1. Il controllo inglese e francese sul commercio estero del regno borbonico
Il regno di Napoli e quello di Sicilia erano stati inseriti per molti secoli nell’area commerciale dominata da grandi città mercantili italiane, anzitutto le repubbliche di Venezia e Genova che furono per lungo tempo i maggiori centri mercantili di tutta Europa.
Il Mezzogiorno esportava principalmente prodotti agricoli in traffici che erano controllati dai mercanti e banchieri delle città-stato settentrionali.1
Questa gravitazione commerciale del Meridione attorno all’orbita veneziana e genovese si conclude nel secolo XVIII ma soltanto per essere sostituita dall’egemonia di Inghilterra, Francia ed Olanda.
Naturalmente non si può parlare di un mutamento improvviso e bisognerebbe distinguere anche per categorie merceologiche, tuttavia è il Settecento a segnare questo passaggio di consegna fra la tradizionale egemonia di mercanti dell’Italia settentrionale e quelli del nord Europa nella commercializzazione dei prodotti del sud Italia.
La sostituzione inoltre interviene in un contesto internazionale molto diverso rispetto al passato. L’Italia per almeno quattro secoli (XIII-XVI) era stata nel complesso la regione più sviluppata economicamente di tutta Europa ed ancora nel secolo XVII, nonostante il declino in corso, rimaneva fra i paesi più prosperi.
Al contrario, nel secolo XVIII era ormai divenuta una regione periferica.
Il Mezzogiorno partecipava a queste dinamiche, cosicché la sua subordinazione commerciale alle maggiori potenze mercantili settecentesche ed ottocentesche fu assai più netta di quella anteriore verso le repubbliche marinare di Genova e Venezia. Il regno di Napoli era nel ‘500 senz’altro definibile quale ricco, come ricorda Braudel in Civiltàà e imperi, mentre nel ‘700 partecipava della decadenza economica italiana.2
L’esito fu che il commercio internazionale del regno di Napoli e di quello di Sicilia, ovvero del regno delle Due Sicilie a partire dalla Restaurazione, divenne controllato da società e stati stranieri, la cui longa manus erano colonie di mercanti per lo più inglesi. Costoro, che solo non si fondevano con la popolazione locale, agivano per conto di case commerciali e di mercati stranieri, in base alle loro richieste ed interessi.
I prodotti esportati od importati nel o dal Mezzogiorno erano per queste società soltanto una piccola parte del totale e le filiali ivi impiantate erano soltanto poche fra le molte esistenti sparse nel mondo.
Al contrario, il regno borbonico aveva un numero limitato di compagni commerciali, poiché importava ed esportava per la maggior parte da Inghilterra, Francia, Austria: questi tre paesi da soli costituivano il 65 % circa delle importazioni.
Esisteva quindi un grande squilibrio di peso nei rapporti mercantili, poiché quelli che per il reame delle Due Sicilie erano i principali soci d’affari internazionali avevano invece in esso soltanto uno dei tanti partner minori.
Le merci esportate inoltre erano quasi esclusivamente prodotti agricoli o zootecnici, anzitutto l’olio che da solo costituiva il 40 % del valore totale, seguito da grano, lana, canapa, seta, liquirizia, robbia. Questi beni formavano il 75 % dei prodotti d’esportazione. Al contrario, le merci importate erano ripartite in una gamma assai più ampia e comprendevano principalmente manufatti.3
È un contesto economico caratteristico degli “scambi diseguali” fra regioni sviluppate, esportatrici di prodotti lavorati di maggiore valore, e sottosviluppate, esportatrici di materie prime.
Il controllo del commercio estero del regno borbonico da parte di imprenditori privati stranieri era accompagnato dall’ingerenza di stati esteri nell’economia del reame borbonico e nelle stesse decisioni di politica economica.
