La persona di cui daremo notizia concisa fu italiana al 100% e
nacque il 1° gennaio 1840 a Paesana (Saluzzo) da poverissimi contadini:
Battista Bergia e Bonetto Caterina, leali sudditi del Regno di Sardegna.
Chiaffredo Bergia venne su sin da piccolo con una rigorosa dieta a
polenta, sudando e gelando secondo la stagione, strappando erbacce o
pascolando capre.
Quando costatò che, in Patria, non c’era di meglio per un giovane
intelligente e intraprendente come lui, quindicenne (Primavera 1855),
emigrò in Francia, a piedi, portando con sé il fratellino minore
Giuseppe. Analfabeta, senza riferimenti, senza un soldo. Eppure ci
arrivò, senza mai mendicare, facendo lavoretti qua e là. Obbligato a
fermarsi per una malattia del fratello, riuscì a farlo curare, senza
chieder nulla a nessuno. Giunse perfino a fare la guida turistica, su
montagne che non aveva mai visto, a un Lord inglese naturalista, certo
Witterly. Eccolo finalmente in Francia, dove, per cinque anni, fece di
tutto, dal bracciante e pastore a Embrun al muratore a Marsiglia, dal
cameriere e poi l’operaio a Tolone, e poi ad Aix, e poi a Nizza. Perse
parecchi posti, sempre per il suo carattere orgoglioso, mai per pigrizia
o inettitudine, e altrettanti ne trovò. E proprio a Tolone,
casualmente, si rivelò la sua vera vocazione.
Chiaffredo Bergia travestito da Brigante |
Voli di fantasia romanzesca? Neanche un briciolo. Ne fa teste il premio
di duecento sonanti franchi che il Commissario-capo di Tolone, stupito e
ammirato, volle gli fosse versato.
Giunto all’età di leva, Chiaffredo tornò in Piemonte e il 12 .12. 1860
chiese di essere arruolato nei Reali Carabinieri, Legione allievi di
Torino. Dal corso usciva come carabiniere a piedi il 1° novembe 1861.
Divenuto professionista dell’anti-crimine, le imprese dell’ex emigrante,
quasi tutte in Abruzzo, contribuirono tutte a creargli intorno la fama,
mai smentita, di geniale e imprevedibile servo della legge. Si era
intorno al 1870, anno cruciale per la storia d’Europa. Il tempo della
Comune, di Sedan, di Porta Pia. Eppure, non solo la stampa italiana, ma
addirittura Le Figaro, il Times, Il Morning Post trovarono spazio per
Bergia sulle loro colonne. E l’incredibile versatilità e astuzia del
super-carabiniere Bergia, la sua abilità nell’assumere gli aspetti più
disparati (persino di monaca!) la sua audacia rasentante la follia, ma
rivelatasi ogni volta la tattica più sicura ed efficiente, il suo
sistematico accettare tutte le sfide personali che i maggiori criminali,
a tutela del loro prestigio, usavano lanciargli, si sarebbero prestate
come nessun’altra a farne una leggenda. Eppure, dopo il maledetto 1892,
in cui una banale influenza con complicazioni pleuro-polmonari lo
condusse a morte, solo cinquantaduenne, Chiaffredo Bergia - tranne che
per l’Arma, fu cancellato dalla memoria e dalle fantasie. Perché?
Delle imprese quasi miracolose da lui compiute (vere e documentate: non
inventate o “gonfiate”), è impossibile in questa sede dare un resoconto,
anche sommario e limitato alle maggiori. Una cosa va chiarita: che
esse, svoltesi quasi del tutto nell’ex-Stato Pontificio (legione di
Chieti), e solo dopo il ‘70 nella Legione di Bari), non devono affatto
inserirsi nella guerra civile combattuta dalle forze savoiarde contro i
fedeli di Franceschiello. Gli avversari di Bergia furono solo autentici
criminali o briganti, anche se terribili combattenti, e supportati da
vaste complicità in loco.
