martedì 20 settembre 2011

La breccia di porta Pia: la presa di Roma e la capitolazione dello Stato pontificio

 

La seguente scheda sulla presa di Roma è stata redatta da Antonio Di Pierro, autore del libro “L’ultimo giorno del papa re. 20 settembre 1870. La breccia di porta Pia” (Mondadori, euro 18,50). Il volume è una cronaca minuziosa e in presa diretta – ora per ora, un capitolo per ogni ora – di quella storica giornata. Antonio Di Pierro ha raccontato, con il medesimo approccio della cronaca diretta e del racconto ora per ora, un’altra giornata drammatica della nostra storia patria: “Il sacco di Roma. 6 maggio 1527: l’assalto dei lanzichenecchi” (ora negli Oscar Mondadori, euro 9,80). Di Pierro ha redatto per noi anche una cronologia del fascismo (vedi il ventennio fascista) e la cronaca ora per ora della marcia fascista su Roma (vedi 28 ottobre 1922). Su questo giorno ha in preparazione un libro che uscirà nel 2012, sempre da Mondadori.

Roma, capitale dello Stato pontificio, è circondata da cinquantamila soldati del Regno d’Italia organizzati in cinque divisioni militari al comando supremo del generale Raffaele Cadorna. Quattro sono distribuite sulla riva sinistra del Tevere, davanti alle mura Aureliane (porta del Popolo, porta Pia, porta San Lorenzo, porta San Giovanni); la quinta, sulla riva destra, presidia le possenti mura Vaticane. Quest’ultima è guidata dal “garibaldino” Nino Bixio: al più anticlericale dei generali italiani è affidato il compito di attaccare la cittadella del papa re.

Ecco la giornata, ora per ora:

Scatta l’allarme dell’esercito pontificio

Ore 0-1. Proprio sulla riva destra, all’altezza del Gianicolo, scatta il primo allarme dell’esercito pontificio (undicimila militari al comando del generale Hermann Kanzler). Gli uomini di Bixio sono appena giunti a tre miglia da porta San Pancrazio, lungo la via Aurelia antica detta anche strada Tiradiavoli, e i loro movimenti fanno ritenere ai soldati di Pio IX che l’attacco sia imminente. Invece, per il momento, non accade nulla. [Antonio Di Pierro]

Cambio della guardia a villa Patrizi

Ore 1-2. Cambio della guardia tra i soldati pontifici all’avamposto di villa Patrizi, appena fuori dalle mura Aureliane di fronte a porta Pia, di grande importanza strategica. E magnifica residenza, gioiello d’architettura del Settecento che può vantare ospiti illustri. Vi soggiornò nel 1744 Carlo III di Borbone, poi re di Spagna. Goethe si spingeva fin qui nelle sue passeggiate “fuori porta”. «Ci andavo», scrive lo scrittore tedesco nel suo diario martedì 24 luglio 1787, «per vedere il tramonto del sole» e godere «dell’immagine della grande città». Stendhal era stato ospite di villa Patrizi nell’aprile del 1828. Pio IX, all’inizio del suo pontificato, ci andava spesso a giocare a biliardo perché – sostiene – ce n’è uno di qualità eccellente. [Antonio Di Pierro]  

Tra le fila italiane ci si prepara allo scontro

Ore 2-3. Squilli di tromba annunciano che negli accampamenti italiani ci si prepara alla battaglia. Gli ufficiali sono chiamati al gran rapporto nelle tende dei comandanti per ricevere le ultime disposizioni prima dell’attacco. Gli ordini sono, per quanto riguarda i reparti schierati sulla riva sinistra del Tevere (a Bixio, dall’altra parte del fiume, non è possibile trasmettere messaggi), di distribuire le truppe lungo tutto il fronte delle mura Aureliane. In particolare: l’XI divisione del generale Enrico Cosenz da piazza del Popolo a porta Salara; la XII divisione del generale Gustave Mazé de la Roche da porta Salara al Castro Pretorio; la XIII divisione del generale Emilio Ferrero dal Castro Pretorio a porta Maggiore; la IX divisione del generale Diego Angioletti da porta Maggiore a porta San Sebastiano. Tutti, al momento stabilito, dovranno iniziare un fitto cannoneggiamento che però sarà solo di disturbo. Il vero attacco, così è stato deciso, sarà sferrato tra le porte Pia e Salara, dove si ritiene che le mura siano meno robuste. [Antonio Di Pierro]

Tutto l’esercito pontificio è schierato

Ore 3-4. «Indistinti rumori, ma continui, palesano che nemico sul fronte procede a operazioni». È l’allarme trasmesso alle 3.30 dalla vedetta di porta Salara al comando pontificio. I soldati di Pio IX sono tutti alle loro postazioni. L’organico effettivo (tolti gli assenti per malattia o per altri motivi) dell’esercito del papa, aggiornato a ieri sera, è di 10.917 uomini di cui 406 ufficiali e 10.511 truppa. I corpi più consistenti sono, nell’ordine: Zuavi, Reggimento di linea, Carabinieri esteri, Legione di Antibo. L’artiglieria dispone di 150 bocche da fuoco. [Antonio Di Pierro]

L’esarcito italiano è schierato per l’attacco

Ore 4-5. I dispacci che arrivano al generale Kanzler da ogni punto d’osservazione lungo la cinta fortificata sono tutti del medesimo tenore: l’esercito del re Vittorio Emanuele II è schierato per l’attacco. I soldati hanno preso posizione anche dentro la villa del principe Borghese. Villa privata, ma aperta al pubblico (tutti i giorni eccetto il lunedì, la galleria di quadri è invece aperta solo il sabato purché non sia giorno festivo), «offre una leggiadra promiscuità di piani e d’alture – dice il giornalista Edmondo Bersezio – gruppi d’alberi e slarghi, prati, laghetti, cascate e fonti con fabbriche di diversa maniera». Il parco sta per diventare un campo di battaglia. [Antonio Di Pierro]

I pontifici sparano il primo colpo

Ore 5-6. I primi a sparare sono i pontifici. Intorno alle 5.10 dall’avamposto di villa Patrizi parte una fitta scarica di fucileria. La prima vittima della giornata è un artigliere italiano, il caporale Michele Plazzoli. Un proiettile lo ha colpito in piena fronte mentre stava puntando verso Roma il cannone a lui assegnato. È l’inizio della battaglia, che lascia sul campo altri morti e altri feriti. Pio IX non ha aspettato i tuoni dell’artiglieria per destarsi. Quando alle 5 il cameriere privato del papa è entrato nella sua stanza da letto, ha trovato il Santo Padre già in piedi e vestito di tutto punto e non ha potuto nemmeno radergli la barba. Durante la notte il pontefice si è alzato più volte e si è voltato e rivoltato nel letto di continuo, racconta l’aiutante di camera Giuseppe Zangolini che ha vegliato nell’anticamera. [Antonio Di Pierro]

I pontifici sparano, gli italiani rispondono

Ore 6-7. Lo scontro a fuoco s’estende al versante destro del Tevere. Anche qui a sparare per primi sono i pontifici: un colpo di cannone partito alle 6.30 dal bastione numero 10, poche decine di metri dalla basilica di San Pietro. Gli italiani al comando del generale Bixio rispondono colpo su colpo. Pio IX è nel suo studio privato, le cannonate fanno tremare i vetri e i mobili. Gli uomini dei tre corpi addetti alla difesa personale del pontefice – guardia nobile, guardia palatina, guardia svizzera – sono ai loro posti di combattimento. [Antonio Di Pierro]

È aperto un piccolo varco vicino Porta Pia

Ore 7-8. Mentre infuria la battaglia, Pio IX celebra la messa nella sua cappella privata, davanti al corpo diplomatico. Le sue parole sono spesso coperte dal rombo del cannone. Dall’altra parte del Tevere, dopo oltre 300 colpi d’artiglieria pesante, gli italiani riescono a buttare giù un tratto di mura tra le porte Pia e Salara. Ma il varco non è ancora percorribile. Al ministero delle Armi, in piazza della Pilotta, sono momenti di crescente tensione. Al generale Kanzler viene comunicato, con riferimento a porta Pia, che «la posizione è in pericolo». [Antonio Di Pierro]

Il Papa ironizza su Bixio

Ore 8-9. I pontifici cominciano a ritirarsi da porta Pia per un equivoco nella trasmissione dei dispacci. Compreso l’errore vengono presto riprese le precedenti posizioni. La battaglia continua. In Vaticano, terminata la messa, Pio IX parla ai delegati dei paesi stranieri mostrandosi amareggiato perché i romani (e in particolare le grandi famiglie) non sono scesi in campo per difenderlo. Poi inveisce, con sarcasmo, contro l’ufficiale “garibaldino” che sta martellando con l’artiglieria le mura Vaticane. Dice: «Bixio, il famoso Bixio, è là con l’armata italiana, oggi è generale, quando era repubblicano aveva fatto il progetto di gettare nel Tevere, quando sarebbe entrato in Roma, il papa e i cardinali: in inverno ciò sarebbe poco piacevole, d’estate poco male». [Antonio Di Pierro]

