5. Torre del Greco
Nel 1861 un’eruzione «punì» i patrioti campani. Ora sotto il vulcano la terra trema per l'agonia della compagnia
«Quel dì 8 dicembre fu sacro a maggiore sventura. A Torre del Greco celebrandosi la festa all’Immacolata, i camorristi italianissimi… ». Proprio così lo storico borbonico Giacinto De Sivo chiama gli irredentisti unitari che in quegli scorci finali del 1861 ebbero la pensata blasfema di festeggiare la raggiunta Unità nazionale coprendo la statua della Madonna con una banda biancorossoverde: «camorristi italianissimi». Come avevano potuto osare tanto? «Svestirono la Vergine, e sacrìlegamente l'addobbarono di massoniche insegne, con la tricolorata fascia, a guisa de' loro delegati politiotti. E sì volean menarla a processione, e ’l facevano, e un gastigo di Dio all'ora stessa noi vietava». Ma ci pensò il Vesuvio, continua il cronista nella sua «Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861», a vendicare l’oltraggio: «Limpido era il cielo, dolce l'aere, poco mancava al meriggio, quando improvvisamente sotterranee scosse e frequenti, pria lievi, poi gravi, travagliano la vesuviana mole. Mugghia il monte e geme, sinché sull'ore tre con gran fracasso si squarcia ne' fianchi, e gitta nugoli di smisurato fumo, ch'alzatosi alla vetta, a forma d'immenso pino lo copre». Era la prova che Maria di Nazareth stava irritata assaie: un botto tremendo e il Vesuvio seppellì Torre del Greco sotto la cenere, provocò l’innalzamento della città di un metro e mezzo e prese a sversare lungo i fianchi una minacciosissima colata di lava che per due giorni scese e scese fermando a tutti il respiro. Finché, miracolo, la grande collera del vulcano borbonico si placò, le case furono salve, le anime pie ringraziarono la santa Vergine d’aver avuto pietà. E da allora ogni 8 dicembre la processione si ripete festosa e imponente in un tripudio di canti, balli, putipù, scetavajasse e triccheballacche. Certo è che da allora la Madonna di Santa Croce, insieme con quella del Portosalvo («O Dio, Tu che volesti che la Vergine Maria, la Santissima Madre del Figlio Tuo, brillasse come una Stella del Mare e fosse di aiuto a noi sbattuti fra i flutti… ») non ha cessato un solo istante di proteggere i marinai di queste terre. E se il buon Gesù a Cana moltiplicò i pani e i pesci, Ella (sia detto con rispetto) è andata oltre. A Torre del Greco ha moltiplicato negli anni i dipendenti della Tirrenia.
Uno su due vivono qui. E pesano sulle pubbliche casse la bellezza di 87.453 euro di buco finanziario l’anno. Per capirci: il triplo di quanto perdeva per ogni addetto un carrozzone quale la vecchia Alitalia. Direte: a parte la processione blasfema con l’Immacolata tricolorizzata, che c’entra il Risorgimento con questa città a una quindicina di chilometri da via Partenope che già sotto Gioacchino Murat era la terza città del Regno di Napoli? C’entra. A partire dalla storia di Giovanni Francesco Bottiglieri che, stando a quanto si racconta in famiglia da un secolo e mezzo, avrebbe prestato ai garibaldini un po’ di battelli di appoggio alla spedizione dei Mille. Perché non risulta da nessuna parte? Perché il bisnonno, rispondono per bocca di Grazia Bottiglieri Rizzo i pronipoti che possiedono una trentina fra petroliere e bulk carrier e le acque minerali Sangemini, «non voleva dare un dispiacere al parroco ». Al parroco! Una leggenda? Può essere. Ma certo qui, nel cuore del regno borbonico, la vita non doveva essere facile per i sostenitori della causa italiana. Basti ricordare Antonio Ranieri, diffidato per le sue idee unitarie, costretto per anni a tenersi alla larga dall'area vesuviana. Futuro deputato al parlamento italiano, Ranieri era amico di Giacomo Leopardi. Al punto che fu lui a ospitare il poeta nei suoi ultimi mesi di vita, nella villa di Torre del Greco dove vennero composte le liriche «La Ginestra» e «Il tramonto della luna». E ancora qui, in questa città che avrebbe avuto in seguito il titolo di «Leopardiana», sarebbe stata armata la mano di Agesilao Milano, il soldato calabrese che l’8 dicembre 1856 (di nuovo l’8 dicembre!) tentò di assassinare Re Ferdinando II mentre passava in rassegna le truppe a Napoli, nel Campo di Marte, dopo la messa dell’Immacolata. Condannato alla pena capitale, morì il 13 dicembre. Impiccato dopo aver gridato: «Io muoio martire! Viva l’Italia! Viva l’indipendenza dei popoli». E in ogni caso è qui che va a finire la lunghissima e travagliata navigazione della flotta commerciale italiana che ebbe come primi protagonisti risorgimentali quei piroscafi Piemonte e Lombardo che, forniti dall’armatore genovese Raffaele Rubattino, salparono da Quarto.
