domenica 1 maggio 2011

Filippo Cordova : "Uno dei Protagonisti dell'UNITA' D'ITALIA"



Aidone 1 Maggio 1811
Firenze 16 Settembre 1868



 Filippo Cordova nel 1848Deputato della Camera dei Comuni (Aidone) 

 Filippo Cordova Aidone 1 Maggio 1811 - Firenze 16 Settembre 1868 
La Vita:
Nacque in Aidone il primo maggio 1811, da Francesco Paolo e Giuseppa Cordova.
Sin da giovane stupì i concittadini per il suo genio componendo a 13 anni dei poemi e alcune tragedie.
Il padre Notaio di Aidone , curatore degli interessi dei signori di Aidone Giulio Cesare Rospigliosi e Donna Margherita Colonna-Gioeni lo mandò a Catania, s’iscrisse in quell’Ateneo nella facoltà di Giurisprudenza e a diciotto anni si laureò in diritto canonico e civile. e prese anche la laurea in geologia sotto la guida del Prof. Carlo Maravigna.
Inviato nel 1831 a Palermo dallo zio-cugino il Comm. Gaetano Scovazzo-Cordova , che ricopriva la carica di Ministro di Grazia e Giustizia presso la Luogotenenza della Sicilia del Principe Leopoldo Conte di Siracusa , presso lo studio dell’avv. Agnetta si fece conoscere per la sua profonda cultura e divenne amico stimato dell’Ammiraglio Ruggero Settimo, Vincenzo Fardella di Torrearsa e Michele Amari.
Ritornato in seno al paese natio vi soggiornò poco tempo, per recarsi a Caltanissetta, ove svolse parte della vita pubblica e politica, esercitando l’avvocatura.
Consigliere Provinciale di Caltanissetta per la sua profonda cultura venne nominato Segretario del Consiglio.
Nel 1838 partecipò al grande Congresso scientifico di Clermont-Ferrand in Francia e si fece conoscere dall’Accademia di Francia , all’epoca considerata la più alta Scuola d’Europa con il saggio sul Paradiso Perduto di John Milton.
Molto probabilmente in questa occasione ebbe la possibilità di conoscere anche molti illustri scienziati francesi ,inglesi e tedeschi ( ndr. come l’amico tedesco Herman Abik citato nella sua
breve Storia di AIDONE )
Nominato Consigliere d’Intendenza studiò nel 1839 le decime feudali di alcuni Comuni della Sicilia (Terranova,Butera, S.Cataldo,Sutera e S.Caterina) e nel 1841 partecipò al Congresso scientifico di Napoli. e tramite il Principe di Canino venne introdotto alla Massoneria e venne scritto alla loggia AUSONIA che aveva come obiettivo l’Unità d’Italia con capitale la grande ROMA.


Il 
Sen Gaetano Scovazzo (Aidone 1782 - Palermo 1868)
zio-cugino, è il vero maestro di Filippo Cordova


Al Governo della Sicilia (1848 – ’49): 
Scoppiata la Rivoluzione nel fatidico “48, Filippo Cordova fù nominato Segretario del Comitato rivoluzionario di Caltanissetta, e dopo venne eletto Deputato alla Camera dei Comuni come rappresentante del paese natio: AIDONE.
A Palermo fu chiamato dal Governo siciliano autonomo a formulare il progetto legge del potere esecutivo, che poi divenne lo Statuto Siciliano; i cui primi tre articoli furono da Lui compilati , e approvati senza discussione,dalle due Camere dei Pari e dei Comuni.
La nazione SICILIA conosciuto nel Cordova un abile statista, lo volle a reggere i suoi destini e Ruggero Settimo Presidente del Parlamento con il Marchese di Torrearsa gli affidarono il dicastero delle finanze il 13 agosto 1848.
Prima di sedere al banco ministeriale, alla Camera dei Comuni, era tale il fascino ch’esercitava con la sua elegante parola, che incombeva rispetto e quindi quando egli parlava, il silenzio dei colleghi Deputati era profondo e l’attenzione massima.
La sua profonda cultura si può rilevare con i suoi discorsi sulla sovranità popolare, sul diritto degli operai al voto e la libertà di stampa.
Dopo poco tempo , quando s’accorse, che le Finanze della Sicilia erano al disastro totale ,chiese ed ottenne il permesso dal Parlamento Siciliano (Assemblea dei pari e dei Comuni) , di pignorare le argenterie e gli oggetti preziosi delle chiese .
Queste parole vennero accolte con fragorosi applausi e il nome del Ministro delle finanze divenne caro a tutti, molti deputati in Lui vedevamo il salvatore della Patria, ma le sorti della Sicilia pur troppo peggioravano.
I soldati accorsi per la difesa di Messina furono decimati e quei pochi rimasti , erano ritornati a Palermo in uno stato da far pietà.
La Sicilia correva il grave pericolo di essere ripresa a forza dal Borbone,l’esercito formato di poche migliaia di uomini non poteva far fronte a quello borbonico e consumata quasi interamente la polvere,i proiettili, perduti alcuni cannoni, si doveva incominciare da capo.
Intanto mancavano i denari, perché le chiese ed i conventi avevano mandato poco argento al ministero delle Finanze;ma Filippo Cordova non si scoraggiò e formulò un progetto di legge per la vendita dei beni nazionali.