Il Papa ordina la resa

Ore 9-10. Alle 9.05 i vertici militari pontifici decidono per la resa immediata. Ma, tra ripensamenti e incomprensioni, alle 10 si combatte ancora. Di fronte a porta Pia i reparti italiani premono al massimo, tra loro vi sono alcuni volontari. Uno di questi, Nino Costa, così racconta la morte del capitano Augusto Valenziani: «Fra le fucilate dei nemici, pure noi avanzavamo a sbalzi, di corsa. I difensori ci sparavano addosso. Mentre sotto il fuoco avanzavamo, mi sono voltato verso Valenziani (che portava gli occhiali) chiedendogli: “Le tue lenti si sono rotte?” Nello stesso istante una palla nella testa me lo faceva cadere morente, fra le braccia. Io l’ho tratto da parte, l’ho appoggiato a un muro e abbracciandolo gli ho detto: “Ringrazia Iddio che ti fa morire così!” E mi sono gettato all’assalto». Alle 10 è il papa in persona a ordinare di issare la bandiera bianca sulla cupola di San Pietro. [Antonio Di Pierro]

Il varco a Porta Pia ora è percorribile

Ore 10-11. Un tratto di mura Aureliane tra porta Salara e porta Pia è stato completamente abbattuto a colpi di cannone (i pontifici ne hanno contati 318). In questo versante lo scontro è molto cruento, numerose le vittime su entrambi i fronti. Gli italiani premono verso il varco aperto, alle 10.10 un bersagliere è il primo soldato a violare il ciglio della breccia: si chiama Federico Cocito, del 12° battaglione. Comincia, la presa di Roma, dal giardino di villa Bonaparte: il varco aperto sulle mura, infatti, conduce nella lussuosa dimora che era stata di Paolina Bonaparte, la sorella di Napoleone andata in sposa nel 1803 al principe Camillo Borghese. [Antonio Di Pierro]

Cominciano le trattative di pace

Ore 11-12 A villa Albani (sulla via Salaria, poche centinaia di metri da porta Pia), quartier generale dell’esercito italiano, cominciano le trattative di pace con una delegazione dell’esercito pontificio. I romani, che durante la battaglia sono rimasti rintanati nelle case, cessato il cannoneggiamento sembrano non avere più paura. Dice l’inviato del “Fanfulla” di Firenze, Ugo Pesci: «Le finestre si aprono timidamente, qualche testa s’affaccia, qualcuno scende in strada e domanda se gli italiani sono entrati. Una bella vecchia popolana mi ha fermato, voleva sapere notizie del suo figliolo emigrato a Napoli, né facilmente s’è persuasa che non lo conosco neppur di nome». [Antonio Di Pierro]

Il Re riceve notizia dell’ingresso a Roma

Ore 12-13. Per un malfunzionamento del telegrafo solo a mezzogiorno, a Firenze, il re e il premier Giovanni Lanza apprendono che Roma è conquistata. Questo il dispaccio del generale Cadorna: «Ore 10 forzata porta Pia e breccia laterale aperta in quattro ore, colonne entrano con slancio malgrado vigorosa resistenza». A villa Albani, intanto, il capodelegazione dell’esercito pontificio, colonnello Filippo Carpegna, mostra ai rappresentanti del comando italiano due buste contenenti le proposte di resa dello Stato della Chiesa. Ma Cadorna annuncia che avvierà trattative solo con il capo dell’esercito del papa, nonché ministro delle Armi, Hermann Kanzler. [Antonio Di Pierro]

Continua l’occupazione militare di Roma

Ore 13-14. A piazza Colonna fallisce un attentato al generale italiano Enrico Cosenz mentre continua l’occupazione militare di Roma. Edmondo De Amicis, ufficiale del regio esercito italiano, è al seguito delle truppe nella veste di giornalista della rivista “Italia militare”. Ecco una sua testimonianza: «Per chi non ha mai visto Roma, le sue fontane, così gigantesche e fantastiche, sono una delle più profonde sorprese. I soldati si voltano, guardando, e prorompono in un lungo “oh!” che si propaga di compagnia in compagnia, di battaglione in battaglione…». [Antonio Di Pierro]

Il gen. Kanzler tratta la resa

Ore 14-15. Davanti alla stazione Termini è quasi battaglia tra una compagnia pontificia e due battaglioni italiani. Intorno al Campidoglio, dove i reparti di Cadorna non sono ancora arrivati, si registrano scontri a fuoco tra miliziani pontifici e patrioti romani. Alcuni di questi, sorpresi dalla fucileria nemica, hanno fortunosamente trovato riparo dentro una bottega aperta tra la chiesa di Santa Maria di Loreto e quella del Santissimo Nome di Maria. Fortunosamente perché, a quest’ora, è difficilissimo trovare negozi aperti: è l’ora del riposino pomeridiano, che qui si chiama “pennichella”. Dice il diplomatico francese Henry d’Ideville: «A partire dalla metà di giugno circa, fino alla fine del mese di settembre, la città eterna è quasi deserta». Motivo, «l’uso benefico della siesta, il sonno riparatore della giornata da mezzogiorno alle tre. Durante queste ore benedette non vedrete un negozio aperto, dal Corso fino a Trastevere; le chiese, i conventi sono religiosamente chiusi, la vecchia città è trasformata nel castello della Bella Addormentata». Il generale Kanzler è a villa Albani e sta trattando la resa. [Antonio Di Pierro]

Il tricolore sventola al Campidoglio

Ore 15-16. L’ordine pubblico è ancora senza controllo, ma intanto la milizia pontificia si arrende all’arrivo di un battaglione del regio esercito. La bandiera italiana sventola sulla piazza del Campidoglio sulle note della marcia reale. Dice un soldato italiano, Angelo Giosuè Lucotti: «È una scena che strappa il cuore. Ho visto Edmondo De Amicis non riuscire a trattenersi, gettarsi su uno scalino e piangere dirottamente». Il generale Cadorna sottopone a Kanzler le condizioni di pace: il trattato prevede che a Pio IX rimanga il dominio della cosiddetta Città leonina, cioè il Vaticano e il rione Borgo compreso Castel San’Angelo. [Antonio Di Pierro]

Fallisce il tentativo di formare un governo provvisorio

Ore 16-17. Fallisce il tentativo, in un’assemblea nel palazzo Senatorio, di formare una giunta provvisoria di governo. Roma rimane dunque ancora sotto tutela militare. C’è da proteggere una vastissima rete di proprietà privata che rappresenta ingenti ricchezze. I palazzi nobiliari, vere e proprie regge, sono 82, un numero che non ha eguali in nessun’altra città. Tra i più importanti: Colonna in piazza Santi Apostoli; Doria Pamphilj, Odescalchi, Chigi in via del Corso; Borghese alle spalle di via Ripetta; Barberini alle Quattro Fontane; Massimo a Sant’Andrea della Valle; Caetani alle Botteghe Oscure; Orsini a Monte Savello; Corsini alla Lungara; Farnese a Campo de’ Fiori; Torlonia a piazza Venezia. [Antonio Di Pierro]

I pontifici firmano la capitolazione

Ore 17-18. I pontifici firmano la capitolazione. A Pio IX viene lasciato il Vaticano e il rione Borgo. Il bilancio delle operazioni per la presa di Roma è di 48 morti e 132 feriti tra gli italiani, 20 morti e 49 feriti tra i pontifici. Intanto i bersaglieri fanno irruzione al Collegio Romano, la scuola superiore d’eccellenza gestita dai gesuiti, dove prendono prigionieri 400 soldati del papa re (s’erano asserragliati nella loro caserma, che si trova nel complesso dell’istituto scolastico). [Antonio Di Pierro]  

Il Papa re perde il suo regno

Ore 18-19. Il generale Kanzler torna in Vaticano e riferisce a Pio IX le condizioni della resa. La guerra è perduta. Il papa re non ha più il suo regno. Si cerca di capire quale sarà l’atteggiamento dell’aristocrazia romana. Compito difficilissimo. Sotto il cielo di Roma tutto si stempera, le passioni politiche appaiono sfumate, indefinite. Tra la “nobiltà nera” (così vengono definiti i partigiani del pontefice) le famiglie che appaiono decisamente schierate con il Santo Padre sono i Barberini, i Chigi, gli Aldobrandini, i Lancellotti, i Salviati, i Patrizi, i Theodoli, i Ricci-Paracciani, i Sacchetti, i Serlupi. Gli altri, chissà. [Antonio Di Pierro]

Si temono violenze contro il Papa

Ore 19-20. Un informatore rivela alle autorità della Santa Sede che i patrioti italiani stanno organizzando una violenta azione contro il pontefice. Il papa e il cardinale Giacomo Antonelli, segretario di Stato, prendono in esame le eventuali contromosse del Vaticano. Intanto in via del Corso è un tripudio di bandiere tricolori e fiaccolate. Commenta amareggiato lo zuavo pontificio Michele Barsotti: «Nelle botteghe sul Corso sono stati spezzati i ritratti di Pio IX. Nello stesso tempo i “patrioti”, portando fasci di bandiere tricolori, si sono presentati alle case col pugnale alla mano, e hanno ordinato di metterle fuori dalle finestre. Quindi hanno fatto sapere che questa sera “si deve” fare l’illuminazione. E se qualcuno ha cercato di mostrarsi indipendente ha ricevuto insulti, minacce e sassate alle finestre». [Antonio Di Pierro]

L’aristocrazia apre le porte agli italiani

Ore 20-21. Un reparto italiano sta occupando, per bivaccarvi durante la notte, una piazza del centro su cui affaccia il maestoso palazzo del principe Marcantonio Borghese. Il nobile romano invita il comandante del reparto, il generale Francesco Bessone, a passare la notte in una delle stanze della sua ricca dimora. È forse il primo esempio, tra l’aristocrazia capitolina, di presa di distanze dai destini del papa re. [Antonio Di Pierro]  

