mercoledì 22 settembre 2010

Il rogo delle case e 400 morti che nessuno vuole ricordare

32. pontelandolfo

Un paese dimenticato chiede che lo Stato italiano nato dal Risorgimento, nel quale si riconosce, riconosca a sua volta lo spaventoso massacro del 14 agosto 1861

Il rogo delle case e 400 morti che nessuno vuole ricordare
Un paese dimenticato chiede che lo Stato italiano nato dal Risorgimento, nel quale si riconosce, riconosca a sua volta lo spaventoso massacro del 14 agosto 1861
Da ventisette interminabili anni, gli stessi trascorsi ad aspettare sul molo dal vecchio ufficiale a riposo di Gabriel García Márquez, a Pontelandolfo aspettano una lettera. Dal capo dello Stato, dal presidente del Consiglio, dal ministro della Difesa, da qualcuno...
E da ventisette interminabili anni, come nel libro Nessuno scrive al colonnello, quella lettera non arriva. E più tempo passa, più diventa insopportabile l'attesa. Incomprensibile. Offensiva. Perché in questo paese arroccato intorno a un'antica torre una ventina di chilometri a nord di Benevento non strillano che Garibaldi era un assassino nazista, non sventolano le bandiere borboniche grondanti di stemmi nobiliari, non celebrano messe nel nome del re Franceschiello, non distribuiscono cartoline raccontando sciocchezze come quella che «il regno delle due Sicilie era una delle prime tre potenze mondiali». Chiedono solo che lo Stato italiano nato dal Risorgimento, nel quale si riconoscono, riconosca infine a sua volta lo spaventoso massacro del 14 agosto 1861. Un gesto che nessuno ha ancora avuto il coraggio di fare. Al punto da far nascere una disputa storica, culturale e toponomastica con la lontana Vicenza. E non fra guardiani un po' fanatici dell'onore terrone e dell'onore polentone. Ma tra due sindaci dello stesso Pd.
Ma partiamo dall'inizio. Dal diario lasciato da un uomo che quel giorno era lì, il filatore di seta valtellinese Carlo Margolfo. Un documento prezioso. Che dopo essere stato casualmente ritrovato ed edito a cura di Laura Meli Bassi e Gino Fistolera, squarcia il velo di ipocrisie, silenzi e menzogne steso sulla carneficina:  