Ad esempio, il timido tentativo di Carlo di Borbone di formare l’embrione di una industria, ricorrendo a maestranze specializzate provenienti dall’Italia settentrionale e dalla Francia, fu stroncato dall’Inghilterra con una guerra commerciale che affossò sul nascere il progetto.4
Non casualmente, una proto-industria comparve nel regno di Napoli sotto Murat, sia per gli incentivi concessi, sia perché il blocco continentale impediva l’arrivo di merci inglesi. È significativo comunque che una parte rilevante in molti opifici murattiani fosse spettata ad imprenditori esteri, specialmente svizzeri.5
Il caso più famoso e significativo dell’ingerenza estera negli affari interni dell’economia del regno delle Due Sicilie fu il contrasto per il controllo del mercato dello zolfo siciliano.
Questo minerale aveva iniziato ad essere estratto nell’isola nella seconda metà del secolo XVIII, ma la vera esplosione di questa attività mineraria avvenne a partire dal 1808, quando la Sicilia era in pratica un protettorato inglese. Per decenni sia l’estrazione sia la commercializzazione, nonché naturalmente la lavorazione, dello zolfo furono per intero sotto la gestione di grandi capitalisti inglesi.
Il governo borbonico non volle o non poté far nulla per impedire che l’intera filiera fosse di proprietà anglosassone.
Soltanto un trentennio più tardi si offrì la possibilità di spezzare il monopolio inglese, ma tramite una ditta anch’essa straniera, la francese Taix & Aycard. Essa propose a Ferdinando II di affidargli la gestione delle miniere, in cambio sia di un aumento del prezzo di acquisto dello zolfo estratto, sia della costruzione di un’industria chimica per la lavorazione del minerale in Sicilia.
Il sovrano inizialmente accettò la proposta francese, ma i capitalisti inglesi furono solleciti a rivolgersi al proprio governo, che reagì con decisione minacciando d’imporre un embargo al regno delle Due Sicilie. Ferdinando II si sottomise alle pretese d’Albione ed accettò di ripristinare il precedente monopolio anglosassone. In più, egli fu costretto dalle pressioni, questa volta di Parigi, a risarcire la Taix & Aycard.6
La debolezza politica ed economica del reame borbonico dinanzi a potenze straniere traspare evidente da questa vicenda.
2. La debolezza della marina mercantile
Il predominio straniero nell’importazione ed esportazione dal Meridione borbonico fu favorito anche dall’insufficienza della flotta mercantile delle Due Sicilie.
I tentativi delle autorità regie d’aumentare le dimensioni della flotta si scontrarono sia con le carenze tecnologiche, sia con quelle di personale stesso e furono dirette non tanto ad ammodernare la marina, aumentando le dimensioni e la modernità delle navi, ma solo accrescendone il numero, il che avveniva naturalmente con il varo d’altre piccole imbarcazioni.
Si può citare, nella ricca storiografia sull’argomento, quanto afferma lo storico Di Gianfrancesco.
Nel 1860 la marineria italiana, di tutti gli stati preunitari riuniti, era per tonnellaggio la quarta d’Europa.
La prima era quella inglese, con 4.669.000 tonnellate. La seconda era quella francese, con 1.011.000. La terza quella tedesca, con 808.000. Infine la quarta era quella italiana, con 607.000 tonnellate. È facile evidenziare comunque come quella inglese da sola fosse più grande di quelle francesi, tedesche ed italiane tutte messe assieme, con 4.669.000 contro 2426000. La percentuale della marina italiana rispetto al tonnellaggio mondiale era inoltre diminuita negli anni, passando dal 6,4% del 1820 al 5,3% del 1860.
Soltanto un terzo della marina mercantile italiana nel 1860 batteva bandiera delle Due Sicilie. Secondo il Gianfrancesco, la marina borbonica arriva a 260 mila tonnellate nel 1860, mentre il totale della marina mercantile del regno d’Italia arrivava a 607 mila tonnellate, a cui si sarebbe dovuta aggiungere ancora la marina del Veneto per 46 mila tonnellate, quella del Lazio ed ancora quella (davvero rilevante per dimensioni) di Trieste.7
Giusto per fare un confronto con i dati sopra citati, si possono indicare alcune raccolte statistiche compilate già nel secolo XIX, come quella del Bursotti.8
Il Bursotti confronta le flotte di alcuni paesi europei, proponendo le seguenti serie per la navigazione di lungo corso: Svezia e Norvegia: 1.450 bastimenti per 355.520 tonnellate di stazza; Paesi Bassi: 379 bastimenti per 214.284 tonnellate; Austria: 562 bastimenti per 148.492 tonnellate; regno di Sardegna: 690 bastimenti per 123.336 tonnellate; Grecia: 509 bastimenti per 95.978 tonnellate; Danimarca: 963 bastimenti per 95.373 tonnellate; Due Sicilie: 501 bastimenti per 89.148 tonnellate.