Chiesta la libertà per i prigionieri politici

Ore 21-22. Manifestazione in Campidoglio per chiedere l’immediata liberazione dei prigionieri politici. I detenuti nelle carceri pontificie, secondo l’ultimo censimento che risale alla primavera scorsa, sono 401. Di questi, i condannati per motivi politici sono 92 (dei quali circa 80 per la fallita insurrezione del 1867). Il patriota Nino Costa convince i manifestanti a rinviare la questione al giorno successivo. Il cardinale Antonelli ha scritto una lettera, concordata con Pio IX, in cui si chiede l’intervento dell’esercito italiano in Vaticano: sarà consegnata al generale Cadorna solo in caso di manifestazioni violente contro il papa. [Antonio Di Pierro]

Anche Bixio entra in città

Ore 22-23. Tre battaglioni del generale Bixio cominciano a invadere Trastevere entrando da porta Portese. Quelle guidate dall’ufficiale “garibaldino” sono le ultime truppe, tra le cinque divisioni italiane che hanno dato battaglia, a entrare in città: ma sono le prime a farlo sulla riva destra del Tevere, nel rione che confina con il Vaticano, la cittadella del papa. Bixio ha dovuto aspettare 12 ore, da quando sulla basilica di San Pietro è stata innalzata la bandiera bianca, per avere dal comando italiano l’autorizzazione a varcare le mura. Segno, questo, della grande prudenza con cui Cadorna (e sopra di lui Vittorio Emanuele II e Giovanni Lanza) intende procedere nelle ultime fasi della presa di Roma.

I militari pontifici si radunano a San Pietro

Ore 23-24. Migliaia di militari pontifici, sfuggiti all’arresto da parte delle truppe italiane, accampati per la notte in piazza San Pietro cominciano a cantare l’Inno a Pio IX di Charles Gounod. Un coro dalle dimensioni mai viste, uno spettacolo emozionante. Poi, uno dopo l’altro, disfatti dalla stanchezza, i soldati s’allungano sul selciato e provano a dormire. È mezzanotte, finisce così una giornata che cambierà la storia.

* * *

Firenze trepida per la presa di Roma

• Alla mattina per le strade di Firenze si radunano capannelli di persone irrequiete. L’esercito italiano è sotto le mura di Roma. Poco dopo mezzogiorno arriva la notizia tanto attesa portata da una folla di strilloni con l’ultimo supplemento della Gazzetta del Popolo. Piazza del Duomo si riempie di folla. Alcuni giovani portano il campanaio in trionfo fino al Campanile di Giotto. Pochi minuti più tardi il suono delle campane dà la notizia a tutta la città. Sull’antenna del campanile è issata la bandiera nazionale. [Pesci 1904]
• «Nelle vie de’ Cerretani, de’ Tornabuoni, de’ Rondinelli, non si può andare né indietro né avanti, tanta è la calca. Alle inferriate delle finestre al piano terreno di palazzo Franchetti (...) stanno attaccati i ragazzi fitti come chicchi d’uva in un grappolo. Una numerosa frotta di dimostranti viene da piazza Duomo, diretta verso piazza Santa Trinità, applaudita dal numeroso pubblico accalcato sul largo marciapiede del caffè di Parigi». [Pesci 1904]
• In piazza Pitti entra la banda che suona la marcia reale. Le bandiere sono disposte a destra e sinistra dell’entrata principale del palazzo. Per dieci minuti il popolo grida e applaude il re. Finalmente gli staffieri mettono un tappeto di velluto cremisi sul davanzale del terrazzino al primo piano. Vittorio Emanuele si affaccia. È vestito di nero con il goletto della camicia rivoltato sopra il panciotto. Ha il cappello in mano e lo agita per salutare la folla. Richiamato dalla folla il re si affaccia più e più volte. Verso le 21 esce dalla reggia per recarsi al teatro Principe Umberto illuminato per l’occasione da migliaia di fiammelle a gas. [Pesci 1904]
• «La gran massa della popolazione fiorentina (il 20 settembre seppe) dimenticare il proprio tornaconto per unirsi con tutta l’Italia nel provare la soddisfazione di vedere appagato il più grande voto nazionale. I fiorentini seppero veramente essere italiani!». [Pesci 1904]

[Firenze capitale - leggi tutta la cronologia]

