domenica 30 settembre 2012

La storia di Chiaffredo Bergia, il guerriero invincibile

La persona di cui daremo notizia concisa fu italiana al 100% e nacque il 1° gennaio 1840 a Paesana (Saluzzo) da poverissimi contadini: Battista Bergia e Bonetto Caterina, leali sudditi del Regno di Sardegna. Chiaffredo Bergia venne su sin da piccolo con una rigorosa dieta a polenta, sudando e gelando secondo la stagione, strappando erbacce o pascolando capre.
Quando costatò che, in Patria, non c’era di meglio per un giovane intelligente e intraprendente come lui, quindicenne (Primavera 1855), emigrò in Francia, a piedi, portando con sé il fratellino minore Giuseppe. Analfabeta, senza riferimenti, senza un soldo. Eppure ci arrivò, senza mai mendicare, facendo lavoretti qua e là. Obbligato a fermarsi per una malattia del fratello, riuscì a farlo curare, senza chieder nulla a nessuno. Giunse perfino a fare la guida turistica, su montagne che non aveva mai visto, a un Lord inglese naturalista, certo Witterly. Eccolo finalmente in Francia, dove, per cinque anni, fece di tutto, dal bracciante e pastore a Embrun al muratore a Marsiglia, dal cameriere e poi l’operaio a Tolone, e poi ad Aix, e poi a Nizza. Perse parecchi posti, sempre per il suo carattere orgoglioso, mai per pigrizia o inettitudine, e altrettanti ne trovò. E proprio a Tolone, casualmente, si rivelò la sua vera vocazione.
Chiaffredo Bergia travestito da Brigante
Diciassettenne (si rimarchi l’età!), tornava con un amico da una gita fuori porta, quando vide due delinquenti che fuggivano. Costoro avevano tentato di violentare una donna e ammazzato il marito che accorreva a difenderla, ma il ragazzo, che ne sapeva? Non era mica presente, lui! Eppure, lo sapeva, come se lo avessero scritto sulla schiena! Il puzzo del delitto, lui lo sentiva come un cane da cerca. E scattò all’inseguimento. Veloce com’era, acciuffò subito il primo, più goffo, e l’affidò alle “cure” del suo amico. Poi, subito, a razzo, dietro l’altro, lui a mani nude e quello armato di pistola. Sentendoselo alle spalle, l’apache si volta e gli spara, uno, due colpi. Niente: Bergia non si colpisce. La sua prontezza di riflessi è sbalorditiva. Non può sparare il terzo perché arrivano prima sul suo ceffo due cazzotti secchi e duri come sassate, che lo stendono lungo. Chiaffredo lo disarma, e resta in piedi accanto a lui ad aspettare tranquillo i gendarmi, che finalmente arrivano.
Voli di fantasia romanzesca? Neanche un briciolo. Ne fa teste il premio di duecento sonanti franchi che il Commissario-capo di Tolone, stupito e ammirato, volle gli fosse versato.
Giunto all’età di leva, Chiaffredo tornò in Piemonte e il 12 .12. 1860 chiese di essere arruolato nei Reali Carabinieri, Legione allievi di Torino. Dal corso usciva come carabiniere a piedi il 1° novembe 1861.
Divenuto professionista dell’anti-crimine, le imprese dell’ex emigrante, quasi tutte in Abruzzo, contribuirono tutte a creargli intorno la fama, mai smentita, di geniale e imprevedibile servo della legge. Si era intorno al 1870, anno cruciale per la storia d’Europa. Il tempo della Comune, di Sedan, di Porta Pia. Eppure, non solo la stampa italiana, ma addirittura Le Figaro, il Times, Il Morning Post trovarono spazio per Bergia sulle loro colonne. E l’incredibile versatilità e astuzia del super-carabiniere Bergia, la sua abilità nell’assumere gli aspetti più disparati (persino di monaca!) la sua audacia rasentante la follia, ma rivelatasi ogni volta la tattica più sicura ed efficiente, il suo sistematico accettare tutte le sfide personali che i maggiori criminali, a tutela del loro prestigio, usavano lanciargli, si sarebbero prestate come nessun’altra a farne una leggenda. Eppure, dopo il maledetto 1892, in cui una banale influenza con complicazioni pleuro-polmonari lo condusse a morte, solo cinquantaduenne, Chiaffredo Bergia - tranne che per l’Arma, fu cancellato dalla memoria e dalle fantasie. Perché?
