Carlo di Borbone, con la Prammatica del 14 marzo 1738, aveva proibito la tortura e l’uso di pozzi sotterranei per l’isolamento dei detenuti.
Ma la Lex Julia majestatis, introdotta dal suo successore Ferdinando IV come legge dello Stato con rescritto del 21 luglio del 1771, prevedeva pene severissime e torture per chiunque partecipava ad una congiura, escludendo ogni beneficio o diminuzione della pena, e contro i rei si procedeva ad modum belli.
Era questo un rito eccezionale in cui il termine a difesa era brevissimo: conclusa rapidamente l’istruttoria senza osservarne i normali termini, comunicata la sentenza, venivano concesse poche ore al difensore per prendere visione degli atti e preparare la memoria difensiva.
Stimata regina tormentorum per l’intenso dolore che essa procurava, era la tortura acre con funicelle. Si allacciavano dapprima i polsi rivolti dietro la schiena del reo con una cordella rotonda e la si stringeva fino a lacerarne le carni. Poi se ne allacciava un’altra alle braccia e lo si sollevava.
Il destino dei rei non era mai definitivo e poteva mutare in qualsiasi momento o per intercessione diretta del sovrano, spesso su richiesta di un familiare o di persona influente, o tramite la «Giunta per il destino dei condannati».
Tra i luoghi di detenzione napoletani più noti furono la Vicaria, un carcere situato nei sotterranei del Castel Capuano, e quello di S. Francesco, fuori le mura di Porta Capuana, oltre il distretto di Napoli i penitenziari di Procida e di S. Stefano destinati agli ergastolani.
Il Codice per lo Regno delle due Sicilie, promulgato per editto da Ferdinando I di Borbone nel 1819, pur nel formale ripudio di alcune pene, persisteva in tratti ancora profondamente reazionari adottati nelle prammatiche sanzioni dei precedenti anni di reggenza.
Le pene criminali per il nuovo codice erano soltanto l’ergastolo, i ferri, la reclusione, la relegazione, l’esilio dal regno, la interdizione da’ pubblici uffizii, la interdizione patrimoniale e la morte.
Le norme per le esecuzioni capitali erano stabilite nei seguenti articoli:
- Art.4. La pena di morte si esegue colla decapitazione, col laccio sulle forche e colla fucilazione.
- Art.5. La pena di morte non può che eseguirsi in luogo pubblico. Quando la legge non ordina letteralmente che la pena di morte debba essere espiata col laccio sulle forche, espiar si deve colla decapitazione. La pena di morte si esegue colla fucilazione quando la condanna sia fatta da una Commissione militare, o da Consigli di guerra ne’ casi stabiliti dallo Statuto penale militare.
- Art.6. La legge indica i casi ne’ quali la pena di morte si debba espiare con modi speciali di pubblico esempio. I gradi di pubblico esempio sono i seguenti:
- Esecuzione della pena nel luogo del commesso misfatto, o in luogo vicino:
- Trasporto del condannato nel luogo delle esecuzione a piedi nudi, vestito di giallo, con cartello in petto a lettere cubitali indicante il misfatto:
- Trasporto del condannato nel luogo della esecuzione, a piedi nudi, vestito di nero, e con un velo nero che gli ricopra il volto:
- Trasporto del condannato nel luogo della esecuzione, a piedi nudi, vestito di nero, e con velo nero che gli ricopra il volto, e trascinato su una tavola con piccole ruote al di sotto, e con cartello in petto in cui sia scritto a lettere cubitali: l’uomo empio.[1] .
Trascrizione documento
A di 7 di maggio uscì la giustizia da S. Giacomo per eseguirsi come fu eseguita nel largo del Castello in persona di Capitan Santolo Castaldo della Fragola quale fu decapitato e non lascia alcuni. Questo Povero afflitto passò molto travaglio nel morire perché la mannaia le colse sopra le spalle onde fu necessario secargli il collo con un coltello nel che ci volle un pezzo che fu cosa di molta compassione vi intervennero li seguenti fratelli…