• Presa di Roma. A) Prima fase delle operazioni (fino alle ore 6.40). I. Sulla fronte principale. Alle ore 5.10 in punto il cannone italiano inizia l’attacco contro i Tre Archi e le Porte Maggiore, San Giovanni, Pia e Salara (notisi che la divisione Bixio trovasi a Villa Pamphili). A questa stessa ora si hanno le prime perdite italiane della giornata nei caporali Piazzoli e Corsi, uccisi; e nel tenente Paoletti e cannonieri Cariola e Cosenza, feriti. Il cannone batte le mura da Porta Salara a Porta Pia (Breccia) su una fronte di una ventina di metri di lunghezza e quattro di altezza. Su questa fronte principale le batterie pontificie, sopraffatte da quelle italiane, sono costrette a cessare il fuoco alle ore 5.10. II. Operazioni sulle fronti secondarie. Fronte del Pincio. Vi si spiegano due battaglioni del 35° fanteria e 21° battaglione bersaglieri con genio e artiglieria. Alle ore 6 si inizia il fuoco che cessa alle ore 6.30 per mancanza di proiettili da parte dei Pontifici. Fronte Barriera Tre Archi. Alle 5.15 inizia il fuoco la 13a divisione con artiglieria e fucileria e causando molta molestia ai Pontifici anche perchè le opere di difesa essendo state costruite troppo addossate alle mura, le schegge e i detriti prodotti dai proiettili cadono sui difensori. Fronte Porta San Giovanni. Il primo proiettile della 9a divisione colpisce alle 5.20 la barricata costruita ieri sera nella strozzatura esistente fra il Palazzo Lateranense e la Scala Santa; i colpi successivi cadono sulla facciata del palazzo e sulla Porta. Entra in azione con fucileria la colonna di destra della divisione e causa 5 feriti ai carabinieri esteri, e la morte (poi avvenuta) del bavarese Wolf. L’artiglieria pontificia controbatte i pezzi italiani e spara una quarantina di colpi. Fronte Porta San Sebastiano. La colonna del col. brig. Migliara —obiettivo Porta Latina — inizia il fuoco alle 6 dai pressi della tomba di Cecilia Metella. I colpi cadono subito sui torrioni della Porta e della cinta, debolmente controbattuti dai pezzi pontifici con una ventina di colpi in 40 minuti. Fronte Porta San Pancrazio. Apre il fuoco l’artiglieria pontificia alle 6.30 contro le avanguardie della divisione Bixio. Il capitano Venini rivolge allora i suoi 4 pezzi contro i giardini Vaticani, ma è tosto fermato dal gen. Bixio che sopravviene a galoppo e ordina di non rispondere al fuoco. Il generale trattiensi fra i pezzi, alcuni minuti, e in quel momento alcune scariche pontificie feriscono 9 uomini del 3° regg. Granatieri (caporale Colombo Giovanni; granatieri: Giacomini, Mattesini, Moro, Parillo, Sangiorgi, Tuber, Leroni) e abbatte due cavalli dello Stato Maggiore e ferisce al fianco sinistro il sottoten. Sgambati Enrico. Verso le 6.40 si inizia il duello delle artiglierie anche sul fronte della 2a divisione (Porla San Pancrazio), ma le fanterie mantengonsi silenziose. B) Seconda fase delle operazioni, o sviluppo (ore 6.40, ore 9.15). I. Comando Pontificio. La nuova fase è resa nota al Comando Pontificio dall’intensificarsi del cannoneggiamento, specialmente verso Porta S. Pancrazio e a Porta S. Sebastiano e S. Giovanni. La porta di S. Giovanni brucia per causa dei materassi incendiati dai proiettili. Il combattimento si intensifica anche a Barriera Tre Archi, dove il ten. col. Casbella chiede più volte di controattaccare, finchè il Kanzler gli telegrafa: «Nessuna sortita assolutamente». Alle 6 ¾ giunge notizia che a Porta Pia gli Italiani hanno smontato un pezzo e che la posizione è in pericolo. L’azione delle artiglierie italiane si fa sempre più dissolvente, con effetto di trituramento tra le Porte Pia e Salara. L’attacco dilaga verso Porta del Popolo, verso Trastevere, a Porta San Pancrazio, Casino Quattro Venti e dal Macao il presidio pontificio si ritira. Frattanto comunicasi al Kanzler che la breccia fra le Porte Pia e Salara è completa, ed egli allora ritirasi dalla Pilotta al palazzo Wedekind. Sono le 8.45; il gen. Kanzler potrebbe, in obbedienza agli ordini di Pio IX, inalzare bandiera bianca, cosi si eviterebbe la fase risolutiva del combattimento, ma non sa far ciò per uno spiegabile sentimento di sdegno e di orgoglio militare. II. Cronistoria delle operazioni sulla fronte principale di difesa. Porta Pia. Alle 6.50 avviene tra Porta Pia e Salaria uno scroscio, le mura rovinano per un tratto di 12 metri, causando non perdite, ma scoramento. Alle 7.20 il fuoco continuato dell’artiglieria italiana riesce ad abbassare il livello della breccia, troppo alto e sospendono il fuoco. Della sospensione approfittano i Pontefici per cercar di riparare la breccia, ma alle 8 il fuoco riprende contro la breccia. Frattanto anche la lunetta di Porta Pia è flagellata dai proiettili italiani, e alle 8.30 le fanterie avanzano su tre colonne e per il ripiegamento delle compagnie di Castro Pretorio dalla sinistra sulla linea arretrata Ospizio dei Poveri-Terme di Diocleziano-Stazione, i difensori del tratto Porta Salaria, Breccia e Porta Pia si trovano abbandonati a sé stessi, e la fronte da Porta Pia a Castro Pretorio rimane quasi sguernita dalle 8.40 alle 9.35, permettendo così alla colonna italiana di sinistra, puntante su Porta Pia, di compiere indisturbata i movimenti di ammassamento. III. Cronistoria delle operazioni sulle fronti secondarie. Fronte del Pincio. Il combattimento ha carattere dimostrativo sino alle 8, poi si sviluppa: vi rimangono feriti i tenenti pontifici Niel, Bronbis, gli italiani maresciallo dei dragoni Bourbon del Monte, dragone Monaldi; morti gli artiglieri italiani Archetti, La Marca, Mancinelli, e feriti gli zuavi pontifici Deportas e Andrea Burel, quest’ultimo morto poi il 27 lasciando nel testamento queste parole: «Je désire que l’on donne au Saint Père tout ce que j’ai à l’hôpital et a Rome». Anche a Porta del Popolo si diffonde l’azione del fuoco. Fronte Barriera Tre Archi. Qui si compie dalle 8.35 alle 9.35 per parte dei Pontifici dapprima un movimento ripiegante che lascia la zona semplicemente protetta da sparsi gruppi di tiratori e da poche artiglierie, e poi un movimento frettoloso di rioccupazione, che si compiono senza gravi ripercussioni perchè gli Italiani non puntano su Castro Pretorio, ma che però influisce sulla difesa della fronte principale. Rimane ferito il soldato De Lauro, del 57° reggimento fanteria (italiano). Fronte Porta S. Giovanni in Laterano. L’artiglieria italiana riesce ad incendiare i materiali (materassi, ecc.) posti a protezione della porta, a scardinarne i battenti, ecc. Rimangono uccisi il cannoniere Agostinelli e feriti il capor. Rocco, sold. Bazzano, capor. Scarrone, Bertani Gaetano, Diana e Rattazzi (tutti italiani), nonchè l’artigliere prussiano Hausen. Il gen. Angioletti (9a divisione) non sa approfittare dell’irresoluzione prodottasi nei difensori, cosi che questi possono riparare i danni della porta, e riprendere lena, assecondati anche dalle titubanze nelle varie unità di fanteria e dalla falsa voce che i Pontifici abbiano minate tutte le Catacombe dalla via Nomentana al Tevere. Fronte Porta San Sebastiano. I battaglioni del col. brig. Migliara, ostacolati dal fuoco delle batterie pontificie, non si muovono dalle loro posizioni, vicino alla tomba di Cecilia Metella. Fronte Porta San Pancrazio. La divisione Bixio è battuta da 23 pezzi pontifici, scarsamente controbattuti, fino alle ore 8; a quest’ora Bixio ordina l’avanzata generale della sua divisione, ritenendo pressochè pronta la breccia a Porta  Pia.  I Pontifici intensificano il fuoco e gli Italiani hanno morti i cannonieri Bianchetti, Renzo e Marra, e feriti il sergente Romagnoli, i soldati Beino, Benivegna, Milani, Tranchese, Crea; cannonieri Maffei, Dignino e serg. De Stefano. L’artiglieria del Bixio sparando troppo lungo, manda alcuni proiettili in città, nel cortile e convento di San Callisto, nel monastero delle Monachelle alla Trinità dei Pellegrini, ec. C) Terza fase delle operazioni o decisione (ore 9.15-10.10). I. Comando Pontificio. Alle ore 8.50 ha  luogo  al palazzo Wedekind un convegno tra il gen. Kanzler e il Comitato di difesa; il Kanzler legge la lettera di Pio IX contenente l’ordine di aprire trattative per la resa ai primi colpi di cannone; il Comitato, dietro suggerimento del gen. Zappi, delibera, per scrupolo ed encomiabile spirito guerresco, di far constatare, prima della resa, se veramente si sono prodotte le condizioni di cui alla lettera del Pontefice. Eseguita questa constatazione, alle 9.85 il Comitato di difesa dirama l’ordine di inalberare la bandiera bianca e di mandare i parlamentari. II. Sulla fronte principale. Solo alle 9.45 (viene ferito nel frattempo il tenente Ramaccini a Villa Albani) giunge al gen. Zappi l’ordine di inalzare bandiera bianca; contemporaneamente una bandiera tricolore inalzasi sulla torretta di Villa Patrizi e l’artiglieria italiana cessa su tutta la fronte ed estinguevi la fucileria. Si fa un silenzio generale, ma il silenzio è tosto rotto dal canto solenne che parte dalla compagnia del capitano Joubert ed estendesi fin contro la breccia: è la canzone favorita dagli Zuavi, inventata nel 1860: «Partez, partez nobles fils de la France — Fils des croisés, c’est Dieux qui vous conduit! — Gloire au réveil d’une sainte vaillance! — La Palestine est à Rome aujourd’hui». Frattanto gli Italiani avanzano risolutamente su tre colonne, e i Pontifici riprendono il fuoco d’ artiglieria e di fucileria. La prima colonna, la centrale, è composta del 12° batt. bersaglieri, da un batt. del 41° fanteria; la colonna di sinistra del 2° batt. del 39° fanteria e degli altri due battaglioni dello stesso reggimento; la terza colonna del 1° e 2° battagl. del 40° fanteria. Nell’avanzata vengono mortalmente feriti il ten. Augusto Valenzani e il serg. Gianni, e feriti il ten. col. Davide Giolitti, il capit. De Ferrari e 15 uomini di truppa. Finalmente, al sopraggiungere del capitano di S.M. pontificio De France agitante un’ampia bandiera bianca, il fuoco cessa, proprio nel punto in cui il 1° plotone della la compagnia del 39° regg. fanteria mette piede nel baluardo difensivo della Porta Pia, e precisamente primo di tutti il sottotenente Arrigo seguito da presso dal caporale Giordano. Sono le 10.5. Le truppe pontificie formano i fasci delle armi; entra per la breccia tutto il 39° fanteria che collocasi lungo la via di Porta Pia (ora XX Settembre) poi il 40° fanteria, il 35° batt. bersaglieri. Nell’agglomeramento e nel rigurgito che producesi gli Italiani hanno delle perdite nel magg. Pagliari, morto; nel sottoten. Viano, ferito; nel caporale Zaccarino, e bersaglieri Bertuccio e Perdillo, morti; nel caporale Florio, bersaglieri Prete, Tassoni e capitani Ripa e Serra feriti. Altri tre feriti si hanno fra coloro che montano su per la breccia. Il primo degli Italiani a raggiungere il ciglio della breccia è il sottotenente Cocito Federico, del 2° regg. bersaglieri; il primo generale italiano ad entrare in Roma è il gen. Cosenz, alla coda del 19° fanteria. A. poco a poco l’ordine della resa si propaga anche alle ali della fronte principale, e il combattimento cessa alle 10.20. III. Fronti secondarie. Fronte Barriera Tre Archi. L’ordine della resa vi arriva alle 9.45 e si innalza bandiera bianca, poi si riprende il fuoco ma cessa del tutto alle 10.10. Significative le comunicazioni che tra le 9.40 e 9.50 mandano alcuni comandanti di settore: il ten. col. Casbella chiede telegraficamente ai comandanti dipendenti: «Il momento decisivo sta per arrivare. Si saprà morire sul posto? Io ne darò l’esempio». E ne riceve le seguenti risposte: «Sapremo morire», «Viva Pio IX», «Sissignore, sul posto». Le operazioni di resa cessano su questo settore alle 11; in quel momento il ten. col. Casbella alza di propria mano sulle mura della Barriera dei Tre Archi un drappo italiano, mentre l’ultima granata italiana scoppia a lui vicino e lo ferisce leggermente ad una guancia. Fronte Barriera San Giovanni. Qui il combattimento si illanguidisce istintivamente. Fronte Porta San Sebastiano. L’ordine di resa trova la divisione Bixio in svolgimento metodico del piano d’attacco. Fronte Porla San Pancrazio. In questa posizione gli Italiani hanno feriti il luogotenente Iwar Rey, il soldato Alesiano, il sergente Del Fante, il caporale De Franceschi, i soldati Ceparo, Jemia, Nastasi, Monni, e uccisi il caporale Therisad, e soldati Izzi, Rambaldi, Calcaterra. I Pontifici hanno solo due feriti. D) Quarta fase, o ripiegamento. Questa si svolge dalle ore 10.10 alle ore 18. Alle 10 il maggiore Rivalta col tenente colon. Carpegna e capitano De Maistre recasi dal gen. Cadorna, latore della lettera qui riprodotta. Frattanto gli Italiani in due colonne penetrano in Roma dalle mura Aureliane e dal Pincio, e da Piazza Barberini, Piazza Navona e Trinità dei Monti. Avvengono degli incidenti di non grande rilievo e finalmente le compagnie pontificie si ammassano in parte a Piazza Termini, in parte a Castro Pretorio. Le trattative di capitolazione hanno termine alle 14.30. Avviene il disarmo, mentre la folla si aduna, in preda a delirio patriottico, intorno al Campidoglio (presidiato dal 39° regg. fanteria con la bandiera), ai gridi di Italia! Italia! I nostri fratelli! I nostri fratelli! E) In Vaticano, durante il combattimento. La Guardia Nobile e quella Palatina sono al completo e in alta tenuta. La Guardia Svizzera è disseminata alla cinta e alle varie entrate. Dalle 5.45 Pio IX trovasi nel suo gabinetto di lavoro; alle 7.15 celebra la messa nella Cappella privata; alle 8.45 si presenta al Corpo Diplomatico e il barone D’Armin (Prussia) pronuncia parole a nome di tutti. Pio IX risponde ricordando che in altra consimile circostanza, nel 1848, il Corpo Diplomatico si era riunito intorno a lui. Accenna alla lettera scritta a Vittorio Emanuele II, ha parole acerbe contro Bixio che nel 1849 aveva formato il progetto d’annegare nel Tevere il Papa e i Cardinali. Dice fra l’altro: «Quando io ritornai da Gaeta vidi nel mio passaggio molti stendardi messi in mio onore; oggi è diverso; non è per me che li hanno messi». Preoccupato poi del prolungarsi della lotta, congeda il Corpo Diplomatico, ma alle 9.40 lo richiama e, in preda alla più viva emozione per il prolungarsi del conflitto che egli attribuisce alla tenacia dei difensori, dice di avere personalmente ordinato la capitolazione. «Non si potrebbe più difendersi se non spargendo molto sangue ed io mi rifiuto a ciò. Io non vi parlo di me; non è per me che io piango, ma per questi poveri figli che son venuti a difendermi come loro Padre. Voi vi occuperete per quelli dei vostri paesi; ve ne sono di tutte le Nazioni... Io sciolgo i miei soldati dal giuramento di fedeltà e li lascio in libertà. Per le condizioni della capitolazione, bisogna che voi vediate e vi accordiate col gen. Kanzler». Dette queste parole, Pio IX tace e sembra che i suoi occhi si velino di lagrime, ma si riprende tosto, congeda i diplomatici e si affaccia ad una delle finestre per vedere se sulla cupola di S. Pietro sventola la bandiera bianca. Questa viene issata in questo momento. F) La capitolazione. Quando al generale Cadorna viene presentata dal ten. col. Carpegna, dal magg. Rivalta e dal capit. De Maistre la lettera del generale Kanzler, unitamente alle proposte di capitolazione, il gen. Cadorna esprime il desiderio di trattare direttamente col Kanzler. Questi si reca dal Cadorna poco dopo le ore 14 a trattare: il generale Cadorna fa presente di non poter accettare la parola violenza e il Kanzler finisce per ritirarla verbalmente e dopo discussione viene accettata la capitolazione in questa forma: «I. La città di Roma, tranne la parte che è limitata al sud dai bastioni Santo Spirito, e che comprende il Monte Vaticano e Castel Sant’Angelo, costituenti la città Leonina, il suo armamento completo, bandiere, armi, magazzini da polvere, tutti gli oggetti di spettanza governativa, saranno consegnati alle truppe di S. M. il Re d’Italia. «II. Tutta la guarnigione della piazza escirà cogli onori della guerra, con bandiere, in armi e bagaglio. Resi gli onori militari, deporrà le bandiere e le armi» ad eccezione degli uffiziali, i quali conserveranno la loro spada, i cavalli e tutto ciò che loro appartiene. Esciranno prima le truppe straniere, e le altre in seguito, secondo il loro ordine di battaglia colla sinistra in testa. L’uscita della guarnigione avrà luogo domattina alle 7. «III. Tutte le truppe straniere saranno sciolte, e subito rimpatriate per cura del governo italiano, mandandole fino da domani per ferrovia al confine del loro paese. È in facoltà del Governo di prendere in considerazione i diritti di pensione, che potrebbero avere regolarmente stipulati col Governo pontificio. «IV. Le truppe indigene saranno costituite in deposito senza armi, colle competenze che attualmente hanno, mentre è riservato al Governo del Re di determinare sulla loro posizione futura. «V. Nella giornata di domani saranno inviate a Civitavecchia. «VI. Sarà nominata da ambo le parti una Commissione composta d’un ufficiale d’artiglieria, uno del genio ed un funzionario d’intendenza, per la consegna di cui all’articolo I». Per la piazza di Roma, il capo di S.M.: Rivalta. - Per l’Esercito Italiano, il Capo di S. M.: D. Primerano. - Il luogotenente generale comandante il 4° Corpo d’Esercito: Cadorna. - Visto, ratificato ed approvato, il generale comandante le armi a Roma: Kanzler. Alle ore 18.30 il Kanzler rientra in Vaticano e partecipa al Papa gli avvenimenti. Pio IX rileva che il possesso della città Leonina sarebbe un dominio temporale ristretto a un rione della città e perciò troppo minuscolo e non in correlazione colla dignità di sovrano della Chiesa. «O lutto il patrimonio di San Pietro o nulla!» Questo è il motto che corre in Vaticano. Perciò Pio IX, consigliato dal cardinale Antonelli, delibera di invitare con una lettera il generale Cadorna a tutelare con le sue truppe il Vaticano (viene spedita domani). Totale delle perdite. Pontifici : 19 morti e 68 feriti. Italiani: 49 morti (di cui 4 ufficiali) e 141 feriti (di cui 9 ufficiali). [Comandini]