Delle imprese quasi miracolose da lui compiute (vere e documentate: non inventate o “gonfiate”), è impossibile in questa sede dare un resoconto, anche sommario e limitato alle maggiori. Una cosa va chiarita: che esse, svoltesi quasi del tutto nell’ex-Stato Pontificio (legione di Chieti), e solo dopo il ‘70 nella Legione di Bari), non devono affatto inserirsi nella guerra civile combattuta dalle forze savoiarde contro i fedeli di Franceschiello. Gli avversari di Bergia furono solo autentici criminali o briganti, anche se terribili combattenti, e supportati da vaste complicità in loco.
Rievochiamone fulmineamente qualcuna, per dare un’idea. Ma esse furono talmente continue e innumerevoli da procurargli una medaglia d’0ro al V.M., un’Ordine Militare di Savoia, due Medaglie d’argento, due di bronzo e decine di menzioni onorevoli, senza dire che tutte le sue promozioni, da carabiniere semplice a capitano, furono “per meriti speciali”.
Ancora da carabiniere semplice, ma già citato più volte nella circolare della Legione di Chieti, ebbe la prima medaglia d’argento, a 23 anni, per l’impresa contro la banda Tamburini. Ardito ed astuto, paralizzando i contadini col terrore, a capo di una dozzina di banditi ben armati ed equipaggiati, il Tamburini perpetrava da oltre un anno rapine, omicidi e sequestri di persona. Aveva anche rapito, tra gli altri, due guardie campestri (Ianni e Di Clemente). Il 22.4.1863 Bergia era uscito in perlustrazione con i due colleghi della sezione di Scanno, mentre il brigadiere era rimasto in caserma, e stava concedendo un po’ di riposo alle gambe in una piccola macchia d’alberi, a mezza costa. Ed ecco comparire in alto la banda Tamburini al completo. Facile sarebbe stato ai tre militari restarsene accucciati e passare inosservati, data l’eccessiva disparità di forze. “Non ci siamo arruolati per nasconderci”, disse invece Bergia, e gli altri, Grin e Pompili, furono d’accordo e aprirono il fuoco. La banda subito si aprì e rispose all’attacco. Erano tanti e sparavano bene. Grin prese subito una palla all’apice d’un polmone.
- Portalo a casa, Pompili-
- E quelli?
- Ci penso io.
E ci pensò lui, da solo, sgusciando come un furetto e sparando preciso, per impedire ai briganti di avvicinarsi al collega improvvisatosi portaferiti (ma senza barella) e, riuscito questo a compiere il salvataggio, tornò indietro a coprirgli le spalle. Inferociti per la fuga della preda, che pareva loro sicura, Tamburini e i suoi concentrarono gli sforzi sull’uomo solo, che avevano capito chi fosse. Ma quell’uomo li tenne tutti in sacco, e, a sera, esausto ma senza un graffio, raggiunse anch’egli la sezione.
E veniamo a quello che fu forse il suo capolavoro. 1871. Ormai brigadiere, Chiaffredo Bergia, comandava l’inutile stazione di S.Buono. Inutile - precisiamo - perché ormai ogni stazione affidata a Bergia diventava “ipso facto” inutile, in quanto l’intero malandrinaggio si affrettava a cercarsi acque più salubri altrove. Allora, gli affidavano missioni speciali, come quelle, sempre nel 1871, di liberare l’Abruzzo dalla feroce e efficientissima banda di Croce di Tola. Non possiamo, per brevità, entrare negli stupefacenti dettagli dell’impresa, compiuta anch’essa con l’aiuto di tre soli militi: Verdelli, Galimberti e Fragalà. Dobbiamo limitarci alla trascrizione della stringata motivazione con cui gli fu concesso l’O.M. di Savoia.” per l’ardimento e il coraggio di cui diede prova, nell’occasione in cui, assediato con tre dipendenti da una banda di briganti, in una casa in cui si erano momentaneamente fermati, dopo un vivo combattimento, sostenuto passando dalla difensiva all’offensiva, riuscì a catturare il capo di quella masnada e a disperdere gli altri, due dei quali, pochi giorni dopo, si consegnavano alla giustizia”. E, sempre nel 1871, arrivava la seconda “missione speciale”.
