martedì 6 novembre 2012

L'affare tabacchi, il primo scandalo

ROMANZI

Non ho bisogno di dire quello che penso delle ruberie, della corruzione, degli scandali, che oggi contaminano la vita italiana. Ma non amo il modo con cui la televisione e i giornali ne riferiscono: con volgarità, sfacciataggine, compiacenza, nascosta complicità, in modo che il racconto degli scandali diventa esso stesso uno scandalo.
Ci sono pochissime eccezioni. La principale è quella di Gian Antonio Stella, che insieme a Sergio Rizzo dedica ai delitti politico-economici in Italia una serie di articoli sul «Corriere della Sera», e libri impegnativi. In Stella non c'è alcuna compiacenza, o tantomeno complicità. Quando egli scrive, gli innumerevoli delitti sono documentati uno per uno: analizzati con grande precisione; e ricondotti a un sistema, che li comprende e li spiega tutti. È un sistema tragico, di cui Stella non diminuisce mai la gravità o il peso. Ma, al tempo stesso, forma un'immensa farsa. Così, il riso rivela insieme l'esattezza spietata della mente che condanna, e la liberazione dai delitti, che vengono cancellati, annullati, forse resi impossibili per il futuro, dallo spirito del gioco.
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Gian Antonio Stella, «I misteri di via dell’Amorino» (Rizzoli, pp. 286, € 17)Gian Antonio Stella, «I misteri di via dell’Amorino» (Rizzoli, pp. 286, € 17)
Con I misteri di via dell'Amorino(Rizzoli), Stella racconta con intelligenza ed estro uno scandalo misterioso e lontanissimo, che sembra gettare una luce sinistra sui delitti di oggi. Nel luglio 1868, il Parlamento diede via libera a una convenzione tra il ministero delle Finanze e Domenico Balduino, rappresentante della Società del Credito Mobiliare, a sua volta legata ad altri istituti di credito. Lo Stato cedeva per vent'anni la gestione dei tabacchi ad una società privata, che riconosceva alle Finanze una certa percentuale sulle entrate e anticipava alle pubbliche casse 180 milioni di lire. Era una convenzione iniqua. Giuseppe Lanza, presidente della Camera, la assalì in Parlamento: «Col combattere questa proposta di legge, difendo gli interessi generali delle Finanze». Attaccò «il sistema degli appalti in materia di imposte, perché aveva dato sempre gli stessi risultati: appaltatori impinguati, finanze stremate, ira popolare, rivoluzione». «Signori - concludeva - vi siete informati in prima in che condizione sia il Credito Mobiliare, quale sia il suo capitale effettivo, quale sia il corso delle sue azioni, de' suoi titoli, quali sono gli affari che ha fatto da che fu istituito e come li abbia condotti?».
La passione e la competenza di Giuseppe Lanza e di Quintino Sella non scossero la disciplina di partito. La convenzione andava votata. L'8 agosto il provvedimento passava, alla Camera, con 205 sì e 161 no. L'approvazione del Senato era certa. La cessione dei tabacchi a una società anonima che non si era mai occupata di tabacchi diventava legge. Lo stesso giorno Giovanni Lanza si dimise da presidente della Camera; e Vittorio Emanuele II, per evitare che i deputati continuassero a discutere intorno ai misteri della convenzione, chiudeva il Parlamento e mandava tutti in vacanza.
Presto scoppiò lo scandalo. Il Natale del 1868, il «Gazzettino Rosa» di Milano pubblicò un articolo furioso. Qualche giorno prima, il deputato Luigi Zini, che proveniva dalla magistratura, aveva mandato una lettera al Lanza: «Si assevera che, per l'affare dei tabacchi, furono distribuiti diversi milioni, dei quali sei al re, e due tra sessanta deputati». Poi si diffuse la voce «che non meno di sei milioni si fossero distribuiti per comperare voti di deputati, che in numero di sessantacinque avevano messo al traffico la propria coscienza». Erano giorni di altissima tensione. Le piazze italiane erano percorse da cortei contro la tassa sul macinato, in vigore dal 1° gennaio 1869. Sassaiole, cori contro il governo, cariche di carabinieri a cavallo, morti e feriti. Francesco Crispi sosteneva che si trattava di un'imposta progressiva, non in proporzione della ricchezza ma della miseria. Malgrado le aspettative del governo, la tassa avrebbe reso quell'anno solo 28 milioni: circa un terzo rispetto ai 75 milioni previsti.
