggenda, anche per lo scaltro pastore di Rionero Carmine Crocco (soprannominato Donatelli), figlio di un contadino e una cardatrice di lana, nessuna particolare angheria subita dai suoi familiari da parte di aristocratici locali.
La carriera di rapinatore e grassatore comincia con la brusca fine del suo servizio militare nel 1852, quando si dà alla macchia probabilmente in seguito al regolamento di conti con un commilitone.
Una carriera che comincia rocambolescamente con arresti, condanne ed evasioni che dureranno fino alla fatidica data del 1860.
“Mentre Crocco si stava trasformando, a poco a poco, da piccolo malvivente di paese in pericoloso bandito di strada, eventi turbinosi e grandiosi si svolgevano nella provincia della Basilicata, fino allora la regione più arretrata e sperduta del Regno delle Due Sicilie”

Come racconta nella sua autobiografia, partecipò alla spedizione dei Mille del 1860, e per lui era un tentativo di riabilitarsi e accreditarsi, magari ritagliandosi un ruolo nel nuovo Stato.
E’ un momento storico in cui tratto peculiare della rivoluzione lucana del 1860 è “ la partecipazione del Clero al movimento costituzionalista e poi a quello risorgimentale”. Infatti a Rionero in Vulture, il paese di Crocco, vi fu una vera insurrezione prima dell’arrivo delle truppe garibaldine.
Nella sua autobiografia, Crocco racconta di essersi unito ai battaglioni di Garibaldi, che provenivano dalle Calabrie, seguendo il generale fino a Santa Maria Capua Vetere, anche se l’autore scrive che “ nulla si sa sulla partecipazione di Crocco alle battaglie garibaldine del 1860”.
Tuttavia alcune missioni gli furono conferite e conobbe il colonnello Boldoni, da cui ricevette l’assicurazione del “ perdono” delle sue azioni criminali, ma tali promesse si mostrarono fallaci e Crocco ritornò alla vita da brigante.
Fu il momento della delusione in quanto non si attuarono quelle riforme “rivoluzionarie”, sociali che tanti contadini attendevano. Si scelse la strada del compromesso con Garibaldi che fu persuaso della bontà dei Plebisciti, consegnando di fatto il Regno a Vittorio Emanuele e ritirandosi a Caprera.
La reazione dei Borbone trovò terreno fertile, e iniziarono le più importanti campagne brigantesche del 1861, un misto di operazioni militari e di restaurazione legittimistica, in realtà caratterizzate da innumerevoli rapine, saccheggi e omicidi, mentre le questioni demaniali, tensioni sociali, conflitti ideologici tra liberalismo e legittimismo, portavano nel Meridione una sorta di revanscismo riguardo al quale Ettore Cinnella è chiaro: la dinastia borbonica seppe approfittare degli errori e della “stolida politica vessatoria, messa in atto nelle contrade meridionali dai funzionari del governo di Torino” reagendo in maniera dura e poliziesca:

“Sulla carta la causa borbonica disponeva di prestigiosi e devoti paladini, i quali però preferivano ai rischi della guerra la tranquillità e gli agi della Roma papalina (…) A scendere in campo e a rischiare la vita (…) furono per lo più, alcuni aristocratici e ufficiali stranieri” sovente abbandonati a loro stessi. E non a caso, il fallimento di quel moto insurrezionale, mal organizzato e diretto, e l’esecuzione di Don José Borges (Borjes), fecero cadere la “foglia di fico” con cui la reazione colorava politicamente le gesta brigantesche di cui doveva forzatamente servirsi.”