Centocinquant’anni dopo quella terrificante eruzione del 1861 la terra, qui a Torre del Greco, ha ricominciato a tremare: la Tirrenia è in ballo per la privatizzazione. Senza sussidi pubblici avrebbe chiuso il bilancio 2008 in perdita per 246 milioni di euro: appunto 87.453 euro per ognuno dei 2.815 dipendenti. Il tira e molla è durato anni, ma ora a quanto pare ci siamo. Il segnale? Si è rassegnato perfino il padre-padrone della compagnia pubblica, Franco Pecorini. Gentiluomo di Sua sanità, amministratore delegato dal 1984, inamovibile come un paracarro per un quarto di secolo, confermato via via da 19 governi della prima e della seconda repubblica, di sinistra e di destra, Pecorini ha trovato un altro lavoro. Adesso è presidente della Ital Brokers, compagnia di brokeraggi. Chi è il suo principale cliente? La Tirrenia. Chiederete: possibile? Tutto è possibile. Tutto. E da queste parti ancora di più. A Torre del Greco, per dire, Silvio Berlusconi e Antonio Di Pietro sono stati non solo meno nemici ma addirittura alleati. Il sindaco Ciro Borriello, ex deputato di Forza Italia, dopo una lunga traversata del deserto era approdato all’Italia dei valori. E come dipietrista aveva vinto le comunali del 2007, ritrovandosi a capo di una giunta macedonia con assessori azzurri e dell’Idv. Ed erano ancora insieme, berlusconiani e dipietristi, solo pochi mesi fa, quando Di Pietro accusava Berlusconi di «voler far tornare il fascismo in Italia» e il Cavaliere bollava l’ex pm di Mani pulite con l’epiteto di «ricattatore». Poi Borriello ha deciso di tornare a Canossa, ha scaricato i dipietristi e si è candidato alle prossime regionali con il Pdl, al fianco di quel sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino che il suo ex leader Antonio Di Pietro avrebbe voluto consegnare alla magistratura. Coerenze.
Il sogno di Mussolini di creare una grande flotta pubblica sotto il controllo del governo è realtà. Fatto questo, è ora di pensare ai marinai. Una specie di «contratto» della gente di mare degno di tal nome c’è già da 13 anni. È il «Patto marino» siglato nel 1923, per conto del governo di Benito Mussolini, da un delegato d’eccezione: Gabriele D’Annuzio. Ma è nel 1937 che si arriva a un vero e proprio contratto dei dipendenti della flotta pubblica. I transatlantici erano il biglietto da visita dell’Italia all’estero, un po’ come l’Alitalia in seguito. Ufficiali e marinai dovevano essere di bella presenza e alti non meno di un metro e settanta. Avevano stipendi superiori mediamente del 30% rispetto ai privati e condizioni di lavoro migliori. Come sia finita si può immaginare: diritti acquisiti. Basti ricordare che l’ultimo aggiornamento del contratto mussoliniano è del 1985. E che alla Tirrenia ci sono ancora 80 ufficiali che beneficiano di quelle disposizioni. Il canto del cigno fu quello delle due navi gemelle Michelangelo e Raffaello, varate fra il 1962 e il 1963. Lussuosissime, avevano costi astronomici e dopo appena una decina d’anni finirono in disarmo. Per essere infine vendute nel 1976 allo scià Reza Palhevi. Ancorate nel porto di Bandar Abbas e adibite ad alloggi galleggianti. Una vecchiaia malinconica. Prima della fine: la Raffaello venne bombardata e affondata dall’aviazione irachena durante la guerra fra Iran e Iraq. La Michelangelo fu demolita dai pachistani. L’epoca dei grandi transatlantici era penosamente archiviata. L’Italia di navigazione fu ceduta ai cinesi della Evergreen, mentre il Lloyd triestino finì alla D’Amico. Alla Finmare restarono l’Adriatica e la Tirrenia, che nel 2004 avrebbe incorporato la società veneziana. Da allora la Tirrenia ha retto il peso dei marittimi di Torre del Greco. Ma è servita anche per creare posti di lavoro inutili, aiutare i cantieri in debito d’ossigeno, dare una mano ai fornitori. Un grande ammortizzatore sociale, che ha funzionato anche con il sostegno della Cassa marittima. Capita regolarmente che i marinai della Tirrena lavorino tre mesi d’estate e poi godano di lunghissimi periodi di malattia, pagati il 75% del salario. Un meccanismo accettato come normale: nessuno ha mai sollevato il problema.