Qualche mese dopo, nel giugno 1869, Giuseppe Ferrari, repubblicano e federalista, chiese la parola alla Camera: «Io chiedo nell'interesse di tutti e del Paese di aprire un'inchiesta sui fatti relativi alla Regìa dei Tabacchi». Il 5 giugno il maggiore Cristiano Lobbia, un onesto deputato di origine garibaldina, sollevò due grossi plichi chiusi con cinque sigilli rossi e li agitò in aria: «Annunzio solennemente alla Camera che posseggo dichiarazioni di testimoni, superiori a qualsiasi eccezione, le quali dichiarazioni sono a carico di un deputato nostro collega, e si riferiscono a lucri che avrebbe percepito nelle contrattazioni della Regìa dei Tabacchi». La commissione, composta di uomini della Destra, del Centro e della Sinistra, venne eletta; e il Lobbia fu convocato per il 16 giugno, per sapere cosa ci fosse in quei plichi misteriosi.
La vigilia della convocazione, alla mezzanotte del 15 giugno, il Lobbia «transitava per via Sant'Antonio e stava per voltare in via dell'Amorino, dove abitava un suo amico, quando un uomo uscì dall'ombra, gli si avventò di fronte e gli vibrò un colpo di stile diretto al petto». Il ferito stramazzò a terra: l'assassino gli fu sopra di nuovo; e gli vibrò un secondo e poi un terzo colpo alla testa. Alla fine il Lobbia riuscì ad alzarsi in piedi, si voltò e sparò due colpi di pistola all'assassino, che fuggì, probabilmente ferito. Raccolto nella casa dell'amico, il Lobbia ebbe le prime cure da parte di un medico, il quale dichiarò che le ferite non erano mortali.
La macchina legislativa italiana in una caricatura del giornale satirico «Il Fischietto»
Nel mese dopo il tentativo di assassinio, Cristiano Lobbia venne continuamente seguito e spiato: strani figuri sparivano dietro gli angoli delle strade, o sbucavano improvvisamente sulle scale. La magistratura tentava in tutti i modi di demolire l'attentato di via dell'Amorino, mettendo sotto accusa Lobbia e i suoi amici, che avevano costretto il Parlamento a votare l'inchiesta. Il 12 settembre 1869 Lobbia ricevette due mandati di comparizione, in cui gli si ordinava di presentarsi al tribunale il 15 settembre, imputato di simulazione di delitto.
Il 26 ottobre cominciò il farsesco processo contro la vittima: il tribunale non diede tempo ai difensori di leggere le carte, rifiutò la necessaria autorizzazione della Camera prevista dallo Statuto albertino, e il ricorso di Lobbia in Cassazione. Il tempo a disposizione era pochissimo: incombeva la riapertura della Camera; la commissione teneva udienza tutti i giorni della settimana, mattina e pomeriggio, compresi i sabati, e persino il 2 novembre. Il minuzioso racconto di Stella è mirabile: tragico e comicissimo; ci ricorda da lontano le cronache giudiziarie di Dostoevskij, che vedeva nel processo e nell'odore di tribunale l'aspetto essenziale dell'esistenza. Tutti i magistrati nominati erano contrari a Lobbia. Tra i testimoni, i caffettieri, le domestiche, i fornai, i falegnami, i facchini, gli studenti e tre generali davano ragione a Lobbia; e quasi tutti rivelavano pressioni e minacce da parte della polizia perché cambiassero versione. I testimoni dell'accusa erano un sarto sepolto di debiti e ricattabile, la padrona, le ospiti e le cameriere di una casa di tolleranza, una poveretta che non era in grado di essere interrogata perché distrutta dalla sifilide, e poliziotti e mogli di ispettori di polizia e guardie daziarie e funzionari di questo o quel ministero, tutti sottoposti alle prepotenze dei superiori.
Immersa in un'atmosfera di veleni, di sospetti e d'insinuazioni, la corte lesse il suo verdetto il 15 novembre 1869, due giorni prima della riapertura della Camera. Tranne uno, tutti gli imputati erano colpevoli. Un anno di penitenziario militare spettava a Cristiano Lobbia, accusato di essersi inventato tutto «perché venne a trovarsi nell'assoluta necessità di scuotere fortemente con qualche fatto la pubblica opinione». I suoi amici furono condannati a sei e tre mesi. Molte città d'Italia, a partire da Torino, furono invase da manifestanti, che sventolavano la bandiera italiana gridando: «Viva Lobbia! Viva Lobbia!». In occasione del parto di Margherita di Savoia, che diede alla luce il futuro Vittorio Emanuele III, il re decise di concedere un'amnistia. Ma Lobbia e i suoi amici la rifiutarono: volevano un nuovo processo per dimostrare la propria innocenza.