 Bandiera della Sicilia autonoma nel 1848 
Presentandolo alla Camera dei Comuni, venne approvato con assoluta maggioranza; passato alla Camera dei Pari, gli abati e i vescovi in principio l’approvarono; ma dopo pochi giorni, capirono l’intento e odiarono l’uomo che cercava in tutti i modi possibili e convenienti di salvare la Patria, aspettando il momento opportuno per abbatterlo.
La legge intanto non potè essere attuata causa l’indugio e la feroce opposizione dei Pari e dei nuovi ricchi siciliani i borghesi latifondisti.
Nell’ottobre tentò di fare un prestito a Parigi presso la Banca Drouillard di 3 milioni di franchi e di invitare il generale Giuseppe Garibaldi per organizzare a difesa dell’Isola, ma anche questo svanì per opera dei maneggi politici del Re Ferdinando II di Borbone.
Il Cordova tentò ancora, e propose l’abolizione del dazio sul macinato,chiudendo il suo discorso con delle parole roventi per gli ecclesiastici e affettuose per il popolo siciliano.
La Camera dei Pari, formata la maggior parte di abati, vescovi e ricchi capitalisti, non perdeva mai di mira il ministro Cordova, di cui, voleva ad ogni costo disfarsene e lo annoiavano continuamente con delle interpellanze, alle quali però il Cordova rispondeva meravigliosamente.
 Il Presidente del Parlamento siciliano del 1848
l’ammiraglio Ruggero SETTIMO

Per le spese fatte durante la guerra, progettò un prestito forzoso di un milione di Ducati , ma pur troppo anche questo andò a monte, per cui il Cordova stanco si dimise e con Lui tutto il Gabinetto Fardella di Torrearsa
Il popolo però, che conosceva l’abilità del Ministro, mediante un forte tumulto lo costrinse a ritornare al suo posto e con Lui tutto il Ministero dimissionario.
Il Cordova avendo visto che anche i Deputati desideravano il suo ritorno, animato dalla speranza e dal quel desiderio di salvare l’autonomia e la libertà della nazione Sicilia , presentò un nuovo progetto per un prestito forestiero.
Ma dopo pochi giorni del suo ritorno, quegli stessi Deputati che l’avevano pregato per riprendere il seggio ministeriale, quegli stessi che con discorsi patriottici avevano manifestato il loro piacere per il suo ritorno al ministero, quegli stessi che avevano dato un voto di fiducia al governo del Fardella di Torrearsa , furono i primi ad essere contrari.
I ministri indignati si dimisero immediatamente; il popolo di nuovo protestò perché desiderava ad ogni costo che i Ministri rimanessero al loro posto ma invano.
Il marchese Michele Fardella di Torrearsa tentò di convincere Cordova ma questi per una sua dignità si oppose decisamente.
Il Deputato Bertolami pregò i Ministri acciocché ancora una volta assecondassero il desiderio del popolo, ma essi furono irremovibili.
Il popolo palermitano radunato nei pressi del Parlamento(Chiesa di S. Domenico) , aspettava una risposta decisiva, ma avendo visto il temporeggiamento, cominciò a tumultuare furiosamente, tanto che i ministri dimissionari furono costretti ad uscire dal palazzo ed esporre le ragioni del loro rifiuto.
Ma il popolo che nutriva loro fiducia; si diede a tumultuare in modo piuttosto violento da dar pensiero ,a quel punto il Torrearsa e Cordova, decisero di ritirare le dimissioni.
Il ministero Torrearsa-Cordova continuò il suo indefesso lavoro, per aiutare la Patria siciliana in pericolo, incaricando Giuseppe La Farina a comprare armi e munizioni in Francia; mentre Filippo Cordova pensava ad aumentare i fondi del tesoro.
Ma quando in si gran frangente, il ministro delle Finanze, si vide diminuita la rendita pubblica, l’opposizione intransigente e quindi contraddittoria del popolo, che non voleva far prendere delle somme dal prestito fatto; stanco dei molti lavori, attorniato da tante responsabilità, si dimise e venne sostituito dal Conte Michele Amari.
Dopo tanti lavori resi alla patria, dopo tante sostenute e sacrifici fatti, ritornò al suo posto di Deputato alla Camera dei Comuni.
In quel tempo fondò un giornale a cui diede il titolo “La luce” con il quale indicò ai fratelli siciliani, come unico faro di salvezza l’Unità d’Italia con capitale ROMA.
Il rifiuto del Duca Ferdinando di Savoia al trono di Sicilia, la presa di Messina, l’avvicinarsi delle truppe borboniche su Catania e molti altri avvenimenti luttuosi che seguirono, furono causa della capitolazione dell’Isola del Fuoco.


il Marchese Vincenzo FARDELLA di TORREARSA
il generale polacco MIEROSLASKI comandante dell’esercito siciliano nel 1849
Sen. Vincenzo CORDOVA – SAVINA
Aidone 1819 - 1894
nipote di Filippo CORDOVA
Vice comandante della Guardia nazionale di PIAZZA-AIDONE