Le due bande collegate di Michelangelo e Giuseppe Pomponio e di Pasquale D’Alena s’erano scordate da un pezzo la fedeltà borbonica che ne aveva motivato la fondazione dieci anni addietro, con basi nell’ospitale Stato Pontificio, e si erano bellamente specializzate nel lucroso mestiere di ladroni e di estortori. Per dire, Pomponio junior aveva già totalizzato venti omicidi accertati, e Pasquale d’Alena, detto il Romano era noto per i raccapriccianti atti di crudeltà che facevano passare a chiunque l’uzzolo di ostacolargli l’onorata carriera.
Ed ecco che, d’improvviso, Bergia scomparve dall’Abruzzo. La voce che fu fatta circolare fu che egli fosse stato trasferito a Torino, e, naturalmente, i primi a raccoglierla, con un respiro di sollievo, furono i menzionati criminali, che aumentarono la loro improntitudine, ma abbassarono anche alquanto la guardia. Coincidenza: erano stati “trasferiti” anche quattro militi fra i più bravi: Carrà, Corti, Pavan e Livio, nominativamente richiesti. La verità era che i cinque non si erano affatto allontanati, ma invece avvicinati. In un ignorato casolare nascosto dalla macchia più fitta, mentre i cannoni di Lamarmora foravano, a Roma, le mura serviane, il brigadiere Bergia sfoggiava poco più a est le sue abilità di truccatore, e si faceva, coi suoi fedeli, crescere la barba. Nessuno, ormai, avrebbe potuto sospettare come poliziotti quegli irsuti e maleolenti gaglioffi calzati di cioce sbrindellate, coperti da cappellacci a cono, indossanti giubbotti di pecora non conciata rammendati con lo spago.
Pastori, al massimo, o forse contrabbandieri, erranti tra Orsogna e Guardiagrele. Di persona o loro tramite, il capo aveva provveduto a “rinfrescare” tutta la propria rete di informatori, e da uno di essi aveva saputo che l’indomani, al bosco di Dogliola sarebbe transitata la banda d’Alena. E lui andò ad attenderla. Eccoli, finalmente. Sembrano due in avanguardia. Ma Bergia non conosceva il segnale di riconoscimento e quelli mangiarono la foglia, presero a sparare e si diedero alla fuga. Non si sapeva quanti li seguissero, e il buio era assoluto, tuttavia i militari non esitarono a inseguirli, seguendo il rumore del frascame. Ma nessuno, con tanti chilometri nelle gambe, poteva eguagliare la loro velocità. Nessuno che non fosse Bergia, beninteso, e così rimase solo e raggiunse il più grande dei due, calandogli come una mazza tra le spalle la sua bella Lefencheux, donatagli dal prefetto. La carabina si spezzò in due. Ma che cos’era, quello: un rinoceronte? Cadde in avanti e il brigadiere gli volò addosso. Ma era inerme, ora, mentre l’altro, forte come un orso, aveva il coltello, e sapeva ben usarlo. Impedirgli, insieme, di fuggire e di colpirlo pareva impossibile. Ma Bergia lo fece, finché arrivò di corsa Livio e uccise il bandito con una rivolverata. Era Pasquale D’Alena. E il prestigio della terribile banda cominciò a declinare. Chi erano, i più forti e i più “affidabili”? Così, un giorno d’autunno, un certo Argentieri andò a cercare Bergia e gli dichiarò di essere stato sino ad allora un sostenitore dei Pomponio, ma di essersi pentito e di voler saltare il fosso, purché gli si garantisse la sicurezza e l’impunità. Fece di più: informò che presso di lui era ricoverato Giuseppe Pomponio, ferito da un sequestrato nell’infelice tentativo di liberarsi, e assistito dall’ex-amante del D’Alena. Bergia si consultò subito col suo comandante di Legione cap. Sequi e con lui fu pienamente d’accordo: guardarsi dall’arrestare o mettere sull’avviso il ferito, che poteva essere l’esca per catturare il resto della banda. Col Sequi, fu predisposto un imponente schieramento di quasi cento tra Carabinieri e altri reparti, per esser certi che nessuno dei banditi, e soprattutto i capi, Michelangelo Pomponio e certo Di Nardo, potessero sfuggire, se solo si fossero accostati a casa Argentieri. Ma fu una delusione.