«Al mattino del mercoledì, giorno 14, riceviamo l'ordine superiore di entrare nel comune di Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno i figli, le donne e gli infermi, ed incendiarlo. Difatti un po' prima di arrivare al paese incontrammo i briganti attaccandoli, ed in breve i briganti correvano davanti a noi. Entrammo nel paese: subito abbiamo incominciato a fucilare i preti ed uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava, ed infine abbiamo dato l'incendio al paese, abitato da circa 4.500 abitanti».  
«Quale desolazione!», ricorda il bersagliere con raccapriccio: «Non si poteva stare d'intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case. Noi invece durante l'incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava, ma che fare? Non si poteva mangiare per la gran stanchezza della marcia di 13 ore: quattordicesima tappa. Fu successo tutto questo in seguito a diverse barbarie commesse dal paese di Pontelandolfo: sentirete, un nido di briganti…»
Come andassero intesi questi «briganti», com'è noto, è una questione che divide da un secolo e mezzo gli studiosi. Banditi? Patrioti? L'uno e l'altro? Come ha ricordato sul Corriere Giuseppe Galasso, il brigantaggio «non nacque affatto nel 1861. Era un grave problema, endemico e storico, del Mezzogiorno. Nel 1817 e nel 1821 con dure campagne di guerra il governo borbonico ne attenuò la portata, e in seguito cercò di controllarlo, ma non riuscì mai a eliminarlo, come dimostrano le sue cronache giudiziarie fino al 1860».
Né si può affermare fosse un fenomeno «solo» meridionale. Leggiamo «O soldi o vita » di Luigi Piva, che parla del Veneto e della Bassa padovana: «Bande armate formate da disertori degli eserciti austriaco o del Regno Italico e da gente miserabile, letteralmente piena di fame, scorrazzavano in cerca di pane, provocando disordini e seminando terrore con assalti, incendi, distruzioni e violenze ». Il tribunale statario istituito dalle autorità austriache, allarmatissime per una serie di episodi nei dintorni di Este, nelle «sue due sezioni veneta e lombarda» istruì «dal Giugno 1850 al Giugno 1853» in provincia «di Padova, Venezia, Rovigo e Mantova» 3.400 processi emettendo «1.144 sentenze di morte di cui 409 eseguite». Quasi tutte per assalti e rapine in casa. Il tutto «prima» dell'Unità.
Che i «briganti» che infestavano la zona di Pontelandolfo fossero banditi comuni, patrioti borbonici, contadini affamati ed eccitati dai parroci, o tutto questo insieme, è materia che lasciamo agli storici. Così come lasciamo loro la ricostruzione dell'episodio all'origine della spaventosa rappresaglia. Basti sapere che, come racconta in una relazione al governo qualche giorno dopo la strage l’allora sindaco di Pontelandolfo Salvatore Golino e come conferma il sindaco di oggi Cosimo Testa, una quarantina di soldati «piemontesi» e quattro carabinieri mandati a riportare l'ordine nella zona erano stati massacrati. Scrisse Rocco Boccaccino nel libro Memorie dei giorni roventi dell'agosto 1861: «E' indescrivibile l'eccidio che ne seguì con tutte le sevizie, a cui uomini e donne, inferociti e privi di ogni senso di pietà, brutalmente si abbandonarono». La spedizione punitiva, decisa dal generale Enrico Cialdini, fu però spropositata. «Alle prime luci dell’alba» e «mentre gli ignari abitanti dormivano ancora», spiega la delibera comunale che in questi giorni dovrebbe riconoscere al paese lo status di «città martire», i bersaglieri «assalirono il Paese con scariche di fucili, abbattimento di porte e finestre: uccisero bambini, giovani, vecchi, donne e fanciulle, molte di esse dapprima stuprate. Molti soldati si impossessarono di danaro, oro e altri oggetti di valore. Profanarono anche la Chiesa Madre rubando i doni votivi e finanche la corona d’oro della Madonna. Poi il paese dopo la mattanza fu dato alle fiamme, facendo abbrustolire i morti e quanti, ancora feriti o infermi, nelle proprie case imploravano vanamente e cristianamente aiuto!»
Ma quanti furono i morti? «Il conteggio delle vittime —, risponde Pino Aprile nel suo bestseller Terroni,—è difficile, mutevole, e porta a cifre sempre più alte: nell’immediato, dai registri parrocchiali risultano solo tredici “morti e sepolti”; ma uno studio comparato di don Davide Fernando Panella, sulla mortalità nei cinque anni prima e dopo il massacro, fatto sui registri di Pontelandolfo (a Casalduni erano bruciati), rivela che fra agosto e settembre 1861 ci furono 112 morti, contro i 29 dell’anno prima; e fra 1861 e 1862, nonostante la popolazione fosse diminuita, se ne ebbero 462, contro i 285 dei due anni prima (non tutti i feriti e gli ustionati perirono subito). E ancora non basta».
«Il Popolo d’Italia, giornale filo-governativo interessato a minimizzare — spiega il documento consiliare — scrisse che i morti «erano stati soltanto 164, provocando l’indignazione del giornale francese La Patrie e dell’opinione pubblica europea. Da ricerche effettuate negli archivi parrocchiali, essendo stato distrutto nell’incendio quello municipale, si calcola che le vittime civili superarono il numero di 400, qualcuno ipotizza siano state più di 1.000, alle quali bisogna aggiungere i morti nei mesi successivi per le ferite riportate».
Certo, c'è ancora molto da approfondire. Molto. Come scrive Galasso, non ha senso dire che tutto è stato nascosto per un secolo al popolo bue («Come si fa a credere che tutte queste siano “scoperte” e coraggiose “rivelazioni” che ora finalmente vengono fatte emergere? ») perché «il Risorgimento non era neppure terminato, e già si iniziò a processarlo». E lo stesso eccidio di Pontelandolfo pochi mesi dopo era già il nocciolo di una furente invettiva del deputato milanese Giuseppe Ferrari. Che nella seduta del 2 dicembre 1861 denunciò di aver visto e sentito cose da gelare il sangue: «Mi trassero dinanzi il signor Rinaldi, e fui atterrito. Pallido era, alto e distinto nella persona, nobile il volto; ma gli occhi semispenti lo rivelano colpito da calamità superiore ad ogni umana consolazione. Appena osai mormorare che non così s'intendeva da noi la libertà italiana, Nulla io chiedo, disse egli, e noi ammutimmo tutti. Aveva due figli, l'uno avvocato, l'altro negoziante, ed entrambi avevano vagheggiato da lontano la libertà del Piemonte, ed all'udire che approssimavansi i Piemontesi, che così chiamasi nel paese la truppa italiana, correvano ad incontrarli. Mentre la truppa procede militarmente, i saccomanni la seguono, la straripano, l'oltrepassano, e i due Rinaldi sono presi, forzati a riscattarsi, poi, dopo tolto il danaro, condannati ad istantanea fucilazione».