Solo il 14 gennaio 1875, a Lucca, il nuovo processo stabilì che non esisteva alcuna prova per dimostrare che l'attentato era stato costruito da Lobbia. L'imputato venne assolto. Ma la sua innocenza venne quasi cancellata sui giornali, che avevano riportato con molto rilievo le accuse. La «Gazzetta Piemontese» diede la notizia in sette righe, senza neanche un titolo. Il «Giornale della Provincia di Vicenza» dedicò all'assoluzione un piccolissimo spazio nella penultima pagina, ultima colonna, senza titolo, tra la tabella dell'orario ferroviario e quella dell'accensione dei lampioni pubblici. Intorno all'affare della Regìa dei Tabacchi si moltiplicarono le morti misteriose: suicidi, annegati, accoltellati, avvelenati.
Cristiano Lobbia non si riprese più dalla malinconia, dalla delusione e dall'avvilimento: si sentiva segnato e marchiato per sempre dalla condanna, che nulla poteva cancellare. Morì il 2 aprile 1876, a cinquanta anni, in una bellissima giornata di primavera. Fu sepolto ad Asiago, e subito dimenticato. Il suo gesso funebre fu gettato in un angolo. Nei primi anni del Novecento, alcuni compaesani decisero di cancellare questo oblio. Costruirono in pieno inverno, dopo che la neve era fioccata in abbondanza, un monumento a Cristiano Lobbia fatto di neve. Questo monumento fragile ed ironico restò lì, sfarinandosi sotto la tramontana, per qualche mese. Poi venne la primavera, portandosi via l'ultimo ricordo di quell'uomo buono e delicato, che i delitti della politica avevano distrutto.
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domenica 30 settembre 2012

La storia di Chiaffredo Bergia, il guerriero invincibile

La persona di cui daremo notizia concisa fu italiana al 100% e nacque il 1° gennaio 1840 a Paesana (Saluzzo) da poverissimi contadini: Battista Bergia e Bonetto Caterina, leali sudditi del Regno di Sardegna. Chiaffredo Bergia venne su sin da piccolo con una rigorosa dieta a polenta, sudando e gelando secondo la stagione, strappando erbacce o pascolando capre.
Quando costatò che, in Patria, non c’era di meglio per un giovane intelligente e intraprendente come lui, quindicenne (Primavera 1855), emigrò in Francia, a piedi, portando con sé il fratellino minore Giuseppe. Analfabeta, senza riferimenti, senza un soldo. Eppure ci arrivò, senza mai mendicare, facendo lavoretti qua e là. Obbligato a fermarsi per una malattia del fratello, riuscì a farlo curare, senza chieder nulla a nessuno. Giunse perfino a fare la guida turistica, su montagne che non aveva mai visto, a un Lord inglese naturalista, certo Witterly. Eccolo finalmente in Francia, dove, per cinque anni, fece di tutto, dal bracciante e pastore a Embrun al muratore a Marsiglia, dal cameriere e poi l’operaio a Tolone, e poi ad Aix, e poi a Nizza. Perse parecchi posti, sempre per il suo carattere orgoglioso, mai per pigrizia o inettitudine, e altrettanti ne trovò. E proprio a Tolone, casualmente, si rivelò la sua vera vocazione.
Chiaffredo Bergia travestito da Brigante
Diciassettenne (si rimarchi l’età!), tornava con un amico da una gita fuori porta, quando vide due delinquenti che fuggivano. Costoro avevano tentato di violentare una donna e ammazzato il marito che accorreva a difenderla, ma il ragazzo, che ne sapeva? Non era mica presente, lui! Eppure, lo sapeva, come se lo avessero scritto sulla schiena! Il puzzo del delitto, lui lo sentiva come un cane da cerca. E scattò all’inseguimento. Veloce com’era, acciuffò subito il primo, più goffo, e l’affidò alle “cure” del suo amico. Poi, subito, a razzo, dietro l’altro, lui a mani nude e quello armato di pistola. Sentendoselo alle spalle, l’apache si volta e gli spara, uno, due colpi. Niente: Bergia non si colpisce. La sua prontezza di riflessi è sbalorditiva. Non può sparare il terzo perché arrivano prima sul suo ceffo due cazzotti secchi e duri come sassate, che lo stendono lungo. Chiaffredo lo disarma, e resta in piedi accanto a lui ad aspettare tranquillo i gendarmi, che finalmente arrivano.
Voli di fantasia romanzesca? Neanche un briciolo. Ne fa teste il premio di duecento sonanti franchi che il Commissario-capo di Tolone, stupito e ammirato, volle gli fosse versato.
Giunto all’età di leva, Chiaffredo tornò in Piemonte e il 12 .12. 1860 chiese di essere arruolato nei Reali Carabinieri, Legione allievi di Torino. Dal corso usciva come carabiniere a piedi il 1° novembe 1861.