• Il maggiore del 34° battaglione Bersaglieri Giacomo Pagliari (nato a Persico, Cremona, 1822) viene decorato della medaglia d’oro per l’eroico contegno tenuto durante il combattimento. [Comandini]

• Questa sera in Milano è aperto solo il Teatro Fossati, ma la notizia della presa di Roma non è ancora conosciuta. [Comandini]

• A tarda sera il popolo triestino che in segno di gioia per la liberazione di Roma, percorre acclamando le vie della città illuminata, viene aggredito dalla polizia e dalla truppa, che feriscono molti cittadini. [Comandini]

• Sequestrato a Venezia Il Veneto Cattolico per un articolo intitolato I nuovi Farisei. [Comandini]

• La Gazzetta di Milano continua la sua polemica circa il preteso stato d’arresto in cui il governo tiene Garibaldi. [Comandini]

• La Gazzetta Ufficiale pubblica un R. D. che autorizza il comune di Lucera ad imporre un dazio sulla neve. [Comandini]

    domenica 18 settembre 2011

    Castelfidardo, la battaglia «dimenticata» dai vincitori



    Il Generale Cialdini


    Il 18 settembre 1860 nell'area compresa tra i comuni di Camerano, Castelfidardo, Loreto,
    Numana, Osimo, Porto Recanati, Recanati, Sirolo e Ancona avvenne lo storico scontro militare tra l'esercito piemontese guidato dal generale Enrico Cialdini e quello pontificio comandato dal generale francese Louis Cristophe Leon Juchault de La Moricière a cui venne dato il nome di battaglia di Castelfidardo.
    I compiti assegnati ai contendenti erano chiari: i pontifici dovevano arrivare ad Ancona ed attendere l'aiuto degli austriaci dall’Adriatico, mentre i piemontesi dovevano impedirglielo. Lo scontro, sebbene condotto in maniera apprezzabile da entrambi gli schieramenti, non fu esente da errori sia sul piano tattico sia su quello operativo. Con i piemontesi attestati lungo la strada postale Loreto-Ancona, presso gli abitati di Acquaviva, Campanari, Crocette, San Rocchetto ed i soli 400 uomini del XXVI battaglione bersaglieri nell'altura di Monte Oro Selva a controllare la vallata verso il mare Adriatico, passare lungo la costa per arrivare ad Ancona era sicuramente una mossa vincente per i pontifici, purché fatta in fretta. Tralasciando volutamente le manchevolezze piemontesi in termini informativi e nello schieramento del dispositivo, i pontifici commisero gli errori più gravi che compromisero l'esito finale. Alle ore 9.30 la manovra di avanzamento a pettine da parte di tre colonne pontificie lungo il litorale Adriatico, tra Porto Recanati e Numana, stava avendo la meglio: la prima colonna di sinistra del de Pimodan, infatti, aveva fatto indietreggiare nell'altura di Monte Oro i bersaglieri piemontesi che nonostante l'esiguo numero si battevano da leoni.