Sebbene questi non riporti le cifre della marina mercantile d’Inghilterra (la più grande di tutte), di Francia, di Spagna, né quelle di paesi extraeuropei come Usa, Russia, Turchia, Brasile ecc., già solo il suo parziale elenco dimostra che la marina borbonica era assai piccola, inferiore a quelle di Svezia, Paesi Bassi, Austria, Grecia, Danimarca e regno di Sardegna. Non era neppure, nel 1845, la più grande d’Italia, superata dalla marineria del regno di Sardegna.
Si può citare poi uno studio dello storico Clemente, assai recente (pubblicato nel 2011), dettagliatissimo e scritto con grande abbondanza di fonti (riporta nella sua sola conclusione 20 diverse tabelle statistiche).
Esso riferisce per il 1858 dei dati molto simili a quelli sopra riportati: il tonnellaggio totale della marina mercantile italiana (inclusa quella “austriaca”, che però per lo più aveva armatori italiani) era di 932.785 tonnellate; il tonnellaggio totale del regno delle Due Sicilie era di 272.305, quindi sempre meno di un terzo del totale.
Sempre lo studio di Clemente riporta, fra i moltissimi altri dati, quelli riguardanti le dimensioni medie delle navi. La marina mercantile dello stato pontificio era in assoluto quella con il tonnellaggio medio più basso, seguita a brevissima distanza da quella del regno delle Due Sicilie.
Per fare un confronto, il tonnellaggio medio della marina borbonica era di 24,6 t., contro una media nazionale di 46,3 t.. Questo significa che la marina mercantile borbonica era, in media, più piccola e meno moderna di quasi tutte quelle italiane, con l’eccezione di quella dello stato pontificio.9
La debolezza della marina mercantile dei Borboni e la dipendenza per le importazioni ed esportazioni da flotte straniere si manifestò in maniera emblematica durante la grande carestia del 1764, che condusse alla morte per fame o malattia circa 200.000 persone in tutto il Mezzogiorno.10
Anche per questo Ferdinando I poco dopo il ritorno sul trono dopo i Napoleonidi riconfermò vecchi privilegi commerciali ad Inghilterra, Francia, Spagna, secondo cui le navi battenti bandiera di questi stati avrebbero goduto di una esenzione del 10 % sui dazi doganali per merci provenienti da quei paesi medesimi.11
Erano autentici “trattati diseguali”, in cui non vigeva l’obbligo della reciprocità fra le due parti contraenti.
Il commercio internazionale del sud Italia verso Inghilterra e Francia, che erano i maggiori importatori ed esportatori del regno borbonico, si svolgeva così anzitutto tramite flotte e marinerie di quei paesi.12
3. L’assenza del regno delle Due Sicilie alla Esposizione internazionale dell’industria di Parigi
Il reame dimostrò una grave incapacità anche solo promozionale della propria economia, come risaltò all’Esposizione internazionale dell’industria di Parigi del 1855, svoltasi dal 1 maggio al 31 ottobre 1855.