Divenuto professionista dell’anti-crimine, le imprese dell’ex emigrante, quasi tutte in Abruzzo, contribuirono tutte a creargli intorno la fama, mai smentita, di geniale e imprevedibile servo della legge. Si era intorno al 1870, anno cruciale per la storia d’Europa. Il tempo della Comune, di Sedan, di Porta Pia. Eppure, non solo la stampa italiana, ma addirittura Le Figaro, il Times, Il Morning Post trovarono spazio per Bergia sulle loro colonne. E l’incredibile versatilità e astuzia del super-carabiniere Bergia, la sua abilità nell’assumere gli aspetti più disparati (persino di monaca!) la sua audacia rasentante la follia, ma rivelatasi ogni volta la tattica più sicura ed efficiente, il suo sistematico accettare tutte le sfide personali che i maggiori criminali, a tutela del loro prestigio, usavano lanciargli, si sarebbero prestate come nessun’altra a farne una leggenda. Eppure, dopo il maledetto 1892, in cui una banale influenza con complicazioni pleuro-polmonari lo condusse a morte, solo cinquantaduenne, Chiaffredo Bergia - tranne che per l’Arma, fu cancellato dalla memoria e dalle fantasie. Perché?
Delle imprese quasi miracolose da lui compiute (vere e documentate: non inventate o “gonfiate”), è impossibile in questa sede dare un resoconto, anche sommario e limitato alle maggiori. Una cosa va chiarita: che esse, svoltesi quasi del tutto nell’ex-Stato Pontificio (legione di Chieti), e solo dopo il ‘70 nella Legione di Bari), non devono affatto inserirsi nella guerra civile combattuta dalle forze savoiarde contro i fedeli di Franceschiello. Gli avversari di Bergia furono solo autentici criminali o briganti, anche se terribili combattenti, e supportati da vaste complicità in loco.
Rievochiamone fulmineamente qualcuna, per dare un’idea. Ma esse furono talmente continue e innumerevoli da procurargli una medaglia d’0ro al V.M., un’Ordine Militare di Savoia, due Medaglie d’argento, due di bronzo e decine di menzioni onorevoli, senza dire che tutte le sue promozioni, da carabiniere semplice a capitano, furono “per meriti speciali”.
Ancora da carabiniere semplice, ma già citato più volte nella circolare della Legione di Chieti, ebbe la prima medaglia d’argento, a 23 anni, per l’impresa contro la banda Tamburini. Ardito ed astuto, paralizzando i contadini col terrore, a capo di una dozzina di banditi ben armati ed equipaggiati, il Tamburini perpetrava da oltre un anno rapine, omicidi e sequestri di persona. Aveva anche rapito, tra gli altri, due guardie campestri (Ianni e Di Clemente). Il 22.4.1863 Bergia era uscito in perlustrazione con i due colleghi della sezione di Scanno, mentre il brigadiere era rimasto in caserma, e stava concedendo un po’ di riposo alle gambe in una piccola macchia d’alberi, a mezza costa. Ed ecco comparire in alto la banda Tamburini al completo. Facile sarebbe stato ai tre militari restarsene accucciati e passare inosservati, data l’eccessiva disparità di forze. “Non ci siamo arruolati per nasconderci”, disse invece Bergia, e gli altri, Grin e Pompili, furono d’accordo e aprirono il fuoco. La banda subito si aprì e rispose all’attacco. Erano tanti e sparavano bene. Grin prese subito una palla all’apice d’un polmone.
- Portalo a casa, Pompili-
- E quelli?
- Ci penso io.
E ci pensò lui, da solo, sgusciando come un furetto e sparando preciso, per impedire ai briganti di avvicinarsi al collega improvvisatosi portaferiti (ma senza barella) e, riuscito questo a compiere il salvataggio, tornò indietro a coprirgli le spalle. Inferociti per la fuga della preda, che pareva loro sicura, Tamburini e i suoi concentrarono gli sforzi sull’uomo solo, che avevano capito chi fosse. Ma quell’uomo li tenne tutti in sacco, e, a sera, esausto ma senza un graffio, raggiunse anch’egli la sezione.
E veniamo a quello che fu forse il suo capolavoro. 1871. Ormai brigadiere, Chiaffredo Bergia, comandava l’inutile stazione di S.Buono. Inutile - precisiamo - perché ormai ogni stazione affidata a Bergia diventava “ipso facto” inutile, in quanto l’intero malandrinaggio si affrettava a cercarsi acque più salubri altrove. Allora, gli affidavano missioni speciali, come quelle, sempre nel 1871, di liberare l’Abruzzo dalla feroce e efficientissima banda di Croce di Tola. Non possiamo, per brevità, entrare negli stupefacenti dettagli dell’impresa, compiuta anch’essa con l’aiuto di tre soli militi: Verdelli, Galimberti e Fragalà. Dobbiamo limitarci alla trascrizione della stringata motivazione con cui gli fu concesso l’O.M. di Savoia.” per l’ardimento e il coraggio di cui diede prova, nell’occasione in cui, assediato con tre dipendenti da una banda di briganti, in una casa in cui si erano momentaneamente fermati, dopo un vivo combattimento, sostenuto passando dalla difensiva all’offensiva, riuscì a catturare il capo di quella masnada e a disperdere gli altri, due dei quali, pochi giorni dopo, si consegnavano alla giustizia”. E, sempre nel 1871, arrivava la seconda “missione speciale”.