    Una stampa che rievoca lo storico scontro -
    (Museo del Risorgimento di Castel Fidardo)

    Quando, forse colpito dal fuoco amico, il generale de Pimodan venne colpito mortalmente, le sue truppe, prive di ordini chiari, iniziarono uno sbandamento pauroso. La Moricière che, secondo il suo concetto d'azione, non avrebbe dovuto sostenere gli scontri con le proprie truppe ma, una volta varcato il fiume Musone, avrebbe dovuto proseguire in tutta fretta verso Ancona, invece si fermò e anziché lasciare al suo destino il de Pimodan, decise di gettare anche la seconda colonna nella battaglia. Tutto ciò diede il tempo al grosso dell' esercito piemontese di intervenire, bombardare la vallata, accerchiare e vincere i papalini. Alle ore 14.00 la battaglia era conclusa.
    I caduti degli opposti eserciti (88 pontifici e 66 piemontesi) furono seppelliti sul campo di battaglia in fosse separate. Nel 1861 i patrioti fidardensi e marchigiani, spinti da umana pietà e rispetto per i combattenti morti a Castelfidardo in quella storica battaglia, decisero di sottrarre i seppelliti alla nuda terra e il 18 settembre iniziarono a costruire un imponente Sacrario-Ossario che per numerose vicissitudini, anche economiche, venne terminato nel 1880 e ridimensionato rispetto al progetto iniziale. Le spoglie dei soldati piemontesi e pontifici furono poste in avelli separati, rispettando la posizione che avevano nel campo, verso il mare Adriatico i pontifici e verso la collina di Monte Oro i piemontesi (…)

    Il monumento eretto sul luogo della battaglia.
    Il marchese De Ségur, nel libro I Martiri di Castelfidardo (Parigi 1892), definì lo scontro militare marchigiano come la Waterloo del diritto dei popoli e dell'onore europeo e ricordò anche che Ferdinand e Paul Chazotte, diciotto mesi dopo la battaglia, avevano avuto la fortuna di visitare il memorabile campo di Castelfidardo: «Questi valorosi giovani ebbero la fortuna di pregare sulla tomba dove riposavano, confuse tra loro, le sacre ossa di tanti eroi. Non hanno trovato né una semplice pietra tombale, né il sacro segno della Redenzione. I Piemontesi hanno temuto, quasi sicuramente, che questo luogo divenisse una meta di pellegrinaggi. Non lontano da questo luogo c'era poi un'altra fossa comune, quella dove i Piemontesi hanno gettato i resti dei loro caduti, dopo averli bruciati (…). In questo luogo nessuno viene ad inginocchiarsi, nessuno prega, nessuno spera e, cosa strana e misteriosa, nessun segno esteriore, nessun monumento di gloria o di lutto indica ai passanti il luogo della sepoltura di questi malinconici vincitori».
    De Ségur evidentemente non sapeva delle iniziative intraprese dall'ingegner Antonio Bianchi e dal sindaco Attilio Sciava per realizzare il Sacrario-Ossario in onore dei valorosi soldati degli opposti eserciti. Ma il marchese aveva ragione su una cosa, lo scontro di Castelfidardo era stato troppo in fretta dimenticato dal nuovo Stato italiano. Perché? Anche nell'opuscolo realizzato dalla rivista illustrata Picenum, in occasione dell'inaugurazione del monumento nazionale ai vittoriosi di Castelfidardo del 18 settembre 1912, Nada Peretti scriveva: «La giornata di Castelfidardo nell’opinione pubblica italiana non ha assunto quel valore che — non il breve fatto d'arme — ma la sua conseguenza morale le consente nella storia del nostro risorgimento. E pure essa stabilisce inesorabilmente la caduta del potere temporale dei papi; essa attribuisce al governo del regno di Piemonte, retto dal grande statista Cavour, ed all'esercito di Vittorio Emanuele II, la fortuna della liberazione delle Marche, le quali da lunga vigilia preparavano questa ambita sorte. Io non so se con tale oblio si siano volute evitare contese di primati e di privilegi, e si sia voluta lasciare unicamente al 20 settembre 1870 la fulgida gloria della più grande vittoria di un popolo. Ma la presa di Roma —se pure era e doveva essere il compimento del destino della terza Italia — presupponeva una preparazione, che — svoltasi per vie diplomatiche, fra le cancellerie dei diversi Stati europei—ebbe la solenne conferma del fatto inevitabile e quasi compiuto, nella battaglia di Castelfidardo».

    Pio IX
    Oggi, a distanza di 150 anni, per quell’oblio potremmo avanzare numerose ipotesi che investono altrettante problematiche. Dobbiamo fare comunque un doveroso esercizio di trasferimento mentale nei luoghi ed al tempo del Risorgimento, in un'Italia dove la religione cristiana era un comun denominatore per la maggioranza della popolazione, e un re ed il suo Parlamento, che avevano ottenuto l'Unità nazionale combattendo il Papa, dovevano tener bene in considerazione l'umore del popolo. Considerando i cambiamenti che dovevano essere apportati in costumi, leggi, imposizioni e tasse, non si poteva rischiare anche una sollevazione religiosa, esaltando la battaglia di Castelfidardo. Inoltre i nuovi governanti italiani sapevano bene che mettere in risalto gli esiti della campagna di conquista delle Marche e dell'Umbria, di cui Castelfidardo era stato il momento più significativo, avrebbe messo in imbarazzo politico-internazionale gli Stati europei che avevano promesso la difesa dei territori pontifici, obbligandoli di fatto ad intervenire. Ma ancor più importante era che la strada dell'Unità nazionale non era terminata, bisognava arrivare a Roma e non era cosa facile, soprattutto per il coinvolgimento internazionale dell'operazione. Cavour non voleva clamori sulla vittoria ottenuta, tutto doveva essere al più presto dimenticato dall’Europa cattolica e non si doveva assolutamente dare l'occasione per un intervento a sostegno dello Stato pontificio. Lo stesso Napoleone III, riferendosi all'invasione dei territori del papa-re, aveva detto «fate presto». Non erano ancora maturi i tempi di un’Italia unita comprendente Roma capitale, ma era necessario prepararli con discrezione ed attenzione.
    Così per lo scontro del 18 settembre 1860, avendo chiesto a Cialdini come dovevano chiamare il luogo della vittoriosa battaglia, Cavour si era sentito proporre il nome di Loreto come palese e significativa vittoria contro il Papa: ma il primo ministro aveva optato per lo sconosciuto centro abitato di Castelfidardo, luogo dove avvenne lo scontro più cruento e dove morì insieme a molti dei suoi soldati il generale pontificio Georges de Pimodan, riconoscendone di fatto l'alto valore militare.
    Presidente Fondazione Duca Roberto Ferretti di Castelferretto
    Dal saggio «Le Marche e l’Unità d’Italia»
    a cura di Marco Severini - Edizioni Codex
    Eugenio Paoloni
    20 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA

    mercoledì 7 settembre 2011

    I moderati oltranzisti che piegarono il Sud

    1861-2011
    Nascita di una nazione

    Il saggio

    Gli eredi di Cavour spietati contro il brigantaggio

    Salvatore Lupo - «L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile» - Donzelli - pp. 192, € 16,50
    Il saggio di Salvatore Lupo


    saccheggi plebei». Non è vero che quello stesso regime fosse nient'altro che super reazionario. Anzi, mise fuori gioco «gli ultras del legittimismo, e a maggior ragione molti degli elementi di estrazione popolare mobilitatisi in suo favore nel decennio precedente quali guerriglieri o briganti, e che si mostravano ora restii a rientrare nell'ordine sociale». Il regno borbonico «si assicurò l'adesione di un personale militare o in generale burocratico proveniente dal passato regime murattiano, e di cui fu garantito l'amalgama con il personale che gli era rimasto fedele negli anni precedenti». E in una logica «definibile in senso lato, di omogeneizzazione nazionale esso mantenne in vigore le riforme del decennio francese (1806-1815)». La monarchia sabauda nell'età della restaurazione fu, quella sì, «codina e reazionaria». Non è vero che i liberali meridionali dell'epoca si sentirono affratellati dalla comune fede politica risorgimentale. Anzi, «si scontrarono, si danneggiarono gli uni con gli altri» eccezion fatta per i momenti in cui dovettero subire la repressione della restaurazione assolutista dopo il 1821 e il 1849. In Sicilia, il termine «napoletano» era «aborrito» non meno di quanto lo fosse a Milano quello di «croato». A Palermo si mantenne sempre viva «la rancorosa memoria del tradimento borbonico del 1816, la protesta per il gesto tirannico che aveva abrogato le libertà dell'isola, antiche e nuove». Sono parole di Salvatore Lupo che si leggono nel libro L'unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, che sta per essere pubblicato da Donzelli editore. Lupo parte proprio di qui, da ciò che rese possibile il successo dell'impresa garibaldina. Cioè dalla dissidenza siciliana nei confronti del Regno borbonico, dissidenza che si configurava anche come un conflitto tra Napoli e Palermo, rispettivamente la più grande (322 mila abitanti) e una delle prime (114 mila abitanti) città italiane: si pensi che il secondo centro abitato della parte continentale, Foggia, contava appena 20 mila cittadini, mentre in Sicilia ce n'erano altri due, Messina e Catania, che di cittadini ne avevano 40 mila. A Palermo, poi, le insurrezioni si ebbero in nome del ripristino della Costituzione filo-aristocratica del 1812. Nel Mezzogiorno continentale i rivoluzionari, invece, si mobilitarono per la Costituzione di tipo spagnolo, cioè democratica, vale a dire quella concessa da Ferdinando I dopo la sollevazione del 1820. Per di più le altre città siciliane erano schierate con Napoli. «Fu guerra dei siciliani contro i napoletani», scrive Lupo, «e guerra civile dei siciliani tra loro: alla fine giunse la reazione assolutistica per tutti». Nel 1848 Palermo fu la prima città d'Europa a imboccare la via della rivoluzione: avrebbe aderito anche a una Confederazione italiana, purché - s'intende - in modo «del tutto autonomo da Napoli». Ferdinando II concesse la Costituzione, poi fece marcia indietro e Messina fu la città che si distinse per una resistenza davvero eroica. Ma, anche nella stagione reazionaria che ne seguì, il re si affidò non già a superconservatori, bensì a personaggi che si distinguevano per essere stati murattiani e costituzionalisti: Carlo Filangieri, figlio del filosofo illuminista, Pietro Calà Ulloa e Giustino Fortunato, prozio dell'omonimo meridionalista, che tornerà nella seconda parte di questo racconto.
    Il libro di Lupo non si propone di presentare al lettore rivelazioni o denunce. È piuttosto una rielaborazione molto acuta di elementi alquanto trascurati dalla storiografia tradizionale.
    Nessuna concessione al revisionismo meridionalista, una trattazione asciutta (ma ricca di attenzione ai dettagli) dei casi di quegli anni più celebri e dibattuti: la rivolta e la repressione a Bronte; don Liborio Romano che passa da Francesco II a Garibaldi reclutando camorristi - «nuje non simm cravunari (carbonari) nuje non simmo realisti ma facimmo i camorristi fammo n'c... a chilli e a chisti», era la loro canzone -; i plebisciti del 21 ottobre 1860, che diedero all'Italia un'adesione unanime ma solo apparente, dal momento che - come notò già allora Massimo D'Azeglio -, a dispetto di quel voto «straunitario», covavano nelle plebi insubordinazione e propositi insurrezionali. Riconosce, Lupo, che nella prima metà dell'Ottocento, negli anni della restaurazione, «il governo borbonico si impegnò nel sostegno ai comuni del Mezzogiorno continentale, e soprattutto introdusse ex novo la riforma in Sicilia: facendone il punto più alto di una linea antibaronale che portò Napoli (per quanto possa sembrare oggi paradossale) nel ruolo del Nord civilizzatore-normalizzatore nei confronti di quel Sud barbaro-riottoso che era la Sicilia».