L’Esposizione era stata ripartita in 30 diverse classi o categorie, a seconda della tipologia di attività industriale. Le prime 27 erano ritenute essere propriamente industria, mentre le restanti 3 erano considerate belle arti. È possibile e facile conoscere con assoluta esattezza quali paesi parteciparono all’Esposizione dell’industria e con quanti espositori ed in quali categorie, poiché già nel 1855 fu pubblicata la relazione ufficiale dell’Esposizione stessa.13
Le classi dell’industria erano le seguenti: settore minerario ed estrattivo; industria di falegnameria, lavorazione prodotti caccia e pesca; lavorazione industriale prodotti agricoltura; meccanica generale applicata all’industria; meccanica speciale e materiali ferroviari e di trasporto; meccanica speciale e materiali degli opifici industriali; meccanica speciale e materiali manifatture tessuti; industria di precisione, orologeria, stampa; oreficeria, bigiotteria, gioielleria; Industria del vetro e della ceramica; industria del cotone; industria della lana; industria della seta; industria del lino; fabbricazione di maglie, tappeti,passamaneria; mobili ed arredamento; oggetti di moda e fantasia; Disegni e plastici applicati alla musica, fotografia; fabbricazione di strumenti musicali.
In tutte queste 27 classi dell’industria il numero di espositori delle Due Sicilie fu pari a zero. Non vi fu un solo espositore dalle Due Sicilie, su di un totale di 21779 partecipanti.
Il reame borbonico fui quindi completamente assente nell’Esposizione dell’industria propriamente detta. Eppure, ad essa parteciparono anche stati dell’America meridionale, dell’Africa e stati minuscoli come il principato di Baden, il ducato di Sassonia, la lega delle città anseatiche.
Il Messico mandò 107 espositori, il poverissimo Guatemala 7, la minuscola isola di Grenada 13. La spopolata Argentina del 1855, che comprendeva quasi solo Buenos Aires e dintorni mentre la sterminata pampa era quasi spopolata ed abitata in prevalenza da indios dediti alla pastorizia nomade, mandò 6 espositori.
L’Egitto ebbe 6 espositori ed il regno delle Hawaii, il piccolo reame ancora indipendente abitato dai polinesiani, ne inviò 6. Il Lussemburgo ebbe 23 espositori, il ducato di Brunswick 16, quello di Hannover 18, la Baviera 172.
Naturalmente, la parte del leone era fatta dalle maggiori potenze industriali, per cui il Belgio ne mandò 687, l’Austria ne 1298, la Prussia 1319, il Regno Unito 1589, la Francia addirittura 10003 (ma questa cifra, più alta addirittura di quella dell’Inghilterra massima potenza industriale dell’epoca, dipendeva dal fatto che l’esposizione era organizzata a Parigi).
A scanso di equivoci, non si sono qui riportati tutti i paesi partecipanti ma soltanto una piccola parte per brevità, essendone stati ancora molti che provenivano dall’Europa, dall’Asia, dall’Africa, dall’America.
Parteciparono ovviamente anche il regno di Sardegna, con 204 espositori, il granducato di Toscana, con 197 espositori, lo stato pontificio, con 72 espositori. Regno delle Due Sicilie, come si detto, non partecipò nemmeno.
Si possono trovare espositori delle Due Sicilie soltanto nel settore delle Belle Arti, che comprendeva tre classi: pitture, incisione, litografia; scultura ed incisione su medaglie; architettura. Vi furono due espositori delle Due Sicilie nella classe XXVIII (pittura, incisione, litografia) ed altri 2 nella classe XXIX (scultura ed incisione su medaglie). Gli espositori in queste tre classi furono in totale 2175, di cui appunto 4 (quattro) delle Due Sicilie.
L’Austria ne ebbe 108, la Prussia 111, il Belgio 142, il Regno Unito 297, la Francia (anche qui grazie al fatto che l’Esposizione si teneva a Parigi) ben 1072. Il regno di Sardegna ne mandò 17, lo stato pontificio 16, la Toscana 10.
Si può ora riassumere. Il regno delle Due Sicilie non partecipò proprio all’Esposizione dell’industria in senso stretto, poiché non vi fu un solo suo espositore in tutte le 27 diverse categorie industriali. Si ebbero 21779 espositori delle prime 27 classi industriali, 0 (zero) provenienti dalle Due Sicilie. Esso partecipò invece al settore delle Belle Arti, con 4 (quattro) espositori su di un totale di 2175.