Le due bande collegate di Michelangelo e Giuseppe Pomponio e di Pasquale D’Alena s’erano scordate da un pezzo la fedeltà borbonica che ne aveva motivato la fondazione dieci anni addietro, con basi nell’ospitale Stato Pontificio, e si erano bellamente specializzate nel lucroso mestiere di ladroni e di estortori. Per dire, Pomponio junior aveva già totalizzato venti omicidi accertati, e Pasquale d’Alena, detto il Romano era noto per i raccapriccianti atti di crudeltà che facevano passare a chiunque l’uzzolo di ostacolargli l’onorata carriera.
Ed ecco che, d’improvviso, Bergia scomparve dall’Abruzzo. La voce che fu fatta circolare fu che egli fosse stato trasferito a Torino, e, naturalmente, i primi a raccoglierla, con un respiro di sollievo, furono i menzionati criminali, che aumentarono la loro improntitudine, ma abbassarono anche alquanto la guardia. Coincidenza: erano stati “trasferiti” anche quattro militi fra i più bravi: Carrà, Corti, Pavan e Livio, nominativamente richiesti. La verità era che i cinque non si erano affatto allontanati, ma invece avvicinati. In un ignorato casolare nascosto dalla macchia più fitta, mentre i cannoni di Lamarmora foravano, a Roma, le mura serviane, il brigadiere Bergia sfoggiava poco più a est le sue abilità di truccatore, e si faceva, coi suoi fedeli, crescere la barba. Nessuno, ormai, avrebbe potuto sospettare come poliziotti quegli irsuti e maleolenti gaglioffi calzati di cioce sbrindellate, coperti da cappellacci a cono, indossanti giubbotti di pecora non conciata rammendati con lo spago.
Pastori, al massimo, o forse contrabbandieri, erranti tra Orsogna e Guardiagrele. Di persona o loro tramite, il capo aveva provveduto a “rinfrescare” tutta la propria rete di informatori, e da uno di essi aveva saputo che l’indomani, al bosco di Dogliola sarebbe transitata la banda d’Alena. E lui andò ad attenderla. Eccoli, finalmente. Sembrano due in avanguardia. Ma Bergia non conosceva il segnale di riconoscimento e quelli mangiarono la foglia, presero a sparare e si diedero alla fuga. Non si sapeva quanti li seguissero, e il buio era assoluto, tuttavia i militari non esitarono a inseguirli, seguendo il rumore del frascame. Ma nessuno, con tanti chilometri nelle gambe, poteva eguagliare la loro velocità. Nessuno che non fosse Bergia, beninteso, e così rimase solo e raggiunse il più grande dei due, calandogli come una mazza tra le spalle la sua bella Lefencheux, donatagli dal prefetto. La carabina si spezzò in due. Ma che cos’era, quello: un rinoceronte? Cadde in avanti e il brigadiere gli volò addosso. Ma era inerme, ora, mentre l’altro, forte come un orso, aveva il coltello, e sapeva ben usarlo. Impedirgli, insieme, di fuggire e di colpirlo pareva impossibile. Ma Bergia lo fece, finché arrivò di corsa Livio e uccise il bandito con una rivolverata. Era Pasquale D’Alena. E il prestigio della terribile banda cominciò a declinare. Chi erano, i più forti e i più “affidabili”? Così, un giorno d’autunno, un certo Argentieri andò a cercare Bergia e gli dichiarò di essere stato sino ad allora un sostenitore dei Pomponio, ma di essersi pentito e di voler saltare il fosso, purché gli si garantisse la sicurezza e l’impunità. Fece di più: informò che presso di lui era ricoverato Giuseppe Pomponio, ferito da un sequestrato nell’infelice tentativo di liberarsi, e assistito dall’ex-amante del D’Alena. Bergia si consultò subito col suo comandante di Legione cap. Sequi e con lui fu pienamente d’accordo: guardarsi dall’arrestare o mettere sull’avviso il ferito, che poteva essere l’esca per catturare il resto della banda. Col Sequi, fu predisposto un imponente schieramento di quasi cento tra Carabinieri e altri reparti, per esser certi che nessuno dei banditi, e soprattutto i capi, Michelangelo Pomponio e certo Di Nardo, potessero sfuggire, se solo si fossero accostati a casa Argentieri. Ma fu una delusione.