RE FERDINANO II di Borbone

LA LUCE il giornale di Filippo CORDOVA del 1849

Esilio a Torino:
Filippo Cordova essendo stato messo nella lista dei 43 proscritti, per opera del generale borbonico , Carlo Filangieri e per non cadere in mano al nemico, dovette esulare e si recò a Marsiglia, dove stesse poco tempo per passare a Torino città che ospitava madre gli esiliati italiani.
Conosciuto da Massimo d’Azeglio, allora Presidente del gabinetto piemontese,lo volle compagno sulla breccia,e siccome la Camera era stata sciolta col proclama di Moncalieri, gli affidò il delicato incarico di acquietare gli animi degli elettori per mezzo della sua parola.
Il Cordova accettò l’incarico e riuscì nell’intento con l’opuscolo:
“Un criterio per gli elettori del Piemonte”.
Quest’opuscolo gli procurò molti ammiratori, fra i quali, il Re Vittorio Emanuele II,
il Conte Camillo Benso di Cavour, Silvio Pellico e diversi altri.
Collaboratore del Risorgimento, direttore del quale era il Conte di Cavour, con un articolo sulle industrie,
Il Cavour lo volle compagno nel giro delle città industriale del Piemonte, in cui conobbe Alessandro Manzoni, Angelo Brofferio, il Durando e l’abate Antonio Rosmini, (l’autore del Primato degli Italiani)
L’abile politico Conte di Cavour nel 1859, ottenne la Presidenza del nuovo gabinetto per cui affidò al Cordova la direzione del Risorgimento, che funzionò con lo stesso nome, sino a quando fu battezzato “Il Parlamento” per la fusione dei due centri di destra e di sinistra per il cosiddetto connubio l’alleanza politica fra destra liberale di Cavour e la sinistra riformista di Urbano Rattazzi.

Il Primo Ministro del Regno del Piemonte e Sardegna
Massimo D’AZEGLIO

l’abate Antonio ROSMINI

Camillo BENSO Conte di CAVOUR
successore come Primo Ministro del D’AZEGLIO
Alessandro MANZONI
Croce dell’Ordine dei SS. MAURIZIO e LAZZARO
concessa dal RE VITTORIO EMANUELE II a Filippo CORDOVA

Regno d’Italia:
Chiamato a dare lezioni di statistica ed economia politica nel Collegio Nazionale di Torino,diede prova della sua profonda conoscenza in queste due discipline.
Nel 1857 si meritò la croce di SS.. Maurizio e Lazzaro , dono del Re Vittorio Emanuele II, per la pubblicazione di un opuscolo storico.”I Siciliani in Piemonte”e nel 1860 fu nominato da Agostino Depretis Procuratore Generale della gran Corte dei Conti in Sicilia.
Quantunque lontano dalla sua Sicilia, non l’obliò mai,l’isola dei Vespri era sempre nel suo cuore; difatti quando nel Congresso indetto in Russia,i congressisti deliberarono di lasciare la Sicilia e Napoli sotto il dominio borbonico,Filippo Cordova, disse, che la Sicilia ripudiava l’unione al Regno di Napoli, perché sotto il Borbone e se il Congresso non l’avesse tolta dalla schiavitù, si liberava da sé con la Rivoluzione.
Il Congresso non sentì le parole del Cordova e allora la storica campana della Gancia,
il 4 aprile 1860 con i suoi gravi e solenni rintocchi, diede la scintilla per la rivolta.
La notizia che il generale Giuseppe Garibaldi era partito, la notte del 5 maggio dallo scoglio di Quarto con i suoi Mille Eroi “reggendo il timone della nave Piemonte pel mare siciliano alla conquista dei nuovi destini d’Italia” destò ancor più l’entusiasmo.
Filippo Cordova felice di tali avvenimenti, fornì il generale Giuseppe Garibaldi di una carta topografica della Sicilia, per mezzo della fiera e bellissima Contessa Martini con le parole:
”Da restituirsi in Palermo a Filippo Cordova, con una linea del valoroso portatore”