Rievochiamone fulmineamente qualcuna, per dare un’idea. Ma esse furono
talmente continue e innumerevoli da procurargli una medaglia d’0ro al
V.M., un’Ordine Militare di Savoia, due Medaglie d’argento, due di
bronzo e decine di menzioni onorevoli, senza dire che tutte le sue
promozioni, da carabiniere semplice a capitano, furono “per meriti
speciali”.
Ancora da carabiniere semplice, ma già citato più volte nella circolare
della Legione di Chieti, ebbe la prima medaglia d’argento, a 23 anni,
per l’impresa contro la banda Tamburini. Ardito ed astuto, paralizzando i
contadini col terrore, a capo di una dozzina di banditi ben armati ed
equipaggiati, il Tamburini perpetrava da oltre un anno rapine, omicidi e
sequestri di persona. Aveva anche rapito, tra gli altri, due guardie
campestri (Ianni e Di Clemente). Il 22.4.1863 Bergia era uscito in
perlustrazione con i due colleghi della sezione di Scanno, mentre il
brigadiere era rimasto in caserma, e stava concedendo un po’ di riposo
alle gambe in una piccola macchia d’alberi, a mezza costa. Ed ecco
comparire in alto la banda Tamburini al completo. Facile sarebbe stato
ai tre militari restarsene accucciati e passare inosservati, data
l’eccessiva disparità di forze. “Non ci siamo arruolati per
nasconderci”, disse invece Bergia, e gli altri, Grin e Pompili, furono
d’accordo e aprirono il fuoco. La banda subito si aprì e rispose
all’attacco. Erano tanti e sparavano bene. Grin prese subito una palla
all’apice d’un polmone.
- Portalo a casa, Pompili-
- E quelli?
- Ci penso io.
E ci pensò lui, da solo, sgusciando come un furetto e sparando preciso,
per impedire ai briganti di avvicinarsi al collega improvvisatosi
portaferiti (ma senza barella) e, riuscito questo a compiere il
salvataggio, tornò indietro a coprirgli le spalle. Inferociti per la
fuga della preda, che pareva loro sicura, Tamburini e i suoi
concentrarono gli sforzi sull’uomo solo, che avevano capito chi fosse.
Ma quell’uomo li tenne tutti in sacco, e, a sera, esausto ma senza un
graffio, raggiunse anch’egli la sezione.
E veniamo a quello che fu forse il suo capolavoro. 1871. Ormai
brigadiere, Chiaffredo Bergia, comandava l’inutile stazione di S.Buono.
Inutile - precisiamo - perché ormai ogni stazione affidata a Bergia
diventava “ipso facto” inutile, in quanto l’intero malandrinaggio si
affrettava a cercarsi acque più salubri altrove. Allora, gli affidavano
missioni speciali, come quelle, sempre nel 1871, di liberare l’Abruzzo
dalla feroce e efficientissima banda di Croce di Tola. Non possiamo, per
brevità, entrare negli stupefacenti dettagli dell’impresa, compiuta
anch’essa con l’aiuto di tre soli militi: Verdelli, Galimberti e
Fragalà. Dobbiamo limitarci alla trascrizione della stringata
motivazione con cui gli fu concesso l’O.M. di Savoia.” per l’ardimento e
il coraggio di cui diede prova, nell’occasione in cui, assediato con
tre dipendenti da una banda di briganti, in una casa in cui si erano
momentaneamente fermati, dopo un vivo combattimento, sostenuto passando
dalla difensiva all’offensiva, riuscì a catturare il capo di quella
masnada e a disperdere gli altri, due dei quali, pochi giorni dopo, si
consegnavano alla giustizia”. E, sempre nel 1871, arrivava la seconda
“missione speciale”.