Lo stesso Crocco ricorda nell’autobiografia che i burattinai della sollevazione armata contro il nuovo governo andassero ricercati tra i notabili nostalgici del vecchio Regime, dal brigante definiti “serpenti velenosi”.
Lo stesso Crocco, d’altronde, era uno dei maggiori protagonisti dell’insurrezione in combutta con i comitati borbonici locali, pur non lasciandosi completamente sedurre dalla causa borbonica. Come era avvenuto in relazione alla sua partecipazione alle vicende garibaldine, l'insurrezione contro il Nuovo Governo aveva poco di politico, di ideale. L’autore la definisce “ disincantata” .
“Quella mia condiscendenza alla distruzione, al saccheggio, era fornite per me di maggior forza l’avvenire, l’esempio del fatto bottino traeva dalla mia altri proseliti anelanti di guadagnar fortuna col sangue”
Così Crocco diventò il generale dei Briganti e il suo destino si incrociò con quello di un generale vero, qual era Don José Borges, convinto sostenitore della causa legittimista fino alla morte , un rappresentante degli ideali della conservazione .
Invece l’etichetta della rivolta politica non si mostra calzante per Carmine Crocco e le sue bande.
Scrive Cinnella che “l’etichetta di “politico” si adatta ad alcuni episodi e situazioni locali”, ma è fuorviante attribuirlo a Carmine Crocco e alle sue bande. Lo stesso generale Borjes aveva evidenziato tale assenza.
I rapporti “ burrascosi" tra Borjes e Crocco non riguardavano solo questioni di natura militare, ma “il modo d’intendere l’azione brigantesca”.
Mentre per il generale spagnolo, la guerriglia partigiana brigantesca doveva essere intesa quale lotta partigiana, per il “capobrigante lucano rappresentava una splendida occasione di bottino e di fama”.
A proposito del ruolo del brigante che primeggia su quello di carattere politico – sociale, è lo stesso Crocco a scrivere nell’autobiografia:
“I miei compagni anelanti di sangue e più ancora di bottino, appena penetrati in paese cominciarono a scassinare porte per rubare tutto ciò che di meglio capitava nelle case. Chi resisteva, chi rifiutava di consegnare il denaro od i gioielli, era scannato senza pietà.”
Cade l’equivoco sulla guerriglia partigiana e lungi dal rivelare, successivamente, la sua natura di moto sociale, il brigantaggio resta a questo punto per quel che fu sempre nella mente dei suoi protagonisti: “una splendida occasione di bottino e di fama”, pur nella consapevolezza che tanti errori erano stati commessi dai nuovi governanti, tante ingiustizie erano state perpetrate e il “ gattopardismo” aveva avuto la sua apoteosi.
Eppure, su Crocco – scrive l’autore - è fiorita un’altra leggenda, meno diffusa ma non meno fantasiosa di quella che ha fatto del pastore di Rionero un ardimentoso campione del riscatto sociale…Secondo questa visione, Carmine Donatelli Crocco, era “fin che si vuole brigante, ma anche guerrigliero per il suo Re e per la sua Terra”.
Ettore Cinnella sostiene che “ se si vuole attribuire al brigantaggio postunitario un qualche afflato sociale, non bisogna fissare lo sguardo sulle bande più grosse e famose (come quelle di Crocco), ma scavare gl’interstizi del fenomeno principale, cioè le comitive più piccole, alcune delle quali riuscivano talora a vivere in simbiosi con il mondo contadino”.
Questa lunga fase del brigantaggio, apertasi tra la fine del ’61 e il ’65, travolge anche Crocco che, a differenza di molti suoi compagni d’avventura, sfuggì alla morte e fu arrestato definitivamente nel 1870.

Processato e condannato a morte, pena commutata nei lavori forzati a vita, Crocco si spense negli stessi "panni" del suo esordio, dopo aver conosciuto la fama di più importante brigante della storia d’Italia.

Ultimo aggiornamento Martedì 09 Luglio 2013 14:58 http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1253:carmine-crocco-storia-di-un-criminale-in-carrieraquando-il-brigantaggio-divenne-una-splendida-occasione-di-bottino-e-di-fama&catid=85:storia-del-risorgimento&Itemid=28