Entrati forse in sospetto, i ricercati non si fecero vivi. Dopo due settimane di vana attesa, il comando decise di rinviare il tentativo ad altra occasione, e ritirò l’intero apparato. Solo a Bergia fu ordinato di restare e di tener d’occhio la casa, avvertendo se ci fosse qualsiasi novità, ma senza intraprendere, in così pochi, alcuna azione. Ma ecco la situazione precipitare. Arriva, trafelato, l’Argentieri:
- Stasera, li vengono a prendere!
Mancava il tempo materiale per far arrivare rinforzi. E allora Bergia e i suoi fecero, in tre (con l’aiuto di due coraggiosi contadini) quello che avrebbero dovuto fare i cento. Il risultato fu che il Di Nardo, esausto, si suicidò con una revolverata, e Bergia inseguì e raggiunse il Pomponio, sfuggì -come al solito - a ben quattro sue revolverate ravvicinate, l’agguantò e lo tenne stretto con le mani, finché soccombette a una rivolverata del sopraggiunto Pavan. Quanto al ferito di casa Argentieri, si fece barellare buono buono.
Le bande riunite Pomponio - D’Alena non esistevano più.
Grande fu la festa in paese, e tutti i notabili, tirati a lucido, convennero in piazza, per esprimere all’eroe la sempiterna riconoscenza... eccetera eccetera. Ma ci restarono male, perché né Bergia né i suoi si fecero vedere. Appena terminato il conflitto, con le armi ancora calde, avevano bevuto un sorso d’acqua ed erano tornati nella macchia. Lì, aggiungendo senza risparmio chilometri ai tanti già macinati, con le informazioni raccolte nei giorni precedenti, provvidero a distruggere del tutto la perfetta rete di informatori e manutengoli che aveva fatto la terribile efficienza dei criminali. Quarantotto, ne riportarono ammanettati in mesto corteo. Ora, sì, ricostruire la banda da parte di qualche ambizioso di nuova generazione era veramente impossibile!
Ma il Nostro non fu solo un guerriero invincibile. La sua vita è piena di notazioni tenere e commoventi.
Come la cura con cui, privandosi del fumo, del gioco, degli alcoolici, riuscì a permettere ai fratelli minori di frequentare quelle scuole che a lui erano state precluse dalla miseria; come gli eroici sforzi con cui lui, uomo d’azione, riuscì a curvarsi sui libri prestatigli dal parroco, per affrontare la prova di cultura generale prevista per l’esame di vicebrigadiere; come, soprattutto, il tenerissimo amore, e poi felice matrimonio con Claudina, figlia del suo ex-superiore e poi grande amico ed estimatore, il magg. Borghese, che, nonostante la forte differenza d’età, fu anche la sua maggiore amica, gli diede quattro figli, si appassionò del suo lavoro e vi collaborò attivamente come segretaria e consigliera.
Come si vede, ve n’era in abbondanza per ispirare alla sua figura uno o anche più personaggi per l’infanzia, senza ricorrere agli stucchevoli Kit, o Ken, o Braddok, alcoolisti e vanesi, turpiloquenti e moralisti d’accatto, che infestano le nostre edicole.
Nel 1861, D’Azeglio aveva detto: ora che è fatta l’Italia, occorre fare gli Italiani. Ora, dobbiamo rifare sia l’una che gli altri.
Cominciando dai piccoli!
Rutilio Sermonti su "Rinascita"
(26 Settembre 2012)

giovedì 12 aprile 2012

Il riformismo borbone

Scritto da Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro  

Giovedì 12 Aprile 2012 16:56
Ferdinando IV e famiglia
Durante il regno di Carlo III ( 1734-1759) e di suo figlio Ferdinando IV (1759-1806), anche la monarchia borbonica, emulando quelle europee ed italiane, intraprese a conformarsi alle nuove trasformazioni, inserendosi nella evoluta cerchia dei monarcati assoluti illuminati.
Padre e figlio, avvalendosi delle straordinarie capacità del Primo Ministro Bernardo Tanucci e Ministro delle Finanze Giuseppe Zurlo, quest'ultimo operò in seguito anche con i napoleonidi, cominciarono le opere di modernizzazione sociali ed economiche nel regno di Napoli.
Carlo III, figlio del re di Spagna Filippo V e dell'italiana Elisabetta Farnese, nel 1734, durante la guerra di successione polacca, essendo la Francia e la Spagna in conflitto con l'Austria, spinto dalla madre, da Parma mosse, ancora diciottenne, alla testa di un numeroso esercito, numerato maggiormente da truppe spagnole, alla conquista dell'Italia Meridionale, costituente, in quel periodo, un vicereame sottoposto al dominio degli Asburgo.