Le due bande collegate di Michelangelo e Giuseppe Pomponio e di Pasquale
D’Alena s’erano scordate da un pezzo la fedeltà borbonica che ne aveva
motivato la fondazione dieci anni addietro, con basi nell’ospitale Stato
Pontificio, e si erano bellamente specializzate nel lucroso mestiere di
ladroni e di estortori. Per dire, Pomponio junior aveva già totalizzato
venti omicidi accertati, e Pasquale d’Alena, detto il Romano era noto
per i raccapriccianti atti di crudeltà che facevano passare a chiunque
l’uzzolo di ostacolargli l’onorata carriera.
Ed ecco che, d’improvviso, Bergia scomparve dall’Abruzzo. La voce che fu
fatta circolare fu che egli fosse stato trasferito a Torino, e,
naturalmente, i primi a raccoglierla, con un respiro di sollievo, furono
i menzionati criminali, che aumentarono la loro improntitudine, ma
abbassarono anche alquanto la guardia. Coincidenza: erano stati
“trasferiti” anche quattro militi fra i più bravi: Carrà, Corti, Pavan e
Livio, nominativamente richiesti. La verità era che i cinque non si
erano affatto allontanati, ma invece avvicinati. In un ignorato casolare
nascosto dalla macchia più fitta, mentre i cannoni di Lamarmora
foravano, a Roma, le mura serviane, il brigadiere Bergia sfoggiava poco
più a est le sue abilità di truccatore, e si faceva, coi suoi fedeli,
crescere la barba. Nessuno, ormai, avrebbe potuto sospettare come
poliziotti quegli irsuti e maleolenti gaglioffi calzati di cioce
sbrindellate, coperti da cappellacci a cono, indossanti giubbotti di
pecora non conciata rammendati con lo spago.
Pastori, al massimo, o forse contrabbandieri, erranti tra Orsogna e
Guardiagrele. Di persona o loro tramite, il capo aveva provveduto a
“rinfrescare” tutta la propria rete di informatori, e da uno di essi
aveva saputo che l’indomani, al bosco di Dogliola sarebbe transitata la
banda d’Alena. E lui andò ad attenderla. Eccoli, finalmente. Sembrano
due in avanguardia. Ma Bergia non conosceva il segnale di riconoscimento
e quelli mangiarono la foglia, presero a sparare e si diedero alla
fuga. Non si sapeva quanti li seguissero, e il buio era assoluto,
tuttavia i militari non esitarono a inseguirli, seguendo il rumore del
frascame. Ma nessuno, con tanti chilometri nelle gambe, poteva
eguagliare la loro velocità. Nessuno che non fosse Bergia, beninteso, e
così rimase solo e raggiunse il più grande dei due, calandogli come una
mazza tra le spalle la sua bella Lefencheux, donatagli dal prefetto. La
carabina si spezzò in due. Ma che cos’era, quello: un rinoceronte?
Cadde in avanti e il brigadiere gli volò addosso. Ma era inerme, ora,
mentre l’altro, forte come un orso, aveva il coltello, e sapeva ben
usarlo. Impedirgli, insieme, di fuggire e di colpirlo pareva
impossibile. Ma Bergia lo fece, finché arrivò di corsa Livio e uccise il
bandito con una rivolverata. Era Pasquale D’Alena. E il prestigio della
terribile banda cominciò a declinare. Chi erano, i più forti e i più
“affidabili”? Così, un giorno d’autunno, un certo Argentieri andò a
cercare Bergia e gli dichiarò di essere stato sino ad allora un
sostenitore dei Pomponio, ma di essersi pentito e di voler saltare il
fosso, purché gli si garantisse la sicurezza e l’impunità. Fece di più:
informò che presso di lui era ricoverato Giuseppe Pomponio, ferito da un
sequestrato nell’infelice tentativo di liberarsi, e assistito
dall’ex-amante del D’Alena. Bergia si consultò subito col suo comandante
di Legione cap. Sequi e con lui fu pienamente d’accordo: guardarsi
dall’arrestare o mettere sull’avviso il ferito, che poteva essere l’esca
per catturare il resto della banda. Col Sequi, fu predisposto un
imponente schieramento di quasi cento tra Carabinieri e altri reparti,
per esser certi che nessuno dei banditi, e soprattutto i capi,
Michelangelo Pomponio e certo Di Nardo, potessero sfuggire, se solo si
fossero accostati a casa Argentieri. Ma fu una delusione.