sabato 6 luglio 2013

Il Regno di Napoli, tra i Vicerè e i Borbone

Scritto da Antonella Orefice


Sabato 06 Luglio 2013 14:19
Dopo due secoli in cui l’operato dei viceré Spagnoli si era distinto per immobilismo e malgoverno, nel  Settecento il Regno di Napoli visse un risveglio culturale, artistico ed economico.
I vicerè  avevano considerato Napoli un territorio di conquista, una colonia da cui trarre ricchezze, in gran parte sperperate da una burocrazia corrotta ed avida.
Il sistema sociale si era fondato  su una aristocrazia estranea al potere politico ed impegnata solo a conservare gli atavici privilegi, e su una potente borghesia formata da un consistente numero di giudici, notai, medici ed avvocati, che di fatto deteneva il potere amministrativo, perché professionalmente mediava tra interessi dei nobili e del clero e la condizione sociale di un popolo, sempre più oppresso da imposizioni e tributi vari.
Napoli era la città degli opposti eccessi e la sua popolazione si ripartiva, in linea generale, in due gruppi numericamente molto disuguali: i privilegiati, clero e nobiltà da una parte, e dall’altra i non privilegiati, popolino e plebe.
Il popolo avrebbe lavorato se avesse potuto trovare lavoro: Napoli attirava tutti i poveri del regno, ma non dava loro una occupazione.
L’insensata politica del periodo dei viceré aveva distrutto il commercio e l’industria ed inoltre il sistema fiscale colpiva e stroncava i veri lavoratori.
Soltanto il parassita era onorato e protetto. In un tale stato di cose la legge della facilità, del minor sforzo era divenuta una legge fondamentale della popolazione: procacciarsi i mezzi di sostentamento con il minor  lavoro, anche senza lavoro, era la regola di condotta alla quale si uniformava la maggior parte dei napoletani e che essi applicavano con modalità diverse, a seconda della loro categoria sociale.
Ingannare, truffare, era dunque il principio dell’attività del napoletano: non trovava in ciò nulla di male, era la regola del gioco.
Così la parola buscare, che aveva una significato che stava tra guadagnare e rubare, era una delle parole più correnti del vocabolario popolare tutt’ora in uso.
C’erano mille maniere di buscare: una delle più singolari e molto fiorente era l’industria della falsa testimonianza.
Pullulava a Napoli una schiera di uomini rapaci di ogni genere, che provocavano l’imbroglio e la giustizia si vendeva. Il diritto napoletano era dunque una foresta inestricabile e, come la foresta favorisce il brigantaggio, così il diritto napoletano, con i suoi inghippi offriva il mezzo più propizio per qualsiasi azione disonesta.
La città contava un avvocato o un notaio ogni centocinquanta abitanti, proporzione superiore a quella di tutte le altre città d’Italia.
Tutti erano dottori in legge, ma questa laurea, il più delle volte comprata a buon denaro contante al Collegio dei Dottori e non concessa dall’Università, non era affatto una garanzia di competenza. Tuttavia si univano ad essa dei vantaggi fiscali ed onorifici: una tale laurea conferiva una specie di dignità che permetteva al beneficiario di bazzicare con la nobiltà.
Gli uomini di legge vestivano secondo la moda spagnola: giacca nera con le maniche strette, calzoni neri, un lungo mantello ed il cappello senza fregi.
Poi conservarono il vestito nero per i giorni feriali ed adottarono per quelli festivi e di gala la moda francese al fine di confondersi con la nobiltà.
La Vicaria era il dominio di questo mondo del tranello dove lanciavano urla spaventose nel proferire ingiurie più grossolane. Da lì un altro modo di dire ancora in uso nel vocabolario popolare per indicare chi con toni alti prevarica gli interlocutori: voce da tribunale.
Il soprannome di paglia o paglietta, proveniente dal cappello di paglia che gli avvocati usavano portare d’estate, fu il nomignolo che il popolo diede a questa corporazione ignorante, venale ed odiata.
Tuttavia, si trovavano tra costoro anche persone amabili e colte che, sotto l’aspetto esteriore grezzo che avevano contratto a Napoli, nascondevano uno spirito sottile e cortese ed un cuore eccellente.
L’arrivo nella capitale il 10 maggio del 1734 di Carlo di Borbone, dopo un breve periodo di occupazione austriaca (1707- 1734 ) segnò l’inizio della rifondazione morale ed istituzionale del Regno.
Carlo di Borbone riuscì a dare un nuovo impulso economico e politico al Regno grazie alla collaborazione dello spagnolo Josè Joaquin Guzman del Montealegre, nominato Segretario di Stato, di formazione culturale riformatrice e convinto estimatore dei nuovi indirizzi economici che si stavano affermando in Europa.
Il nuovo Segretario di Stato per attuare le sue idee si circondò di numerosi esperti, alcuni dei quali provenienti dalla Toscana, tra cui Bartolomeo Intieri e Bernardo Tanucci, ed altri presenti nel mondo accademico del Regno, come Celestino Galiani e Antonio Genovesi.
Tutto ciò venne favorito principalmente dal pieno appoggio e dal consenso di Elisabetta Farnese, conosciuta anche come Isabel de Farnesio, moglie di Filippo V, il primo re di Spagna della dinastia dei Borbone, che inviò direttamente dalla Spagna cospicue risorse finanziarie indispensabili per creare un nuovo esercito, per la costruzione in breve tempo della strada per la Calabria, del teatro San Carlo, dei palazzi reali di Portici, Caserta e Capodimonte dell’Albergo dei Poveri e per dare inizio agli scavi archeologici di Ercolano e Pompei, che destarono l’ammirazione e l’invidia delle altre corti europee.
Dal punto di vista culturale, grazie all’impegno di Celestino Galiani si diede un nuovo impulso all’Università degli studi con l’istituzione di nuovi insegnamenti a carattere scientifico e, grazie a Bartolomeo Intieri, venne introdotta la cultura illuministica.
Gli intellettuali plaudivano al nuovo principe che era riuscito a ricostruire ed a dare dignità ad un Regno, per il quale valeva fornire il massimo impegno per l’attuazione di soluzioni scientifiche moderne nell’attività amministrativa, nel campo economico ed in quello legislativo.
Questo processo di sviluppo sociale ed economico ebbe però un’inversione di tendenza a partire dal 1759, quando Carlo di Borbone, dopo la morte del fratello Ferdinando IV, si trasferì sul tono di Spagna col titolo di Carlo III ed affidò il Regno di Napoli al suo terzo figlio, Ferdinando IV che,  per la sua giovanissima età venne affiancato da un Consiglio di Reggenza in cui spiccava la figura del ministro Bernardo Tanucci.
La parte di Ferdinando IV nel risveglio intellettuale di Napoli fu del tutto  insignificante: per quanto egli avesse il buon senso di rendersi conto della sua nullità e di rendere omaggio alla scienza, in fatto di cultura dovette lasciare campo libero alle fantasie intellettuali della consorte Maria Carolina d’Austria, così come approvò più tardi costei quando consacrò l’intelligenza al sacrificio.
Maledetti furono nei secoli tutto coloro che avrebbero riportato alla luce i sei mesi della Repubblica Napoletana, un momento indimenticabile nella storia di Napoli che ci pose all'avanguardia in fatto di cività in tutta l'Europa.
La maledizione di Maria Carolina oggi onora tutti noi ricercatori di verità. Nonostante l'ondata controrivoluzionaria che ancora opera per metterci a tacere e manipolare la storia, noi continuiamo nel nostro impegno, affinchè la memoria degli eroi del 1799 sia ricordata, compresa e conservata, quale bene inestimabile ed esempio per tutta l'umanità.