Però è altrettanto vero che la strage, sulla quale un appassionato storico locale, Renato Rinaldi, ha accumulato in anni di lavoro una mole di documenti messi online (pontelandolfonews. com), è stata per troppo tempo così rimossa dalla memoria degli abitanti stessi («La vivevamo come una colpa, come se in qualche modo ce la fossimo meritata», sospira il sindaco) e così poco studiata dagli specialisti che la lapide del 1973 sul muro della chiesa dedicata agli «ignari inermi innocenti» travolti dall’«inconsulto sterminio» elenca ancora «solo» 17 vittime.
Una rimozione gravissima. Inaccettabile. Come ha scritto Bernard-Henri Levy a proposito del genocidio degli armeni, «si crede che i negazionisti esprimano un’opinione: no, essi perpetuano il crimine. E pretendendo d’essere liberi pensatori, apostoli del dubbio e del sospetto, completano l’opera di morte». Eppure, subito dopo quell'apocalittica alba d'agosto, un certo Girolamo Gentile, in una lettera al Governatore di Benevento, aveva tutto chiaro: qualunque cosa fosse successa e avesse scatenato la reazione «la pena doveva esercitarsi contro i singoli colpevoli e non contro la città».
Parole sacrosante: scatenando una rappresaglia così feroce a Pontelandolfo e Casalduni (sia pure con meno vittime, qui), il governo si era comportato come se non considerasse quelle terre appenniniche un pezzo di patria ma una terra straniera. Occupata. Non si distrugge un «proprio» paese. Mai.
E mette i brividi rileggere la lucida preveggenza di Ferrari che (come se indovinasse i guasti che avrebbe causato la scelta di rimuovere alcuni errori piuttosto che riconoscerli come tali per salvare il Risorgimento nel suo insieme) disse a un Parlamento ottuso e sordo: «Io vi proposi di fare un'inchiesta affinché una metà della nazione conoscesse appieno l'altra metà, e le due parti della Penisola si unissero fraternamente». Macché.
Un secolo emezzo dopo, al comune di Pontelandolfo aspettano ancora. Soprattutto una risposta alle lettere mandate in questi 27 anni. Cominciò a spedirle l’allora sindaco Giuseppe Perugini nel 1973, quando il paese, ridotto alla metà della popolazione d’un tempo dall'emigrazione (ci sono più paesani a Waterbury, nel Connecticut, che qui), organizzò con Carlo Alianello, autore de La conquista del Sud, un convegno per denunciare per la prima volta la strage. Un piccolo convegno di nicchia accompagnato da piccoli gesti di cortesia meridionale: «Al termine si avrà un vermouth d'onore nella torre medievale alla cui ombra si svolsero i tragici eventi».
«Per 112 anni l'Italia ufficiale non ha avuto una sola parola di ricordo, un solo palpito di pietà per le nostre povere vittime: 112 anni non sono stati bastevoli per costruire per Pontelandolfo e la sua gente una sola azione riparatrice», tuonò il sindaco. E scrisse all'allora presidente Giovanni Leone invocando «un atto ufficiale di riconoscimento». Nessuna risposta.
Da allora, è andata sempre così. Nessuna risposta. E mano a mano, negli ultimi anni, a ridosso del centocinquantenario dell'Unità d'Italia, il silenzio si è fatto più pesante. Tanto più che Cosimo Testa e la sua giunta non solo sono estranei al più scriteriato revanscismo neoborbonico («Noi siamo italiani, ci sentiamo italiani, vogliamo celebrare l'unità d'Italia. Quando i nostalgici dei Borboni hanno cercato di mettere il cappello sulla nostra cerimonia annuale a ricordo dei nostri morti, li abbiamo mandati via») ma sono partiti da richieste sensate. Moderate. Modeste.
Hanno scritto a Silvio Berlusconi, a Giorgio Napolitano, a Carlo Azeglio Ciampi. Dicendo che bastava loro un convegno nazionale che ricordasse l'eccidio e analizzasse il fenomeno del brigantaggio post unitario perché Pontelandolfo «non sia più nominata terra di briganti bensì città martire e simbolo della sofferta eppur amata Unità d'Italia». Nessuna risposta. Hanno scritto al ministero dello Sviluppo economico chiedendo di valutare «la possibilità di emissione di un francobollo celebrativo». Nessuna risposta. Hanno scritto a Stefano Caldoro, il governatore della Campania, chiedendo un po' di soldi per mettere un monumento in piazza in memoria dei morti. Nessuna risposta. Hanno scritto a Ignazio La Russa per dirgli che un secolo e mezzo dopo era giusto «ammettere che quei cosiddetti bersaglieri (...) lerciarono le loro divise di delitti infamanti» anche «per rendere onore a tutti quei bersaglieri d'Italia che si sono ricoperti di gloria con atti di vero eroismo ». Nessuna risposta.
Hanno scritto al sindaco di Vicenza, Achille Variati, per manifestare il loro stupore alla scoperta, tardiva ma scioccante, che Pier Eleonoro Negri, l'alto ufficiale che comandava la spedizione punitiva, era considerato nella città berica «un eroe» e non un uomo che a Pontelandolfo «si comportò da macellaio della peggiore risma». E hanno chiesto la cancellazione del Negri da una targa celebrativa sul palazzo di famiglia, dalla toponomastica e dalla intestazione d’una scuola elementare. «Approfondirò», ha risposto Variati. Poi ha deciso: «Non posso farlo. Non credo che queste questioni vadano affrontate così. Le guerre sono guerre. Si accompagnano sempre a lutti, errori… Ma le valutazioni devono farle gli storici. Forse invece che rimuovere le lapidi val la pena di riflettere insieme. Vogliamo fare un convegno? Benissimo. Ma è una storia controversa. Posso io assumermi la responsabilità di cancellare la prima medaglia d’oro dei bersaglieri?» Quanto all'associazione del corpo «piumato», il presidente vicentino Antonio Miotello ha detto ad Antonio Trentin, del Giornale di Vicenza, che non se ne parla neanche: «Era in zona di guerra. Eseguì degli ordini».
E rieccoci punto e a capo. L'unica cosa che hanno portato a casa, i nipoti di quegli italiani massacrati per rappresaglia, dopo un secolo emezzo di silenzi e ventisette anni di lettere, è una concessione di Mauro Della Giovanpaola, che prima di essere arrestato per lo scandalo del G8 alla Maddalena, era anche il coordinatore dell'unità tecnica di missione del centocinquantenario. Nessun inserimento, neppure postumo e in ritardo, nel lunghissimo elenco di 371 luoghi della memoria, tra i quali figura ad esempio Sorrento per una «statua a Torquato Tasso inaugurata nel 1870». E manco un euro. Ma via libera (crepi l'avarizia) al permesso a usare il logo ufficiale delle celebrazioni. Un regalone. Concesso soltanto ad alcune centinaia di altre entità: le auto della Ferrari in Formula1, il «Centenario del primo sorvolo delle Alpi», la fiera VinItaly 2011 di Verona, la manifestazione culturale e politica «Cortina InConTra»…
Tutto in regola, per carità. Ma il giorno che dovesse divampare un leghismo meridionale rancoroso, per favore, risparmiateci lo stupore.
Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella
22 settembre 2010