Il numero totale complessivo di espositori delle Due Sicilie fu inferiore non soltanto a quello delle maggiori potenze industriali (in modo abissale), non solo a quello degli altri stati italiani (regno di Sardegna 221, il granducato di Toscana 213, lo stato pontificio 82), ma persino a paesi poverissimi e minuscoli come l’isola di Grenada (13) od il regno delle Hawaii (5), i cui espositori avevano dovuto percorrere tutta la distanza fra l’arcipelago e Parigi sulle navi dell’epoca.
L’accaduto era stato notato e compreso nel suo significato già da Giustino Fortunato, che scrisse: «Alle mostre delle industrie mondiali, prima di Londra, nel 1855, poi di Parigi, nel 1857, ove finanche la Turchia e il Giappone mandarono i loro prodotti, noi soli mancammo ...»14
4. La frammentazione del mercato interno e la sua debolezza
Non esisteva un vero mercato unitario interno nelle Due Sicilie, quanto una pluralità di aree commerciali rurali separate fra di loro. Molti sono le ricerche che conducono a questa conclusione, fra cui si può citare ciò che scriveva Aurelio Lepre, asserendo che la mancanza di un sistema di comunicazioni terrestri adeguato impediva la formazione di un’area commerciale comune all’interno del reame borbonico.15
Il “regno senza strade”, come era soprannominato quello borbonico in Europa, era notoriamente deficitario in fatto di vie. Nel 1860 esistevano nel regno borbonico 1848 comuni, ma di questi solamente 227 erano collegati da strade. Gli altri si servivano di mulattiere o piste per il bestiame.
Il commercio interno era prevalentemente locale e collegato alle diverse fiere paesane, mentre in confronto era assai più ridotto il cosiddetto “commercio stabile”. Anche per questo, vi erano grosse difficoltà a commercializzare all’interno dei confini dello stato gli stessi prodotti nazionali esportati.16
Le congiunture commerciali incidevano anche in modo grave, persino politicamente, sul regno. Questo riguardava anzitutto il settore granario, da cui dipendeva l’alimentazione della maggioranza della popolazione.
Il governo ne era consapevole e cercava di consentire l’esportazione di grano soltanto qualora vi fosse una eccedenza rispetto alle esigenze interne, mentre al contrario favoriva la sua importazione qualora ve ne fosse scarsità ovvero se i prezzi interni salissero.
La politica governativa aveva in questo una sua logica, che però non si poneva come obiettivo l’aumento di una produzione cerealicola che chiaramente non assicurava rese tali da garantire l’autosufficienza alimentare. Il mercato del grano rimase quindi sospeso per anni fra Scilla e Cariddi, perché consentire l’esportazione rischiava di provocare sottoalimentazione nelle classi povere (o di aggravare quella esistente …) mentre autorizzare l’importazione minacciava di far abbassare troppo i prezzi e danneggiare i coltivatori.
S’intona con questo quadro l’osservazione del generale Carascosa, che ipotizzava un collegamento fra la rivoluzione del 1820 ed il disagio sociale provocato dall’importazione di cereali dalla Russia, che era stata decisa in seguito alla carestia del 1816-1817, ma che aveva abbattuto il valore del grano nel Mezzogiorno.17
Anche per questo il Mezzogiorno, con un mercato interno asfittico e frammentario, aveva maggiore necessità di sbocchi esterni per le sue eccedenze e era perciù più dipendente dai mercati stranieri.
5. I dati quantitativi sul commercio internazionale delle Due Sicilie
Lo storico Augusto Graziani ha pubblicato nel 1960 una monumentale documentazione statistica sul commercio estero delle Due Sicilie, che copriva in modo ininterrotto più di due decenni di importazioni ed esportazioni di questo reame con una serie quasi ininterrotta dal 1832 al 1855, distribuita in vari «gruppi merceologici» sulla base dei parametri Istat allora vigenti per la classificazione delle attività economiche.18
I dati quantitativi riportati, davvero abbondanti ed assai analitici e precisi, offrono un quadro esauriente del commercio con l’estero del regno borbonico.
Esso era in tutta Europa (in tutta Europa!) il paese con il più basso commercio estero pro capite, ossia in percentuale al numero di abitanti.