L’eroe dei due mondi il generale Giuseppe GARIBALDI
... la carta gli fu restituita da Giuseppe Garibaldi, e il nipote Vincenzo Cordova la regalò a Francesco
Crispi, che accrebbe il suo museo garibaldino. Cacciati i Borboni dalla Sicilia, incominciarono i dissidi per l’annessione al Regno sabaudo.
La maggioranza era per l’annessione incondizionata ed uno dei più ardenti sostenitori era Giuseppe La Farina.
Per riconciliare gli animi, incaricato anche dal Conte di Cavour, il 23 giugno 1860, partì alla volta di Palermo il Cordova, anche perché era stato nominato Procuratore generale della Gran Corte dei Conti da Agostino Depretis, accompagnato alla stazione da molti amici e fra essi il poeta Giovanni Prati che volle donargli due sonetti, per Lui appositamente scritti.
Partito Garibaldi da Palermo alla volta di Milazzo, fu nominato pro-dittatore Agostino Depretis e Segretario di stato, Francesco Crispi, che mal sopportava la presenza del Cordova perché lo sapeva Arrivato il Depretis a Palermo, in compagnia del Crispi si recò a Milazzo per conferire col Dittatore, a cui il Crispi fece noto l’amicizia che passava tra il Depretis e il Cordova,ed ebbe l’incarico di sorvegliarli.
Intanto le lettere del Cavour sollecitavano l’annessione, com’era rimasto col Cordova, che aveva già ottenuto l’assicurazione della maggior parte dei consessi delle città e dei paesi dell’isola.
Crispi venuto a conoscenza dell’operato del Cordova avvisò il Dittatore che lo chiamò a Napoli per discolparsi.
Egli partì accompagnato da Rosario Profeta Boscarini, ma giunto a Napoli, prima ancora di fare la sua discolpa, gli arrivò il decreto di espulsione.
Filippo Cordova allora riprese per la seconda volta la via dell’esilio, ma prima di lasciare Napoli, scrisse una lettera diretta al Dittatore, copia della quale l’ebbe il Profeta, che prima di partire anche lui, alla volta di Palermo, la fece pubblicare nel giornale 
“Il Nomade". 
Il Pro-dittatore della SICILIA nel 1860 Agostino DE PRETIS
RE VITTORIO EMANUELE II
Francesco CRISPI - Segretario del Governo Dittatoriale di GARIBALDI nel 1860
Rosolino PILO-GIOIENI amico fraterno di Vincenzo CORDOVA
Gli Stati pre-unitari dell’ITALIA nel 1860


Attività Politica
Dopo l’annessione delle Due Sicilie al Regno di Vittorio Emanuele, fù istituita in Palermo la Luogotenenza generale, con il marchese Cordero di Montezemolo e consiglieri Filippo Cordova e
Giuseppe La Farina.
Il Cordova però non volle stare a lungo in quell’ufficio, causa le persecuzioni e gli arresti che il
La Farina ordinava e ritornò a Torino dove fu nominato segretario al Ministero delle finanze,
prima col Seghezzi e poi col Bastogi.
Il 27 gennaio 1861 furono convocati i comizi per le elezioni politiche, e apertosi il Parlamento italiano il 12 febbraio, Filippo Cordova si presentò alla Camera dei Deputati, quale rappresentante di tre collegi: Siracusa, Caltanissetta e Caltagirone e il 20 maggio optò per quest’ultimo in seguito a sorteggio, sicchè Caltanissetta e Siracusa rimasero senza rappresentante.
La città di Siracusa però memore e grata al Cordova, per l’opzione per l’eloquente discorso pronunziato alla Camera, due giorni prima l’opzione per Caltagirone, per il quale le fu ridato l’antico posto di capo luogo di Provincia al posto di Noto e perché il collegio aveva bisogno di un uomo autorevole di un parlamentare esperto, d’un oratore preclaro per sostenere in Parlamento i diritti di Siracusa e gli elettori con intendimenti onestissimi e con animo puro, scelsero Filippo Cordova, (ma il Cordova optò ancora una volta per Caltagirone).

Il primo Ministro Camillo BENSO Conte di CAVOUR
donò la sua divisa Ministeriale all’amico fraterno CORDOVA
indicandolo al RE Vittorio Emanule II come l’uomo che doveva reggere l’ITALIA
Collare dell’ANNUNZIATA dei SAVOIA
concesso al Ministro Filippo CORDOVA


Morto il 6 giugno 1861 il Conte di Cavour,per dimostrare la fraterna amicizia che passava tra lui ed il Cordova, volle lasciargli la sua uniforme di Ministro, addittandolo così a Vittorio Emanuele II e all’Italia suo successore.
Il Cordova però consigliò il Re Vittorio Emanuele II di chiamare il Barone Bettino Ricasoli, che a sua volta chiamò il Cordova al Dicastero d’industria e commercio. e qui operò dal
12 giugno 1861 al 3 marzo 1862
Come Ministro istituì la Divisione di statistica (l’attuale ISTAT diventata nel tempo il vero quadro dell’economia e popolazione italiana )
Occorre precisare che il Cordova faceva parte della loggia Ausonia del Grande Oriente d’Italia e ricoprì la carica Gran Maestro (33° grado) per ben due volte dal 1/3/1862 al 6/8/1863 e dal 21/6/1867 al 2/8/1867 battendo addirittura Giuseppe Garibaldi , la fiducia posta dal
Re Vittorio Emanuele II era quasi illimitata.
Quando si discusse il progetto per la distruzione della Pineta di Ravenna, fu il solo Cordova che sostenne la discussione con parere contrario alla distruzione, e fu si eloquente la sua dimostrazione che il progetto venne annullato.
Dimessosi da Ministro, per ragioni di salute e con lui tutto il Ministero, nel 1862 ricomparve con Urbano Rattazzi al Dicastero di Grazia e Giustizia, ma lasciò dopo breve tempo
( dal 3/3/1862 al 7/4/1862) anche quel portafogli, per non fare un torto all’amico fraterno
il Barone Bettino Ricasoli.
Nello stesso anno veniva nominato Consigliere di Stato, e dopo i luttuosi fatti di Torino per lo spostamento della capitale a Firenze che molto addolorarono Vittorio Emanuele II , ebbe la Presidenza della Commissione che doveva provvedere alle Finanze dello Stato.
Nel 1866 per espressa preghiera del Re, ritornò al Ministero con Bettino Ricasoli col suo preferito portafogli dell’Agricoltura, industria e commerci, ma vi siede poco tempo. e svolse l’attività di Ministro di Grazia .Giustizia e per i Culti dal 24/3/1867 al 10/4/1867 .
Caduto il Gabinetto Ricasoli II a formare il nuovo fu chiamato nuovamente il Barone,
che memore dell’ottima collaborazione del Cordova, ancora una volta lo chiamò a far parte dell’amministrazione ma il Cordova si rifiutò; ricomposto da Urbano Rattazzi anche lui chiamò il Cordova ma questi si rifiutò di nuovo e nel 1867 ancora al Menabrea.
Nel 1868 accettò la presidenza della Commissione per l’inchiesta del corso forzoso, facendo vedere alla Nazione ch’Egli voleva ancora lavorare per la sua prosperità.
Nel breve periodo che sedette alla Camera, sino alla sua morte, sferzò a sangue, gli speculatori della cosa pubblica, con discorsi pronunziati nell’alta assemblea.
Ottenuta la legge sul “Catenaccio” le banche, le società nazionali ed estere si sollevarono contro di Lui, ma il Cordova non ebbe paura e continuò imperterrito, animato da sentimenti italianissimi, l’opera sua patriottica.
 