Con l'entrata in Napoli di questo giovane ed intraprendente principe, nipote del Re Sole, iniziò una nuova fase storica, politica e sociale per l'Italia meridionale ed insulare ( la Sicilia ), infatti nasceva la dinastia dei Borbone di Napoli, sotto i quali, dopo secoli di dominazioni straniere, veniva a consolidarsi un regno unitario ed autonomo, anche se agli inizi ci fu la ingerenza spagnola, con un personale coinvolgimento di governo del monarca.
Formatosi, Carlo, alla colta corte di Francia e in quella cattolicissima spagnola, ben presto venne apprezzato dalle altre monarchie europee per saggezza e cultura riformista. Conscio delle condizioni di arretratezza del suo nuovo regno, rispetto agli altri Stati del veccchio continente, circondandosi di valenti illuministi napoletani, quali il Filangieri, il Genovesi ed altri e avvalendosi , come prima notato, del superbo stile di destreggiamento nei rapporti sociali e politici nonchè dell'acuta visione riformatrice del suo Primo Ministro Bernardo Tanucci, si elevò a capo dei principi, dando lustro e rinomanza al suo nuovo regno. Soleva egli sostenere, da quanto scritto dal fiornalista Aldo Canale, che il suo "opus rei" si basava sulla felicità del popolo: "Le ricchezze dei re sono fatte dai poveri, diamo lavoro e diamo da vivere".
Ma tutto ciò veniva da lui espresso, forse, da come annotato dallo storico Armando Oriolo, solo per giustificare le pazze spese affrontate per la costruzione delle reggie di Capodimonte, Portici e Caserta.
In realtà, molte opere pubbliche vennero portate a termine, come acquedotti, strade, riomdernamenti di porti e nuove architetture. Tra i più significativi provvedimenti risultò essere quella della introduzione della lingua italiana come "uffficiale" del regno, in sostituzione di quella latina e spagnola, dando così un'impronta di stabile nazionalismo al nuovo monarcato. Ma per l'attuazione delle riforme era necessario attingere dal patrimonio finanziario pubblico, che per la precedente politica smodata dei vicerè, si rivelò inesistente. 
La disponibilità del giovane re e il genio del suo primo minstro, tutto fecero per risistemare la caotica situazione ereditata dal passato, ma a frenare i loro disegni, si interposero due secolari endoparassiti: la Chiesa e il potere baronale laico.
La Chiesa, da parte sua, vantava privilegi feudali sul regno di Napoli fin dal periodo normanno e Carlo d'Angiò nel 1625, accentuando lo stato di vassallagio istituì la "Chinea o Acchinea", un tributo di 7000 ducati da versare alla Chiesa di Roma come segno di omaggio e sottomissione.
La Chiesa veniva così ad essere indenne da ogni tributo, con ampi poteri su tutto ciò gravitasse nella sua sfera.
Il potere feudale laico, male endemico nelle aree meridionali, costituiva la barricata centrale, sia per lo sviluppo della società sia per la sovrantà personale del monarca, infatti, in Sicilia, il re era coadiuvato, in maniera rilevante, da un parlamento formato dai feudatari dell'isola.
Nonostante tutti questi fattori concorsero al rallentamento del processo delle riforme, la ferrea volontà e la lucida visione nella propugnazione della Ragion di Stato del Tanucci, portarono, anche se parzialmente, accorti rimedi alla manovra innovativa.
Indispensabile ed urgente si prospettò l'esigenza di un riordino fiscale basato su solide perequazioni esattoriali ed in cosiderazione di questa, venne istituito il catasto onciario o carolino ( dal  nome del monarca, Carlo III ).
La sua istituzione, tutt'oggi, viene cosiderata come un'opera di ingegneria finanziaria, infatti la maggior parte dei moderni catasti sono improntati, in linea di massima, su quello carolino.
Esso venne denominato "onciario", in quanto, i patrimoni fondiari venivano valutati in once, unità di misura utilizzata in quasi tutta Europa, prima dell'adozione del sistema metrico decimale;  l'oncia, inoltre,  nel periodo della Roma repubblicana, era una moneta di bronzo equivalente la dodicesima parte dell'asse e, probabilmente, anche per questo motivo, Carlo III la fece coniare nel 1749. Il 17 marzo del 1741, con la Prammatica Reale " De Catastis", affidata,per l'approvazione nel regno, alla Regia Camera della Sommaria, inizio per il mezzogiorno d'italia una nuova era.
Non vi erano più gli agenti feudali, laici ed ecclesiastici,  ad esigere i tributi, ma agenti fiscali incaricati dal re; ad acquisire e produrre gli atti preliminari, questa fu eccellente cosa, furono incaricat i Sindaci delle Università ( attuali comuni) e i capo eletti del posto. Il catasto era prettamente descrittivo, non essendoci stato tempo disponibile per consolidarne le forme, era privo di mappature dei luoghi, ma come trampolino di lancio per la perequazione fiscale, si rivelò abbastanza efficace. 