Entrati forse in sospetto, i ricercati non si fecero vivi. Dopo due
settimane di vana attesa, il comando decise di rinviare il tentativo ad
altra occasione, e ritirò l’intero apparato. Solo a Bergia fu ordinato
di restare e di tener d’occhio la casa, avvertendo se ci fosse qualsiasi
novità, ma senza intraprendere, in così pochi, alcuna azione. Ma ecco
la situazione precipitare. Arriva, trafelato, l’Argentieri:
- Stasera, li vengono a prendere!
Mancava il tempo materiale per far arrivare rinforzi. E allora Bergia e i
suoi fecero, in tre (con l’aiuto di due coraggiosi contadini) quello
che avrebbero dovuto fare i cento. Il risultato fu che il Di Nardo,
esausto, si suicidò con una revolverata, e Bergia inseguì e raggiunse il
Pomponio, sfuggì -come al solito - a ben quattro sue revolverate
ravvicinate, l’agguantò e lo tenne stretto con le mani, finché
soccombette a una rivolverata del sopraggiunto Pavan. Quanto al ferito
di casa Argentieri, si fece barellare buono buono.
Le bande riunite Pomponio - D’Alena non esistevano più.
Grande fu la festa in paese, e tutti i notabili, tirati a lucido,
convennero in piazza, per esprimere all’eroe la sempiterna
riconoscenza... eccetera eccetera. Ma ci restarono male, perché né
Bergia né i suoi si fecero vedere. Appena terminato il conflitto, con le
armi ancora calde, avevano bevuto un sorso d’acqua ed erano tornati
nella macchia. Lì, aggiungendo senza risparmio chilometri ai tanti già
macinati, con le informazioni raccolte nei giorni precedenti, provvidero
a distruggere del tutto la perfetta rete di informatori e manutengoli
che aveva fatto la terribile efficienza dei criminali. Quarantotto, ne
riportarono ammanettati in mesto corteo. Ora, sì, ricostruire la banda
da parte di qualche ambizioso di nuova generazione era veramente
impossibile!
Ma il Nostro non fu solo un guerriero invincibile. La sua vita è piena di notazioni tenere e commoventi.
Come la cura con cui, privandosi del fumo, del gioco, degli alcoolici,
riuscì a permettere ai fratelli minori di frequentare quelle scuole che a
lui erano state precluse dalla miseria; come gli eroici sforzi con cui
lui, uomo d’azione, riuscì a curvarsi sui libri prestatigli dal parroco,
per affrontare la prova di cultura generale prevista per l’esame di
vicebrigadiere; come, soprattutto, il tenerissimo amore, e poi felice
matrimonio con Claudina, figlia del suo ex-superiore e poi grande amico
ed estimatore, il magg. Borghese, che, nonostante la forte differenza
d’età, fu anche la sua maggiore amica, gli diede quattro figli, si
appassionò del suo lavoro e vi collaborò attivamente come segretaria e
consigliera.
Come si vede, ve n’era in abbondanza per ispirare alla sua figura uno o
anche più personaggi per l’infanzia, senza ricorrere agli stucchevoli
Kit, o Ken, o Braddok, alcoolisti e vanesi, turpiloquenti e moralisti
d’accatto, che infestano le nostre edicole.
Nel 1861, D’Azeglio aveva detto: ora che è fatta l’Italia, occorre fare
gli Italiani. Ora, dobbiamo rifare sia l’una che gli altri.
Cominciando dai piccoli!
Rutilio Sermonti su "Rinascita"
(26 Settembre 2012)
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