Il primo Ministro Urbano RATTAZZI
Il Ricordo
Dopo poco più di trentenni di vita politica e battagliera, proscritto ed esiliato, Deputato e Ministro alto magistrato e Commendatore, dopo aver dato tutto l’aiuto del suo grande ingegno alla patria che vide quasi una, il 16 settembre 1868 moriva sulla breccia, come il soldato al suo posto di combattimento. Non mutò mai la sua fede politica e seguì sino all’ultimo anelito gli esempi del grande statista torinese. Oratore profondo e solenne, sdegnava i riempitivi inconcludenti; resse i più alti uffici dello Stato con dignità veramente aristocratica del gentiluomo compito e con l’acume competente dello studioso, della mente e l’ingegno versatile alle più alte discipline, della vasta cultura senza lacune. Scese nella tomba alla giovane età di 57 anni e con Lui l’ITALIA perse uno dei migliori campioni dell’oratoria. Le sue ceneri riposano a S. Miniato in Firenze,ma nessuna lapide ricorda il suo nome illustre, mentre altri poco o niente noti,nel mondo letterario e politico, sono ricordati con solennità. Questo oblio non valse a cancellare dalla memoria di chi amò e sentì il dovere di ricordare lo statista aidonese, per rendere immortale il suo nome, la sua dottrina, le sue gesta politiche e rivoluzionarie.
Caltanissetta memore del suo illustre concittadino, per la prima gli eresse un mezzobusto in marmo e ornò un giardino che si onora del suo nome.
Caltagirone grata al suo primo rappresentante alla Camera italiana, diede il suo nome ad una delle strade principali, e quantunque troppo poco, ebbe il delicato pensiero del ricordo.
Nella tornata del 26 novembre 1868 a Firenze , il Presidente della Camera dei Deputati,
l’avv. Adriano Mari, commemorò con un lusinghiero ed erudito discorso, Filippo Cordova.
Alla fine dell’eloquente e veritiero discorso del Presidente seguì un profondo e religioso silenzio, persino nel banco ministeriale,e quel silenzio dimostrò all’Italia, come l’immatura perdita di Filippo Cordova, lasciò un largo vuoto nella rappresentanza nazionale.
Ricordarono pure la sua vita, il Comm. Matteo Raeli, Consigliere di Stato come collega, l’onorevole Giuseppe Massari segretario della Camera come rappresentante di quest’ultima e il Comm.
De Cesare, con dei discorsi pronunziati alla presenza del feretro, e raccolti religiosamente furono da un amico del Cordova pubblicati,mentre il Parlamento Italiano più tardi gli decretava un monumento nazionale al Pincio, fra gli uomini illustri italiani.
E AIDONE, la patria natia dell’illustre statista, non avendo potuto rendere prima immortale, la gloriosa figura del suo più illustre figlio, l’aveva ricordato con una lapide posta sulla facciata della casa ove Egli nacque.
Ma pochi anni or sono, sorse un Comitato d’intelligenti cittadini, animati da squisiti sentimenti patriottici, col fine di erigere un monumento in bronzo all’illustre statista.
A quest’opera patriottica, contribuirono, oltre a molti Deputati, il Governo e
S.M. Vittorio Emanuele III.
 