Ferdinando IV
Tutto questo, sicuramente, non è stato gradito dai feudatari laici e dagli ecclesiastici, in quanto molti privilegi, da loro acquisiti in passato decaddero e fu proprio in questo periodo che i loro ribaldi soprusi fuoriscirono dagli argini del vivere civile.
Lo stato fu laicizzato, le tasse da pagare alla Curia Romana furono diminuite e le secolari prerogative feudali della nobiltà e del clero decisamente ridimensionate. Con il concordato del 1741 raggiunto con la Santa Sede, la giuridizione dei vescovi venne limitata e quest'ultimi, non più come in passato, venivano sì, nel regno, ordinati dalla Curia Romana, ma la loro nomina ufficiale era divenuta prerogativa del re che avvaleva di una commissione speciale da lui presieduta: il Sacro Regio Consiglio).
Quando, nel 1759, Carlo III venne incoronato sovrano di Spagna, salì al suo posto al trono del regno di Napoli il suo terzogenito Ferdinando.
Avendo egli appena nove anni, suo amministratore fu nominato il Tanucci e anche quando il piccolo re raggiunse la maggiore età, lascio il governo nelle mani dell'abile statista senese, che aveva l'onere, però,  di rendere conto del suo operato alla corona spagnola. Bernardo Tanucci era un tenace sostenitore della "Ragion di Stato", riformista determinato, ingegno politico; uno statista di razza che intuì che solo attraverso le innovazioni nella politica sociale, era possibile  porre il regno napoletano su un podio dove  gareggiare, in seguito, con le maggiori potenze del vecchio continente.
Fu proprio durante il periodo della reggenza tanucciana che il riformismo borbone raggiunse maggiore attuazione, infatti in quel periodo, 1767, su sollecitazione del sovrano di Spagna fece espellere i gesuiti dal regno.
I vuoti lasciati dai Gesuiti, in tutto il regno, furono prontamente occupati da uomini di cultura, laici e religiosi, che si ispiravano, anche se in maniera moderata, a Voltaire,Diderot e D'Alembert.
Con l'espulsione dei Gesuiti e la conseguente confisca del loro considerevole patrimonio ( 42.000 ettari di terreno agricolo in Sicilia e 18.500 nel continente, innumerevoli chiese e scuole, biblioteche ecc..) il Tanucci, su consiglio di Antonio Genovesi, professore di economia all'Università di Napoli, con saggia decisione, preferì non incamerare al regio demanio i fondi agricoli confiscati, ma di parcellizzarli e concederli in uso alle classi meno abbienti, ponendo così le basi per la creazione di una classe operaia contadina fino allora emarginata ed oscurata dal prepotente regime feudale.
Altra grande riforma, per luogo-tempo, attuata per effetto della espulsione gesuitica, fu la istituzione della scuola pubblica, sostituente quella privata, quest'ultima retta prevalentemente dalla casta religiosa. L'innovazione non ebbe molta fortuna, in quanto i costi di mantenimento si erano rivelati consistenti e quindi il più delle volte, l'accesso all'istruzione, per i figli delle popolazioni meno agiate, veniva precluso. 
Con l'entrata in scena di Maria Carolina, tratta in moglie da Ferdinando IV, la politica del regno di Napoli mutò direzione politica.
La nuova regina, all'inizio della sua attività di governo, si interessò analiticamente delle riforme in atto, avendo premure, particolarmente di realizzare opere pubbliche e militari; tutto ciò che mirassee alla elevazione del popolo, veniva da lei considerato inutile e dispendioso.
Cercando di allontanarsi dalla sfera politica spagnola, ben presto si trovò in attrito con il Tanucci, il quale nel 1776, per volere di lei, fu sollevato dall'incarico di Primo Ministro e sostituito dal siciliano Giuseppe Beccadelli, marchese della Sambuca, uomo, più cortigiano che politico e con vedute meno ampie del validissimo toscano.
Con l'ingerenza della politca asburgica nel regno di Napoli vennero a cessare quegli intenti atti alle riforme. Il processo di riformismo intrapreso dal Tanucci non si interruppe del tutto, dopo la sua estromissione, anche negli ultimi anni del secolo decimo nono, non mancò la volontà di " cambiare in meglio": esemplare fu la battaglia che Domenico Caracciolo, vicerè di Sicilia, mosse contro lo strapotere baronale e gli abusi signorili.
L'età dello splendore finì con la politica filo asburgica.
Ultimo aggiornamento Lunedì 16 Aprile 2012 07:39