Il suo commercio internazionale annuo nel 1858 era di soli 6,52 ducati per abitante. Tutti gli altri stati italiani avevano livelli assai superiori, che andavano dai 40,13 ducati pro capite del regno di Sardegna (sei volte quello del reame borbonico!) sino ai 9,06 dello stato pontificio.
Anche tutti gli stati europei dell’epoca avevano indici di commercio pro capite superiori a quelli del regno delle Due Sicilie, con la sola eccezione della Russia che aveva 5,14 ducati per abitante ma che per geografia e storia difficilmente si poteva considerare quale europea ad ogni effetto. Ad esempio, l’Austria (incluso il Lombardo-Veneto) era ad 11 ducati pro capite, la Francia a 35, l’Inghilterra a 71 etc. In ogni caso, il regno borbonico era l’ultimo in Italia per commercio pro capite e, fatta eccezione per la Russia, anche in tutta Europa.
Il panorama negativo era completato da altri dettagli ancora, come un saldo commerciale che rimase costantemente in passivo o lo squilibrio interno fra la capitale e l’entroterra.
La città di Napoli da sola convogliava l’88% delle importazioni, anche se la metropoli in quanto tale quasi non esportava nulla. Al contrario, le poche regioni esportatrici (come la terra di Bari per l’olio e quelle di Enna e Caltanissetta per lo zolfo) non erano importatrici.
L’amplissima ricerca documentaria di Graziani conferma ciò che è largamente ammesso nella storiografia riguardo all’economia delle Due Sicilie. Il regno aveva un’economia quasi soltanto agricola, con un’industria solo embrionale. Al suo interno esisteva poi uno squilibrio notevole fra la capitale, (in cui si concentravano gli investimenti pubblici e risiedeva la classe dirigente, così risucchiando buona parte delle risorse disponibili) e tutto l’entroterra del Meridione continentale. La posizione di questo paese nel commercio internazionale era periferica e rispecchiava la sua arretratezza economica.
6. Alcune osservazioni conclusive
Il quadro complessivo delineato dal commercio nelle Due Sicilie appare inconfondibile: esportazione solo di materie prime o di semilavorati con importazione di manufatti, quindi esportazione di merci di basso valore ed importazione di merci di alto valore; trattati commerciali diseguali; controllo della filiera dei propri prodotti d’esportazione da parte di società imprenditoriali straniere; presenza di colonie di mercanti ed imprenditori stranieri che erano rappresentanti locali di società ramificate internazionalmente ed aventi sedi all’estero: ingerenza di stati stranieri nella politica economica interna allo stato borbonico; assenza di un mercato interno nazionale unificato ed esistenza di reti commerciali strutturate ed organizzate soltanto con l’estero; incapacità statale di sfruttare le proprie risorse naturali e di promuovere i propri prodotti all’estero.
È un insieme organico di caratteristiche che si ritrova sovente in paesi subalterni economicamente, come ha avuto modo di sottolineare più volte Galasso. Il controllo di società straniere sul commercio estero delle Due Sicilie ha contribuito ad impedire un processo di industrializzazione ed in generale di sviluppo economico.
Homan, Pianta di Napoli 1734
Note
1 D. Abulafia, The two Italies. Economic relations between the norman Kingdom of Sicily and the northen Communes, Cambridge 1977; Idem, Southern Italy and the Florentine Economy (1265-1370), in «The Economic History Review», 1981, n. 3. - - Questo rapporto esisteva già nel Medioevo e su di esso si è soffermato anche un Fernand Braudel nel suo celebre e celebrato studio sul Mediterraneo all’epoca di Filippo II. - G. Galasso, Momenti e problemi di storia napoletana nell'età di Carlo V, in Mezzogiorno medievale e moderno, Torino 1975, pp. 167-77; F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Torino 1976, vol. I, pp. 621 sgg.