Il Presidente della Camera avv. Adriano MARI
Finalmente dopo tante aspettative, il Comitato permanente potè dare la commissione allo scultore Prof. Mario Rutelli, che ci diede un mezzo busto La Massoneria italiana, memore del Gran maestro, in occasione dell’inaugurazione del mezzobusto, mandò una bella ghirlanda di rami e foglie di quercia in bronzo con la scritta: Al gran Maestro Filippo Cordova la Massoneria italiana”. Il 20 settembre 1913, nel giorno immortale della presa di Roma, s’inaugurò il monumento posto nel centro della Piazza che prende il nome del Cordova, ornata da diversi gonfaloni e bandiere. La commovente cerimonia resterà scolpita nei cuori dei presenti, specialmente quando scoperto il monumento, fu salutato con grida di “Viva Filippo Cordova “ e da fragorosi applausi, mentre la musica intonava l’Inno reale, e i più canuti capi si scoprivano riverenti, Ricordarono, con applauditi discorsi, la vita del Cordova, l’avv. Enrico Capra, Ugo Filippo Mascari, Gaetano De Arena e la sera, la patriottica festa, fu coronata da un sobrio ed erudito discorso, letto dal professore Francesco Guardione appositamente venuto da Palermo. Dell’illustre figlio, Aidone conserva le sue ultime reliquie; presso la biblioteca comunale in parte dimezzata, e alcuni cimeli; l’uniforme del Conte di Cavour col rispettivo spadino d’argento, l’uniforme di Lui che posti in uno scaffale, ornano la sala del Consiglio, e un bel medaglione in marmo, regalo della città di Caltanissetta dove trovasi scolpita la sua effigie. Il Primo Ministro Camillo Benso di Cavour a Lui intimo e compagno nel giornalismo lo definì: ”il più importante uomo dell’Italia meridionale, destinato a reggere la finanza nazionale”, Giuseppe La Farina, compagno negli anni 1848-49 e 1860-61 ” d’ingegno potente, di volontà indomabile, di memoria prodigiosa, di eloquenza inesauribile”; Quintino Sella “il primo ingegno d’Italia “e Bettino Ricasoli lo chiamò “Degno per la sua facondia e talenti, disposizione eminentissima in Parlamento” Il Presidente della Camera Adriano Mari” il più vigoroso atleta nelle lotte parlamentari”mentre il sarcastico Petruccelli della Gattina ”l’uomo politico dell’avvenire d’Italia, l’organizzazione la più completa dell’uomo di Stato italiano” Francesco Domenico Guerrazzi “L’uomo dell’ammirabile vasta dottrina e della favella inesauribile “ Rossi “stella polare, vindice delle ingiustizie portate alla nazione, organo autorevole dei lamenti e dei diritti della medesima” e Giuseppe Saracco” il gran Ministro decoro d’Italia”. 

I piroscafi, il Vesuvio e il Naufragio del Tirrenia


5. Torre del Greco

Nel 1861 un’eruzione «punì» i patrioti campani. Ora sotto il vulcano la terra trema per l'agonia della compagnia