Entrati forse in sospetto, i ricercati non si fecero vivi. Dopo due settimane di vana attesa, il comando decise di rinviare il tentativo ad altra occasione, e ritirò l’intero apparato. Solo a Bergia fu ordinato di restare e di tener d’occhio la casa, avvertendo se ci fosse qualsiasi novità, ma senza intraprendere, in così pochi, alcuna azione. Ma ecco la situazione precipitare. Arriva, trafelato, l’Argentieri:
- Stasera, li vengono a prendere!
Mancava il tempo materiale per far arrivare rinforzi. E allora Bergia e i suoi fecero, in tre (con l’aiuto di due coraggiosi contadini) quello che avrebbero dovuto fare i cento. Il risultato fu che il Di Nardo, esausto, si suicidò con una revolverata, e Bergia inseguì e raggiunse il Pomponio, sfuggì -come al solito - a ben quattro sue revolverate ravvicinate, l’agguantò e lo tenne stretto con le mani, finché soccombette a una rivolverata del sopraggiunto Pavan. Quanto al ferito di casa Argentieri, si fece barellare buono buono.
Le bande riunite Pomponio - D’Alena non esistevano più.
Grande fu la festa in paese, e tutti i notabili, tirati a lucido, convennero in piazza, per esprimere all’eroe la sempiterna riconoscenza... eccetera eccetera. Ma ci restarono male, perché né Bergia né i suoi si fecero vedere. Appena terminato il conflitto, con le armi ancora calde, avevano bevuto un sorso d’acqua ed erano tornati nella macchia. Lì, aggiungendo senza risparmio chilometri ai tanti già macinati, con le informazioni raccolte nei giorni precedenti, provvidero a distruggere del tutto la perfetta rete di informatori e manutengoli che aveva fatto la terribile efficienza dei criminali. Quarantotto, ne riportarono ammanettati in mesto corteo. Ora, sì, ricostruire la banda da parte di qualche ambizioso di nuova generazione era veramente impossibile!
Ma il Nostro non fu solo un guerriero invincibile. La sua vita è piena di notazioni tenere e commoventi.
Come la cura con cui, privandosi del fumo, del gioco, degli alcoolici, riuscì a permettere ai fratelli minori di frequentare quelle scuole che a lui erano state precluse dalla miseria; come gli eroici sforzi con cui lui, uomo d’azione, riuscì a curvarsi sui libri prestatigli dal parroco, per affrontare la prova di cultura generale prevista per l’esame di vicebrigadiere; come, soprattutto, il tenerissimo amore, e poi felice matrimonio con Claudina, figlia del suo ex-superiore e poi grande amico ed estimatore, il magg. Borghese, che, nonostante la forte differenza d’età, fu anche la sua maggiore amica, gli diede quattro figli, si appassionò del suo lavoro e vi collaborò attivamente come segretaria e consigliera.
Come si vede, ve n’era in abbondanza per ispirare alla sua figura uno o anche più personaggi per l’infanzia, senza ricorrere agli stucchevoli Kit, o Ken, o Braddok, alcoolisti e vanesi, turpiloquenti e moralisti d’accatto, che infestano le nostre edicole.
Nel 1861, D’Azeglio aveva detto: ora che è fatta l’Italia, occorre fare gli Italiani. Ora, dobbiamo rifare sia l’una che gli altri.
Cominciando dai piccoli!
Rutilio Sermonti su "Rinascita"
(26 Settembre 2012)