2 Il commercio inglese nel Mediterraneo dal '500 al '800. Corrispondenza consolare e documentazione britannica fra Napoli e Londra, a cura di G. Pagano de Divitiis, Napoli 1984, pp. 29 sgg.; Eadem, II Mediterraneo nel XVII secolo; l'espansione commerciale inglese e l'Italia, in «Studi storici», 1986, n. 1; P. Bevilacqua, Il Mezzogiorno nel mercato internazionale (secoli XVIII-XX), in “Meridiana”, n. 1, 1987, pp. 19-45.
3 D. Demarco, Il crollo del regno delle Due Sicilie. La struttura sociale, Napoli 1960, pp. 76-77.
4 R. Romano, Napoli: dal Viceregno al Regno, Torino 1976.
5 Riguardo alla politica economica nel Decennio francese A. Valente, Gioacchino Murat e l’Italia meridionale, Torino 1965; P. Villani, Italia napoleonica, Napoli 1978; C. Zaghi, Napoleone e l’Italia, Napoli 2001.
6 Lo zolfo di Sicilia. Questione tra l'Inghilterra e Napoli, da Annali universali di statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio. Milano, Società degli editori degli annali universali delle scienze e dell'industria, 1840. G. Pescosolido, L’economia siciliana nell’unificazione italiana, in “M e d i t e r r a n e a R i c e r c h e s t o r i c h e” Anno VII - Agosto 2010, p. p. 225.
7 M. Di Gianfrancesco, La rivoluzione dei trasporti in Italia nell’età risorgimentale, L’Aquila 1979, p. 230. I dati quantitativi sui bastimenti del regno delle Due Sicilie sono contenuti nelle raccolte statistiche degli «Annali civili del Regno delle Due Sicilie» per gli anni 1833, 1834, 1839 e 1852; dal 1841 al 1855 nelle “Statistiche generali commerciali”a cura dell’Amministrazione generale dei dazi indiretti, conservate nel fondo del Ministero delle Finanze dell’Archivio di Stato di Napoli. Naturalmente, sono tutte “fonti dirette” ovvero “fonti primarie”, secondo il lessico storiografico, che risalgono direttamente ai documenti ufficiali del regno delle Due Sicilie.
8 G. Bursotti, Biblioteca di Commercio, Anno II, vol. III, Napoli 1845.
9 A. Clemente, “La marina mercantile napoletana dalla Restaurazione all’Unità”, Il Mezzogiorno prima dell’Unità. Fonti, dati, storiografia, Napoli, 1° dicembre 2011 (CNR-ISSM, in collaborazione con l’Università di Napoli “L’Orientale” e l’Università di Catanzaro “Magna Græcia”).
10 Le dimensioni quantitative della carestia, che colpì sia il regno di Napoli, sia lo stato pontificio, sono inevitabilmente approssimative. A. Caracciolo, La storia economica, in Dal primo Settecento all’Unità, in «Storia d’Italia», III, Torino 1973, p. 522; G. Galasso, Mezzogiorno medievale e moderno, Torino, 1965, pp. 309-310] Il governo borbonico dovette provvedere all’acquisto all’estero di cereali, che furono trasportati nel regno da navi inglesi. [De Divitiis, Il commercio inglese cit., pp. 10-11.
11 G. M. Monti, La espansione mediterranea del Mezzogiorno d'Italia e della Sicilia, Bologna 1942 pp. 363-364.
12 P. Frascani, Il Mare, Bologna 2008, pp. 25–26.
13 Si tratta della relazione intitolata “Exposition universelle; Industrie; Produits industriels”, Paris 1855.
14 Giustino Fortunato, La questione meridionale e la riforma tributaria, in Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Discorsi politici (1880-1910), nuova edizione a cura di Umberto Zanotti Bianco, Firenze, Vallecchi, 1926, volume secondo, p. 335.
15 A. Lepre, Contadini, borghesi ed operai nel tramonto del feudalesimo napoletano, Milano 1963.
16 B. Salvemini, Ceti mercantili e crescita urbana in terra di Bari (1815-1830), in Atti del 3° convegno di studi. Ill Risorgimento in Puglia. L’età della Restaurazione (1815-1830), Bari 1983, pp. 539-562.