«Quel dì 8 dicembre fu sacro a maggiore sventura. A Torre del Greco celebrandosi la festa all’Immacolata, i camorristi italianissimi… ». Proprio così lo storico borbonico Giacinto De Sivo chiama gli irredentisti unitari che in quegli scorci finali del 1861 ebbero la pensata blasfema di festeggiare la raggiunta Unità nazionale coprendo la statua della Madonna con una banda biancorossoverde: «camorristi italianissimi». Come avevano potuto osare tanto? «Svestirono la Vergine, e sacrìlegamente l'addobbarono di massoniche insegne, con la tricolorata fascia, a guisa de' loro delegati politiotti. E sì volean menarla a processione, e ’l facevano, e un gastigo di Dio all'ora stessa noi vietava». Ma ci pensò il Vesuvio, continua il cronista nella sua «Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861», a vendicare l’oltraggio: «Limpido era il cielo, dolce l'aere, poco mancava al meriggio, quando improvvisamente sotterranee scosse e frequenti, pria lievi, poi gravi, travagliano la vesuviana mole. Mugghia il monte e geme, sinché sull'ore tre con gran fracasso si squarcia ne' fianchi, e gitta nugoli di smisurato fumo, ch'alzatosi alla vetta, a forma d'immenso pino lo copre». Era la prova che Maria di Nazareth stava irritata assaie: un botto tremendo e il Vesuvio seppellì Torre del Greco sotto la cenere, provocò l’innalzamento della città di un metro e mezzo e prese a sversare lungo i fianchi una minacciosissima colata di lava che per due giorni scese e scese fermando a tutti il respiro. Finché, miracolo, la grande collera del vulcano borbonico si placò, le case furono salve, le anime pie ringraziarono la santa Vergine d’aver avuto pietà. E da allora ogni 8 dicembre la processione si ripete festosa e imponente in un tripudio di canti, balli, putipù, scetavajasse e triccheballacche. Certo è che da allora la Madonna di Santa Croce, insieme con quella del Portosalvo («O Dio, Tu che volesti che la Vergine Maria, la Santissima Madre del Figlio Tuo, brillasse come una Stella del Mare e fosse di aiuto a noi sbattuti fra i flutti… ») non ha cessato un solo istante di proteggere i marinai di queste terre. E se il buon Gesù a Cana moltiplicò i pani e i pesci, Ella (sia detto con rispetto) è andata oltre. A Torre del Greco ha moltiplicato negli anni i dipendenti della Tirrenia.
Uno su due vivono qui. E pesano sulle pubbliche casse la bellezza di 87.453 euro di buco finanziario l’anno. Per capirci: il triplo di quanto perdeva per ogni addetto un carrozzone quale la vecchia Alitalia. Direte: a parte la processione blasfema con l’Immacolata tricolorizzata, che c’entra il Risorgimento con questa città a una quindicina di chilometri da via Partenope che già sotto Gioacchino Murat era la terza città del Regno di Napoli? C’entra. A partire dalla storia di Giovanni Francesco Bottiglieri che, stando a quanto si racconta in famiglia da un secolo e mezzo, avrebbe prestato ai garibaldini un po’ di battelli di appoggio alla spedizione dei Mille. Perché non risulta da nessuna parte? Perché il bisnonno, rispondono per bocca di Grazia Bottiglieri Rizzo i pronipoti che possiedono una trentina fra petroliere e bulk carrier e le acque minerali Sangemini, «non voleva dare un dispiacere al parroco ». Al parroco! Una leggenda? Può essere. Ma certo qui, nel cuore del regno borbonico, la vita non doveva essere facile per i sostenitori della causa italiana. Basti ricordare Antonio Ranieri, diffidato per le sue idee unitarie, costretto per anni a tenersi alla larga dall'area vesuviana. Futuro deputato al parlamento italiano, Ranieri era amico di Giacomo Leopardi. Al punto che fu lui a ospitare il poeta nei suoi ultimi mesi di vita, nella villa di Torre del Greco dove vennero composte le liriche «La Ginestra» e «Il tramonto della luna». E ancora qui, in questa città che avrebbe avuto in seguito il titolo di «Leopardiana», sarebbe stata armata la mano di Agesilao Milano, il soldato calabrese che l’8 dicembre 1856 (di nuovo l’8 dicembre!) tentò di assassinare Re Ferdinando II mentre passava in rassegna le truppe a Napoli, nel Campo di Marte, dopo la messa dell’Immacolata. Condannato alla pena capitale, morì il 13 dicembre. Impiccato dopo aver gridato: «Io muoio martire! Viva l’Italia! Viva l’indipendenza dei popoli». E in ogni caso è qui che va a finire la lunghissima e travagliata navigazione della flotta commerciale italiana che ebbe come primi protagonisti risorgimentali quei piroscafi Piemonte e Lombardo che, forniti dall’armatore genovese Raffaele Rubattino, salparono da Quarto.
Centocinquant’anni dopo quella terrificante eruzione del 1861 la terra, qui a Torre del Greco, ha ricominciato a tremare: la Tirrenia è in ballo per la privatizzazione. Senza sussidi pubblici avrebbe chiuso il bilancio 2008 in perdita per 246 milioni di euro: appunto 87.453 euro per ognuno dei 2.815 dipendenti. Il tira e molla è durato anni, ma ora a quanto pare ci siamo. Il segnale? Si è rassegnato perfino il padre-padrone della compagnia pubblica, Franco Pecorini. Gentiluomo di Sua sanità, amministratore delegato dal 1984, inamovibile come un paracarro per un quarto di secolo, confermato via via da 19 governi della prima e della seconda repubblica, di sinistra e di destra, Pecorini ha trovato un altro lavoro. Adesso è presidente della Ital Brokers, compagnia di brokeraggi. Chi è il suo principale cliente? La Tirrenia. Chiederete: possibile? Tutto è possibile. Tutto. E da queste parti ancora di più. A Torre del Greco, per dire, Silvio Berlusconi e Antonio Di Pietro sono stati non solo meno nemici ma addirittura alleati. Il sindaco Ciro Borriello, ex deputato di Forza Italia, dopo una lunga traversata del deserto era approdato all’Italia dei valori. E come dipietrista aveva vinto le comunali del 2007, ritrovandosi a capo di una giunta macedonia con assessori azzurri e dell’Idv. Ed erano ancora insieme, berlusconiani e dipietristi, solo pochi mesi fa, quando Di Pietro accusava Berlusconi di «voler far tornare il fascismo in Italia» e il Cavaliere bollava l’ex pm di Mani pulite con l’epiteto di «ricattatore». Poi Borriello ha deciso di tornare a Canossa, ha scaricato i dipietristi e si è candidato alle prossime regionali con il Pdl, al fianco di quel sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino che il suo ex leader Antonio Di Pietro avrebbe voluto consegnare alla magistratura. Coerenze.