Quanti soldi pubblici lo Stato abbia riversato da 25 anni a questa parte nella Tirrenia non lo sa nessuno. Non meno di 5 miliardi in valuta attuale. Dicono i difensori: le navi devono camminare anche d’inverno a prezzi accettabili, quale privato potrebbe farlo? Il fatto è che i sussidi non sono serviti solo a coprire i costi di questi servizi in perdita. Ma anche per investimenti quanto meno discutibili. Come quello delle quattro navi veloci comprate fra la metà e la fine degli anni 90, pagate l’equivalente di 270 milioni di euro di oggi e rimaste quasi sempre in banchina: consumano così tanto che costa meno tenerle ancorate che farle navigare. Dicono: quella operazione è servita a far lavorare un po’ la Fincantieri. Vero. Ma aveva senso? No, che non ce l’aveva. Se proprio si doveva far lavorare la Fincantieri, tanto valeva spendere quei soldi per fare dei traghetti meno veloci ma almeno utilizzabili: o no? Troppi debiti, troppi marinai, troppe mezzemaniche: fra i 2.815 addetti, gli amministrativi sono 400. Uno ogni sette. Con un costo mediamente superiore del 30-40% a quello dei dipendenti privati grazie a una contrattazione integrata generosa. E navi non proprio giovani. Il gruppo ne ha 72: quelle che hanno meno di dieci anni sono 20. C’è qualche proprietà immobiliare, vero: un immobile affittato ad Alessandria D’Egitto, eredità della compagnia veneziana, la sede di Napoli, il palazzo dell’Adriatica a Venezia… Ma sono ipotecati. Insomma, una situazione complicata. Chi mai avrebbe potuto comprare un’azienda così? Fatto sta che si sarebbe andati avanti chissà per quanto se l’Unione europea non avesse detto basta.
Basta al vecchio sistema degli aiuti: cessione obbligatoria. Già, ma a chi? Idea: un passaggio di mano dal pubblico al pubblico. Dallo Stato alle Regioni. La Tirrena controllava quattro società: Caremar per le linee campane-laziali, Toremar per quelle toscane, Saremar per quelle sarde e Siremar per quelle siciliane. Soluzione: una cessione a titolo gratuito. Risultato? Prendiamo la Caremar. Passata alle regioni, è stata già sdoppiata: Corema, rimasta alla Campania, e Laziomar, trasferita alla Regione Lazio. Due società, due consigli di amministrazione, due staff di dirigenti… Senza che il flusso di fondi pubblici si interrompa. Avranno dallo Stato 30 milioni l’anno ancora per 12 anni: 20 a Corema e 10 a Laziomar. L’unica regione che non ha accettato di prendersi gratis il suo pezzo di Tirrenia è quella siciliana. Ma non perché Raffaele Lombardo non voglia la Siremar. La verità è che medita il colpo gobbo. Comprare tutto quanto insieme, Tirrenia e Siremar: l’affare vale 570 milioni di sovvenzioni pubbliche nei prossimi otto anni. Fra le 16 manifestazioni d’interesse che sono arrivate c’è infatti pure l’offerta di Mediterranea, una società fra la Regione siciliana, il fondo Cape di Simone Cimino e un armatore privato. Il suo nome: Salvatore Lauro, ex senatore di Forza Italia, titolare della Alilauro, fondata da suo padre Agostino che cominciò coi mezzi da sbarco comprati dagli americani dopo la guerra. Fatto sta che per ora gli unici privati ad aver fatto affari con la Tirrenia sono stati i banchieri. Nel 2004 il Tesoro controllava attraverso Fintecna l’85%. Il restante 15%, per favorire l’ingresso dei privati attraverso la conversione in titoli azionari di un prestito obbligazionario, ce l’aveva Mediobanca. Alla scadenza del prestito, però, nessuno volle le azioni di quella specie di carrozzone navale. E il Tesoro ricomprò tutto.
Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella
01 maggio 2010
01 maggio 2010
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