     Luigi Carlo Farini
    Luigi Carlo Farini
    Viene poi analizzata la questione dei moderati che, dopo la morte di Cavour, si trasformano in intransigenti (mentre i democratici restano perplessi al cospetto dei metodi più spietati). È un moderato, Luigi Carlo Farini, futuro ministro degli Interni, che, appena giunto al Sud, relaziona a Cavour essere «i beduini, a confronto di questi caffoni... fior di virtù civile». È un moderato Marco Minghetti, che scrive a Farini: «Credo che un po' di metodo soldatesco sia medicina salutare a codesto popolo». Riconducibile al potere dei moderati è il generale Enrico Della Rocca, che ingiunge ai suoi subordinati: «Non si perda tempo a fare prigionieri, affinché si sappia da quei briganti che arruolandosi per venire negli Abruzzi si condannano a quasi certa morte». Espressione di un governo moderato va considerato anche il generale Enrico Cialdini, spedito (luglio 1861) a reprimere le rivolte dei meridionali nei panni di luogotenente e di comandante del sesto corpo d'armata. Ciò che fece ricorrendo a metodi spietati. La loro «non moderazione» a fronte delle plebi meridionali nasceva dall'idea che, negli anni precedenti all'impresa dei Mille, si erano fatti del Mezzogiorno, a contatto con gli esiliati provenienti dal Sud. La mancanza di moralità nel Mezzogiorno era stata presentata dai patrioti in esilio a Torino come diretta conseguenza del malgoverno borbonico. «Non si capiva però», osserva Lupo, «se per loro la tirannia (i Borbone) avesse corrotto la società, o se non fosse stata la società corrotta a mantenere così a lungo in vita la tirannide; la colpevolizzazione della "mala signoria" si situava bene nella retorica patriottica; se però le cose stavano all'inverso, c'era il rischio che qualcuno pensasse il Mezzogiorno incapace di una piena partnership nella nazione risorta, bisognoso di una permanente protezione dell'Italia virtuosa». E a questo punto Lupo ricorda che già nel 1855 Francesco De Sanctis aveva indicato il rischio che la frustrazione-deprecazione degli esuli provocasse effetti perversi. Rendendosi conto di tale problema, nell'aprile del 1861 il moderato siciliano Emerico Amari evocava la rivoluzione per chiarire che il Mezzogiorno non era paese di conquista, né quello meridionale era un popolo bambino da educare: «Non bisogna pensare questi due popoli (napoletani e siciliani, ndr ) come non altro che una cancrena», affermava Amari, «abbiamo fatto una rivoluzione, e questo basta per dimostrare la nostra moralità».
    Di qui l'intricata questione delle ribellioni che si ebbero al Sud a ridosso dell'unità. Non è il caso, dice (tra le righe) lo storico, di parteggiare per i rivoltosi o per i piemontesi. L'intento di Lupo è quello di denunciare un'insufficienza storiografica. «Io credo», scrive, «che anche nelle province napoletane abbiano funzionato reticoli interclassisti, sia sul versante rivoluzionario che su quello controrivoluzionario; e penso che ulteriori ricerche potranno evidenziare il loro ruolo nelle reazioni e nella guerriglia brigantesca». Va spiegato perché in Calabria non si ebbe quasi quel brigantaggio politico che invece si registrò in Lucania. Come mai Napoli rimase a lungo una roccaforte garibaldina. Cosa spinse l'Irpinia, la Puglia e l'Abruzzo a «scendere in campo prevalentemente a favore dell'antica causa». «Non è facile spiegare questa dialettica regionale», sostiene, «potranno farlo solo indagini approfondite dei casi locali». Il che è come dire: è una storia in gran parte ancora da scrivere.
    Così come è ancora, se non da scrivere, quantomeno da approfondire la questione dei rapporti tra plebi, malavita e politica in quegli anni nel Mezzogiorno. E non solo dalla parte degli sconfitti.
    C'è il caso delle «facce sgherre» guidate da «gentiluomini», cioè di un fenomeno che, più o meno da vicino, fa pensare alla mafia. Questione che si pone molti anni prima del 1860. Francesco Bentivegna è un proprietario di Corleone che guida una di quelle «squadre» e nel 1848 «cala» su Palermo. Nel pieno della rivoluzione è chiamato a governare Corleone. Poi, al tempo della reazione, suo fratello Filippo viene catturato e muore in carcere. Lui resta a capo della sua banda. Nel 1853 viene arrestato e, dopo tre anni, liberato. Nuovamente alla guida dei suoi, assale Mezzojuso. Qualcuno lo tradisce e stavolta viene fucilato lì per lì. Stessa sorte subisce Salvatore Spinuzza, leader della rivolta di Cefalù. Tra gli eredi di Bentivegna c'è Luigi La Porta che si unisce a Garibaldi. Ma c'è anche Santo Meli, il quale, nei mesi precedenti lo sbarco di Marsala, si mette a capo di una guerriglia che tiene testa ai borbonici. La polizia di Francesco II lo bolla come un criminale comune e i garibaldini, prese per buone le accuse dei «nemici», lo arrestano. Meli si difende: «Io brigante? Eccellenza! Ho combattuto contro i borbonici, ho incendiato le case dei realisti, ho ammazzato birri e spie, dai primi di aprile servo la rivoluzione: ecco le mie carte». Ma, nonostante non ci siano prove che sia un combattente diverso dagli altri, gli uomini di Garibaldi lo passano per le armi. E però un dubbio rimane. Come risarcimento postumo, a suo fratello e a suo zio - che erano sempre stati al suo fianco - sarà riconosciuta una pensione per meriti patriottici.
    I seguaci di Bentivegna, le «facce sgherre», venivano definiti anche «faziosi del ceto umile di Corleone». Protomafiosi? Non si può dire. L'individuazione di una protomafia è fatta comunemente risalire alla relazione del 1838 con cui Pietro Calà Ulloa, magistrato a Trapani, denunciò l'esistenza di «unioni o fratellanze, specie di sette che dicono partiti», capitanate da «possidenti» o «arcipreti» che si configuravano come «piccoli governi nel governo» gestendo i rapporti tra «il popolo» e «i rei». Nel libro L'invenzione dell'Italia unita. 1855-1864 (Sansoni), Roberto Martucci ha scritto che i popolani di Sicilia levatisi in armi a sostegno di Garibaldi sarebbero stati «strumenti dei proprietari locali», capaci solo di «sgozzare feriti, sbandati e dispersi»; tramite loro la mafia, proprio nei giorni di Garibaldi, avrebbe cominciato «ad assumere quel controllo totale del territorio siciliano che, in modi e forme diverse, avrebbe mantenuto nell'Italia unita nel XX secolo». Propende cioè, Martucci, per la tesi che a parteggiare per Garibaldi fu anche una sorta di protomafia. Una tesi che appare a Lupo «oltremodo semplicistica», anche se, sulla scia dei lavori di Paolo Pezzino, Lucy Riall, Leonardo Sciascia, Antonino Recupero e di quello di Giovanna Fiume, Le bande armate in Sicilia (1819-1849) Violenza e organizzazione del potere (Annali della facoltà di lettere di Palermo, 1984), non si sottrae al confronto con l'innegabile «sovrapposizione tra rivolta politica, sociale e criminale» che si produce in quei decenni di storia dell'isola. E non si sottrae in particolare all'analisi dell'uso politico di questi fenomeni. A cominciare dal 1820 «quando Palermo aveva mobilitato guerriglie comandate da principi, formate da popolani, rafforzate da contingenti paesani» e aveva «con queste forze attaccato la parte della Sicilia rimasta filo-governativa, sino a mettere a sacco la città di Caltanissetta». Per riportare pace e ordine era stata necessaria la riconquista di Palermo da parte di un'armata napoletana. Poi era stato il '48 con Palermo in prima linea. Ma quando, nel settembre di quello stesso anno, Messina aveva subito l'attacco borbonico, misteriosamente da Catania e da Palermo era venuto un aiuto assai scarso. Cosa che alimentò la polemica dei democratici contro i moderati (Palermo), accusati di essersi arresi quasi senza combattere ai «napoletani».
    Alcuni esponenti delle forze dell’ordine dopo la cattura di Giuseppe Salomone (al centro), un brigante siciliano dei primi del Novecento
    Alcuni esponenti delle forze dell’ordine dopo la cattura di Giuseppe Salomone (al centro), un brigante siciliano dei primi del Novecento