Il sogno di Mussolini di creare una grande flotta pubblica sotto il controllo del governo è realtà. Fatto questo, è ora di pensare ai marinai. Una specie di «contratto» della gente di mare degno di tal nome c’è già da 13 anni. È il «Patto marino» siglato nel 1923, per conto del governo di Benito Mussolini, da un delegato d’eccezione: Gabriele D’Annuzio. Ma è nel 1937 che si arriva a un vero e proprio contratto dei dipendenti della flotta pubblica. I transatlantici erano il biglietto da visita dell’Italia all’estero, un po’ come l’Alitalia in seguito. Ufficiali e marinai dovevano essere di bella presenza e alti non meno di un metro e settanta. Avevano stipendi superiori mediamente del 30% rispetto ai privati e condizioni di lavoro migliori. Come sia finita si può immaginare: diritti acquisiti. Basti ricordare che l’ultimo aggiornamento del contratto mussoliniano è del 1985. E che alla Tirrenia ci sono ancora 80 ufficiali che beneficiano di quelle disposizioni. Il canto del cigno fu quello delle due navi gemelle Michelangelo e Raffaello, varate fra il 1962 e il 1963. Lussuosissime, avevano costi astronomici e dopo appena una decina d’anni finirono in disarmo. Per essere infine vendute nel 1976 allo scià Reza Palhevi. Ancorate nel porto di Bandar Abbas e adibite ad alloggi galleggianti. Una vecchiaia malinconica. Prima della fine: la Raffaello venne bombardata e affondata dall’aviazione irachena durante la guerra fra Iran e Iraq. La Michelangelo fu demolita dai pachistani. L’epoca dei grandi transatlantici era penosamente archiviata. L’Italia di navigazione fu ceduta ai cinesi della Evergreen, mentre il Lloyd triestino finì alla D’Amico. Alla Finmare restarono l’Adriatica e la Tirrenia, che nel 2004 avrebbe incorporato la società veneziana. Da allora la Tirrenia ha retto il peso dei marittimi di Torre del Greco. Ma è servita anche per creare posti di lavoro inutili, aiutare i cantieri in debito d’ossigeno, dare una mano ai fornitori. Un grande ammortizzatore sociale, che ha funzionato anche con il sostegno della Cassa marittima. Capita regolarmente che i marinai della Tirrena lavorino tre mesi d’estate e poi godano di lunghissimi periodi di malattia, pagati il 75% del salario. Un meccanismo accettato come normale: nessuno ha mai sollevato il problema.
Quanti soldi pubblici lo Stato abbia riversato da 25 anni a questa parte nella Tirrenia non lo sa nessuno. Non meno di 5 miliardi in valuta attuale. Dicono i difensori: le navi devono camminare anche d’inverno a prezzi accettabili, quale privato potrebbe farlo? Il fatto è che i sussidi non sono serviti solo a coprire i costi di questi servizi in perdita. Ma anche per investimenti quanto meno discutibili. Come quello delle quattro navi veloci comprate fra la metà e la fine degli anni 90, pagate l’equivalente di 270 milioni di euro di oggi e rimaste quasi sempre in banchina: consumano così tanto che costa meno tenerle ancorate che farle navigare. Dicono: quella operazione è servita a far lavorare un po’ la Fincantieri. Vero. Ma aveva senso? No, che non ce l’aveva. Se proprio si doveva far lavorare la Fincantieri, tanto valeva spendere quei soldi per fare dei traghetti meno veloci ma almeno utilizzabili: o no? Troppi debiti, troppi marinai, troppe mezzemaniche: fra i 2.815 addetti, gli amministrativi sono 400. Uno ogni sette. Con un costo mediamente superiore del 30-40% a quello dei dipendenti privati grazie a una contrattazione integrata generosa. E navi non proprio giovani. Il gruppo ne ha 72: quelle che hanno meno di dieci anni sono 20. C’è qualche proprietà immobiliare, vero: un immobile affittato ad Alessandria D’Egitto, eredità della compagnia veneziana, la sede di Napoli, il palazzo dell’Adriatica a Venezia… Ma sono ipotecati. Insomma, una situazione complicata. Chi mai avrebbe potuto comprare un’azienda così? Fatto sta che si sarebbe andati avanti chissà per quanto se l’Unione europea non avesse detto basta.
Basta al vecchio sistema degli aiuti: cessione obbligatoria. Già, ma a chi? Idea: un passaggio di mano dal pubblico al pubblico. Dallo Stato alle Regioni. La Tirrena controllava quattro società: Caremar per le linee campane-laziali, Toremar per quelle toscane, Saremar per quelle sarde e Siremar per quelle siciliane. Soluzione: una cessione a titolo gratuito. Risultato? Prendiamo la Caremar. Passata alle regioni, è stata già sdoppiata: Corema, rimasta alla Campania, e Laziomar, trasferita alla Regione Lazio. Due società, due consigli di amministrazione, due staff di dirigenti… Senza che il flusso di fondi pubblici si interrompa. Avranno dallo Stato 30 milioni l’anno ancora per 12 anni: 20 a Corema e 10 a Laziomar. L’unica regione che non ha accettato di prendersi gratis il suo pezzo di Tirrenia è quella siciliana. Ma non perché Raffaele Lombardo non voglia la Siremar. La verità è che medita il colpo gobbo. Comprare tutto quanto insieme, Tirrenia e Siremar: l’affare vale 570 milioni di sovvenzioni pubbliche nei prossimi otto anni. Fra le 16 manifestazioni d’interesse che sono arrivate c’è infatti pure l’offerta di Mediterranea, una società fra la Regione siciliana, il fondo Cape di Simone Cimino e un armatore privato. Il suo nome: Salvatore Lauro, ex senatore di Forza Italia, titolare della Alilauro, fondata da suo padre Agostino che cominciò coi mezzi da sbarco comprati dagli americani dopo la guerra. Fatto sta che per ora gli unici privati ad aver fatto affari con la Tirrenia sono stati i banchieri. Nel 2004 il Tesoro controllava attraverso Fintecna l’85%. Il restante 15%, per favorire l’ingresso dei privati attraverso la conversione in titoli azionari di un prestito obbligazionario, ce l’aveva Mediobanca. Alla scadenza del prestito, però, nessuno volle le azioni di quella specie di carrozzone navale. E il Tesoro ricomprò tutto.
Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella
01 maggio 2010