lunedì 20 settembre 2010

 di Giulia Maestrini 
20 settembre 1870. Sono passati esattamente centoquaranta anni dalla “Breccia di Porta Pia”, lo storico ingresso dei bersaglieri nella Città Eterna che, di fatto, annetteva Roma al Regno d’Italia, mettendo fine al potere temporale della Chiesa e unificando il paese. Quale data migliore di questo importante anniversario poteva essere scelta, dal Comune di Siena, per dare il via alle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia.

Il desiderio di “Roma capitale” – oggi concetto “politico”, ma allora vero e proprio simbolo di un paese che lottava per la propria unità – era già stato espresso dal conte Camillo Benso di Cavour nel suo discorso al Parlamento italiano del 1860, ben dieci anni prima e, in realtà, il trasferimento definitivo della capitale a Roma, da Firenze, avvenne solo l’anno successivo, nel 1871. Tuttavia, la “Breccia di Porta Pia” rappresenta una data fondamentale, un crocevia imprescindibile dell’intera storia italiana.

Ieri sera, dunque, il Comune di Siena ha dato il via ai festeggiamenti che dureranno fino alla prossima primavera: il 17 marzo 2011, infatti, sarà la giornata di festa nazionale che celebrerà ufficialmente l’unità d’Italia, nel 150esimo anniversario della proclamazione di Vittorio Emanuele II di Savoia come primo Re d’Italia, proclamazione che sancì definitivamente la fine del Risorgimento.