A.A.VV., Il Settecento, a cura di G. Pugliese Caratelli, Napoli 1994, p. 42 e ss.
R. Bouvier A. Laffargue,  Vita napoletana del XVIII sec., Napoli, 2006, p.31 e ss.
B. Croce, Storia del Regno  di Napoli, ristampa a cura di G. Galasso, Milano, 1992, p.259.
A. Orefice, Giorgio Vincenzio Pigliacelli, Avvocato tra Massoneria e Rivoluzione, Ministro e Martire della Repubblica Napoeltana del 1799, Napoli, 2010
http://www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1250:il-regno-di-napoli-tra-i-vicere-e-i-borbone&catid=86:storia-xviii-sec&Itemid=28

lunedì 1 luglio 2013

MISERIA E OPPRESSIONE NEL REGNO DELLE DUE SICILIE (1847)



Gli stranieri che vengono nelle nostre contrade, guardando la serena bellezza del nostro cielo e la fertilità de' campi, leggendo il codice delle nostre leggi, e udendo parlar di progresso, di civiltà e di religione, crederanno che gl'italiani delle Due Sicilie godono di una felicità invidiabile. E pure nessuno Stato di Europa è incondizione peggiore della nostra, non eccettuati nemmeno i turchi, i quali almeno sono barbari, sanno che non hanno leggi, son confortati dalla religione a sottomettersi ad una cieca fatalità, e con tutto questo van migliorando ogni dì; ma nel Regno delle Sicilie, nel paese che è detto giardino d'Europa, la gente muore di vera fame e in istato peggiore delle bestie, sola legge è il capriccio, il progresso è indietreggiare ed imbarberire, nel nome santissimo di Cristo e oppresso un popolo di cristiani. Se ogni paesello, ogni terra, ogni città degli Abruzzi, de' Principati, delle Puglie, delle Calabrie, e della bella e sventurata Sicilia, potesse raccontare le crudeltà, gl'insulti, le tirannie che patisce nelle persone e negli averi; se io avessi tante lingue che potessi ripetere i lamenti e i dolori di tante persone, che gemono sotto il peso d'indicibili mali, dovrei scrivere molti e grossi volumi; ma quel pochissimo ch'io dirò farà certo piangere e fremere d'ira ogni uomo, e mostrerà che i pretesi miglioramenti che fa il nostro governo, sono svergognate menzogne, seno oppressioni novelle più ingegnose. Questo governo è un'immensa piramide, la cui base è fatta da' birri e da' preti, la cima dal re: ogni impiegato, dall'usciere al ministro, dal soldatello al generale, dal gendarme  al ministro di polizia, dal prete al confessore del re, ogni scrivanuccio è despota spietato, e pazzo su quelli che gli sono soggetti, ed è vilissimo schiavo verso i suoi superiori. Onde chi non è tra gli oppressori, si sente da ogni parte schiacciato dal peso della tirannia di mille ribaldi: e la pace, la libertà, le sostanze, la vita degli uomini onesti, dipendono dal capriccio, non dico del principe o di un ministro, ma di ogni impiegatello, di una baldracca, di una spia, di un birro, di un gesuita, di un prete.  

Luigi Settembrini 1847