    Altra questione complessa affrontata da Lupo è quella del ruolo dei cattolici. Si sa: ve ne furono che parteggiarono per Garibaldi, altri che aderirono all'unificazione, altri ancora - molti - che restarono fedeli ai Borbone. Lo storico si sofferma sugli uomini di Chiesa (e siamo ad anni successivi alla rottura del 1848 tra Pio IX e il Risorgimento) che partecipano alla rivoluzione. Nel 1860 un volontario grossetano dei mille di Garibaldi, Giuseppe Bandi, racconta che «preti e frati erano intenti a predicare, facendosi mallevadori che chiunque morisse combattendo per la Sicilia meriterebbe subito un posto in paradiso, tra gli angeli, tra i martiri, tra le vergini e i confessori». E aggiunge: «Notai che gli insorti siciliani avevano appiccicate sul calcio dei fucili le immagini di Santa Rosalia, e lo stesso avevano fatto sulle culatte dei cannoni».
    Poi, dal 1861, fu la guerra civile. L'umile Carmine Donatelli detto Crocco, uno dei più importanti capi del brigantaggio, è di Rionero in Vulture (il paese della famiglia Fortunato). Anche il «galantuomo» Pasquale Romano diventa un capo dei banditi. «I patrioti italiani di entrambi i partiti, moderati e democratici, affibbiarono la qualifica di briganti a Crocco a Romano e agli altri che come loro insorsero tra la primavera e l'estate del 1861; lo avevano già fatto, d'altronde, per i protagonisti delle reazioni dei mesi precedenti», scrive Lupo. Crocco era in effetti un poco di buono. Romano no, non aveva niente del bandito. I motivi per cui furono definiti «briganti» possono valere, secondo l'autore, per molti dei patrioti siciliani che si schierarono dalla parte della rivoluzione. «Il discorso fatto sulla politicizzazione popolare vale per il Mezzogiorno continentale come per la Sicilia: gli aspetti criminali e quelli strumentali non escludono quelli ideologici, nel nostro caso i sentimenti di fedeltà alla monarchia e alla patria napoletana». Sentimenti che ispirarono, almeno in alcuni casi, le rivolte in Irpinia e nel Matese. Rivolte che ebbero come conseguenza rappresaglie davvero terribili a Montefalcione, Casalduni e Pontelandolfo. Le denunciò alla Camera dei deputati il milanese Giuseppe Ferrari in un celeberrimo discorso del dicembre 1861: stupri, violenze d'ogni tipo in un paese in fiamme (Pontelandolfo) «come se l'orizzonte dell'esterminazione non dovesse avere limite alcuno». Episodi che Lupo imputa ai «moderati», i quali «a Pontelandolfo e altrove si mostrarono così estranei a un'idea di patria in grado di materializzarsi nelle figure di fanciulli, donne e vecchi, gente comune». E la complessità non si esaurisce in questo. Ce n'è anche per i democratici. Il partito democratico di Rionero in Vulture, che già alla fine degli anni Quaranta aveva accusato la famiglia Fortunato di essersi impadronita di terre che secondo le leggi andavano distribuite tra il popolo, denuncia come manutengoli (complici, protettori) di Crocco i membri di quella stessa famiglia, la più ricca del paese, schierata sul fronte borbonico, a cui apparteneva quel primo Giustino Fortunato che abbiamo trovato alla guida del governo nel 1849. Crocco e il suo luogotenente Giuseppe Caruso erano stati dipendenti dei Fortunato. Le autorità, racconta Lupo, si convincono che il capobanda sia sempre stato un uomo di quei notabili, sia stato da loro fatto fuggire dal carcere, ricoverato nelle loro aziende, sostenuto prima e durante la grande scorreria. Scorreria, quella di Crocco, che - tra l'altro - aveva avuto inizio a Lagopesole, terra dei Fortunato. Così come di loro proprietà era la tenuta di Gaudiano, dove il «brigante» aveva avuto il fondamentale incontro con l'ufficiale legittimista spagnolo José Borjes, giunto nell'Italia meridionale per riconquistarla a Francesco II.
    Successivamente il nome dei Fortunato, in omaggio all'altro Giustino, padre del meridionalismo liberale, sarebbe entrato nel Pantheon dell'Italia risorgimentale. La conversione liberale e nazionale della super-borbonica famiglia Fortunato, scrive Lupo, «indica forse la norma di una riconciliazione (nazionale, e credo anche locale) basata più che altro sull'oblio del passato». Anche se Giustino Fortunato non dimentica. In una lettera del 1928 a Raffaele Ciasca, Fortunato ricorda che anni terribili furono quelli tra il 1860 e il 1862, allorché trecento abitanti di Rionero accusarono i suoi familiari di essere borbonici e di aver sostenuto i briganti «tanto che va attribuito a miracolo se non vennero fucilati!». Suo padre e due suoi zii furono arrestati e, quando tornarono in libertà, uno degli zii considerò saggio fuggire in Francia. Poi, quindici anni dopo, a lui, Giustino, sarebbe toccato di essere eletto deputato e, racconta, «avutane notizia, mio Padre scoppiò a piangere». Il grande meridionalista, osserva Lupo, «guarda all'età di ferro della guerra civile come al momento fondativo della propria esperienza di vita: con gli oltraggi subiti da un governo di occupazione militare, con la comunità paesana che si rivolta contro la sua famiglia, le imputa il manutengolismo dopo averla a lungo accusata di essere usurpatrice del demanio; l'oltraggio viene solo parzialmente sanato dal voto (immaginiamo unanime) del 1880, che le restituisce la funzione di classe dirigente». Laddove i Fortunato avevano svolto da prima dell'unità «un ruolo positivo di leadership nella società locale mantenendosi lontani da quel modello assenteista e fazioso che molti considerano la quintessenza del problema meridionale». Scrive Giustino Fortunato, a mo' di giustificazione, a Francesco Saverio Nitti (che appartiene a una famiglia di patrioti lucani in cui si conta qualche caduto nella lotta contro il brigantaggio e che sarà autore nel 1900 di Nord e Sud , il «primo grande testo sullo squilibrio economico-territoriale italiano»): «Mio padre fu borbonico perché non credeva, non immaginava nemmeno l'unità». Spiegherà lo stesso Giustino Fortunato nel 1875 a Pasquale Villari: «Il brigantaggio fu reazione sociale della plebe». E, cinquant'anni dopo, specificherà a Carlo Rosselli che quel fenomeno non era stato «un tentativo di reazione borbonica o di autonomismo», bensì un moto positivo ancorché «sostanzialmente di indole primitiva e selvaggia, frutto del secolare abbrutimento di miseria e di ignoranza delle nostre plebi rurali».
    Il fatto è, sintetizza Lupo, che l'unificazione italiana (come quasi tutti i grandi eventi storici) «non era ineluttabile, era un sogno e un progetto di certi movimenti politici che si concretizzò attraverso brusche accelerazioni, guerre, imprevedibili vittorie e repentini collassi, azioni e reazioni anche incoerenti». Per quel che riguarda l'Italia meridionale va messa in discussione la stessa parola «Risorgimento». «Parola che», scrive lo storico, «occulta le contraddizioni dei patrioti, l'alternarsi di solidarietà e faziosità, amore per la libertà e autoritarismi, che derivava dal carattere passionale ed estremo delle loro convinzioni, nonché dalla violenza dello scontro in cui essi stessi e i loro avversari erano impegnati». Il termine «Risorgimento» ha «un che di edificante, vuole che noi assumiamo i protagonisti di quei remoti eventi a maestri di morale; noi, invece, a così grande distanza di tempo, siamo quasi spinti per reazione a far loro la morale, secondo i mediocri standard della correttezza politica oggi in voga». Ciò che non ci aiuta a capire e a raccontare il nostro passato. Né a trarne lezioni. Per poi concludere: «È lo stesso rischio, d'altronde, che corriamo confrontandoci con l'altro mito fondativo della storia nazionale, la Resistenza». Ma qui il discorso si farebbe ancora più complicato.

    07 settembre 2011 19:48      © RIPRODUZIONE RISERVATA


    In Lucania
    • ll famoso meridionalista liberale Giustino Fortunato (nella foto a sinistra) aveva un prozio, suo omonimo, che era stato primo ministro del re Ferdinando II di Borbone (nella foto al centro)
    • Dopo l’Unità d’Italia, i famigliari di Giustino Fortunato vennero denunciati a Rionero del Vulture, con l’accusa di essere manutengoli (complici) della banda del feroce brigante Carmine Donatelli, detto Crocco, (nella foto a sinistra) che in passato era stato un loro dipendente

    Bibliografia
    Riflessioni sul crollo degli Stati preunitari