Nel pomeriggio, nella Sala del Risorgimento di Palazzo Pubblico, le celebrazioni senesi erano iniziate con una conferenza di Tommaso Detti – direttore del dipartimento di storia dell’Università di Siena – su “Risorgimento e storia d’Italia” e sono proseguite, alle 21,15 al Teatro dei Rinnovati con il concerto lirico “Le note del Risorgimento italiano” che ha visto protagonisti la soprano senese Cristina Ferri e il baritono Brian Nickel, accompagnati al pianoforte da Fabrizio Corona.

“Non potevamo iniziare – ha detto l’assessore alla cultura del Comune di Siena, Marcello Flores d’Arcais – che da questa Sala che ci invidiano dappertutto. Pensate che i bozzetti e cartoni preparatori di questi affreschi ci sono stati richiesti da tantissime città e mostre che celebreranno l’unità d’Italia nei prossimi mesi, poiché sono tra le immagini più conosciute a livello nazionale e non solo”.

L’assessore ha colto, inoltre, l’occasione per annunciare brevemente il calendario degli eventi che festeggeranno l’Unità d’Italia. Un calendario, per la verità, ancora da stabilire nel dettaglio.
“Il calendario completo – ha aggiunto infatti Flores – sarà definito a ottobre e comprenderà tante iniziative diverse, intrecciate con quelle promosse dalla Provincia e dalla Regione. Certamente cominceremo con una serie di incontri settimanali, sul modello di Lunedilibri, con storici e autori di libri già editi, o in uscita a breve, sul Risorgimento. Incontreremo, inoltre, romanzieri che hanno ambientato nel Risorgimento le loro storie e organizzeremo una serie di iniziative legando quel particolare periodo storico all’arte, la musica, la letteratura, il cinema. Tutto questo ci accompagnerà verso la grande mostra sul Romanticismo nel Risorgimento che sarà il maggiore evento cittadino, in programma da marzo a maggio 2011 al Santa Maria della Scala”.

Insomma, senza dubbio il calendario degli eventi sarà complesso e articolato e comprenderà, ha annunciato l’assessore Flores, anche diversi spettacoli teatrali, tra cui una lettura di Manzoni attraverso le marionette e una trasposizione teatrale di “Piazza d’Italia” di Antonio Tabucchi.
Per concludersi la prossima primavera con il gran finale, in programma il 17 marzo quando ci saranno una tavola rotonda – con la partecipazione, tra gli altri, di Tommaso Detti ed Ernesto Galli della Loggia – e un concerto dei Cameristi della Scala.

sabato 18 settembre 2010

C’era l’Italia anche prima del Risorgimento

di Ugo Finetti 

L’identità del Paese affonda le radici in una comune tradizione linguistica e artistica nata dalla sintesi di culture locali. Negarlo, come fanno certi storici, è un’operazione ideologica


La successione degli attacchi al governo a proposito delle celebrazioni della nascita dello Stato italiano sta avvitando la sinistra e i suoi storici militanti su posizioni sempre più arretrate.
In particolare non si comprende quale «pericolo» possa venire dalla valorizzazione delle realtà e storie locali, una delle accuse mosse più di frequente. Del resto la soluzione federalista fu presente nella cultura risorgimentale ed è stata ricorrente in particolare nella sinistra italiana. Uno dei temi della polemica antifascista fu contestare al regime la compattezza della nazione italiana, ottenuta censurando articolazioni e diversità. Basterebbe guardare infatti a come è stata impostata la rappresentazione della Resistenza da sinistra a cominciare dal testo che la celebra nel modo più ortodosso e cioè il Dizionario della Resistenza, edito nel 2000 da Einaudi. Perché quel che vale per la Resistenza che aveva alle spalle uno Stato unitario consolidato non può valere per i moti risorgimentali di un secolo prima e per il 1861?
Il testo einaudiano è articolato in due tomi così intitolati: «Storia e geografia della Liberazione», «Luoghi, formazioni, protagonisti». La rievocazione della Resistenza è svolta in capitoli dedicati in modo minuzioso alle varie vicende nelle singole regioni, proprio secondo il tanto bistrattato principio della «valorizzazione della storia localistica»: dalla loro specifica «situazione sociopolitica» al «potenziale economico» e all’«impulso autonomista». «L’accentuazione geografica accanto a quella storica - è spiegato nell’Introduzione - ci sembra rappresenti uno spiccato elemento di novità non solo perché rompe l’idea cristallizzata e diffusa di una Resistenza dal carattere unitario, ma perché dà spazio a una notevole mole di lavori regionali e locali che in questi ultimi anni hanno contribuito a restituire complessità e veridicità». E quindi si motiva la valorizzazione della «geografia» come base per poter meglio valutare «il rapporto tra un’esperienza così sconvolgente come fu la lotta di liberazione con il suo attuale assetto istituzionale».
Ma allora perché le manifestazioni di «Italia 150» non possono dar luogo a una riflessione sugli assetti istituzionali? Comunque sia, negare il policentrismo della cultura italiana significa negare almeno otto secoli di storia. E cercare nel solo processo risorgimentale le radici dell’Unità è un errore per difetto che trascura una lunga tradizione letteraria, dibattiti a volte furiosi sulla lingua nazionale (quando la nazione ancora non esisteva; segno che però esisteva una coscienza unitaria), una politica di equilibrio e scambio reciproco da cui nacque, ad esempio, il Rinascimento. La storia d’Italia, insomma, non inizia nel 1861. «Giardino dell’Impero» ed «espressione geografica» sono modi di dire che hanno sfregiato per secoli gli italiani privi di uno stato unitario. Ma l’Italia - gli italiani - esistevano ed erano riconosciuti per una lingua che era la dimensione unitaria, disegnava una comunità che si articolava e si consolidava da Milano a Palermo nella letteratura, nell’arte, nella ricerca scientifica e, quindi, nello stesso pensiero politico. Basti pensare all’Italia invocata dal Machiavelli e che animava il pensiero rinascimentale. «Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia» è l’incipit della Storia d’Italia che Francesco Guicciardini scrisse tra il 1537 e il 1540. Anche l’altra contestazione più frequente - la citazione di Vincenzo Gioberti insieme con Carlo Cattaneo e più in generale il coinvolgimento dei «guelfi» - investe il rapporto tra unità d’Italia e identità nazionale. Che cosa si deve fare nel 2011? Celebrare la rottura con la Chiesa e la divisione tra laici e cattolici? Per comprendere il fastidio di vedere il Gioberti accanto al Cattaneo bisogna tener presente come nella sinistra italiana si sia andata sviluppando e consolidando una corrente che soprattutto sull’onda del Sessantotto, in un periodo in cui vacillavano molti riferimenti tradizionali (a cominciare dalla Chiesa investita dalla crisi postconciliare), ha proposto una lettura critica della identità italiana mettendo sotto accusa radici latine e radici cattoliche. L’eredità della cultura latina sarebbe stato il manzoniano «latinorum» ovvero l’Italia di una cultura giuridica nel segno degli «Azzeccagarbugli», mentre il lascito più importante del cattolicesimo andrebbe visto nell’Inquisizione. Tutti i mali d’Italia deriverebbero da un Paese che aveva conosciuto la Controriforma senza aver avuto alcuna Riforma.
È auspicabile che «Italia 150» consenta anche una riflessione critica su come si studia e si insegna la storia d’Italia. Vittorio Emanuele II che entra a Milano con a fianco Napoleone III e alle spalle l’esercito francese, Giuseppe Garibaldi che avanza nel Regno borbonico grazie alla protezione delle navi inglesi (e alla corruzione dei comandanti avversari), il Veneto che diventa italiano come regalo dei francesi in quanto gli austriaci, avendoci sconfitto per terra e per mare (Custoza e Lissa), rifiutano una cessione diretta agli italiani: sono pagine di storia che non possono essere cancellate o ritoccate. Dopo 150 anni si è abbastanza «adulti» per conoscere come si è nati.
Il nervosismo crescente sembra in verità tradire una seria preoccupazione per il fatto che per decenni certa storiografia ha avuto come cultura dominante la lettura classista, la storia d’Italia come teatro di scontro fra capitalismo reazionario e movimento dei lavoratori. Questa architettura storiografica è ancora presente nei più diffusi manuali e «testi consigliati» redatti da storici che per decenni si sono formati e hanno lavorato essendo convinti - una citazione per ricordare il clima - che «la storiografia marxista» è quella che «ha saputo meglio spaziare dalla storia antica a quella contemporanea... allargando la tematica al di là dei confini nazionali» (Rosario Villari). Nel 1959 la socialdemocrazia tedesca «mandava in soffitta» Marx con il Congresso di Bad Godesberg. È forse il tempo di celebrare in Italia una Bad Godesberg storiografica. Che queste celebrazioni siano l’occasione giusta?