17 L. Palumbo e B. Salvemini, Aspetti del mercato del grano nell’Ottocento borbonico, in A. Massafra (a cura) Mezzogiorno preunitario, pp. 201-227.
18 A. Graziani, II commercio estero del Regno delle due Sicilie dal 1832 al 1858, in Archivio economico dell'Unificazione italiana, Roma 1960, serie I, vol. X.
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sabato 9 dicembre 2017
Osservazioni sul commercio delle Due Sicilie
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venerdì 17 marzo 2017
Una data da ricordare
Propongo ai lettori del Blog questo interessante articolo a firma di Marco Vigna, studioso provetto della storia risorgimentale.
La festa del 17 marzo commemora la data in cui fu proclamato il regno d’Italia nel 1861 sotto Vittorio Emanuele II. Si sente talora affermare che questo sarebbe l’inizio dell’Italia stessa, poiché secondo alcuni tale nazione non sarebbe esistita affatto in precedenza, o quantomeno non sarebbe esistito uno stato italiano. Simili visioni, care in particolar modo ai secessionisti o comunque a coloro che contestano lo stato nazionale predicandone la dissoluzione e la scomparsa, non hanno in realtà fondamento storico alcuno.
È appena il caso di precisare che nazione e stato non sono sinonimi e che la patria o gruppo etnico continua ad esistere qualunque sia la forma politica in cui si trova. L’Italia ha un’esistenza più che due volte millenaria che si esprime sul piano della lingua, dell’onomastica, della toponomastica, della letteratura, dell’architettura, dell’urbanistica, della musica, delle strutture giuridiche, della coscienza collettiva ecc. Essa non nasce quindi nel 1861, essendo pienamente esistente quantomeno dal I secolo avanti Cristo.
Non è neppure vero che l’Italia non fosse mai stata unita prima del Risorgimento. Il 17 marzo del 1861 è il momento in cui il regno d’Italia viene ad essere ufficialmente e giuridicamente ri-costituito, non costituito, poiché esso era già esistito in precedenza e per lunghi secoli. Prima ancora del medievale regno d’Italia questa regione e la sua nazione italiana erano state ambedue unificate da Roma antica per un periodo plurisecolare.
L’Italia viene ad essere unificata sul piano giuridico già sotto l’imperatore romano Ottaviano Augusto, il quale così facendo non fa altro che riconoscere l’ormai raggiunta unità culturale ed etnica nella penisola.
Inoltre, la caduta di Roma non pose termine realmente ad ogni forma di unificazione giuridica dell'Italia, almeno sul piano formale ed ideale. L’impero romano per gli uomini del Medioevo, non era scomparso, ma continuava ad esistere, soltanto in forma mutata. Semplificando al massimo grado per ragioni di sintesi, l’imperium era ritenuto essere stato ordinato da Dio stesso per l’umanità intera ed avrebbe continuato ad esistere sino alla fine dei tempi. L’imperatore quindi non era sovrano soltanto d’alcuni territori, ma di tutta la terra. Di fatto però, era evidente che l’autorità dell’imperatore era riconosciuta solo in alcune regioni e, si badi bene, non perché imperatore, ma in quanto principe, duca ecc. di determinati territori. Il titolo imperiale però era collegato, sempre e necessariamente, a quello di rex Italiae, poiché l’Italia era il centro dell’impero con Roma. Non è un caso che un altro tentativo di ripristinare l’unità politica della nazione italiana avvenne con Federico II di Svevia, che a detta di Ernst Kantorowicz, suo massimo biografo, pensava a sé stesso come “romano” e che fu sia fra i patrocinatori della riscoperta dell’antico, sia fra i promotori dell’italiano letterario. Questo sovrano progettava l’“unio regni et imperi”.
Seppure solo sul piano simbolico e formale, il regnum Italiae (che si era costituito subito dopo la fine di Roma, ma prendendo a base e modello l’anteriore ripartizione politica e giuridica romana) ha conservato la sua esistenza sotto longobardi, carolingi, ottoni ecc. ed anche nell’evo moderno, tanto che la famosa Corona Ferrea venne usata dal VI secolo sino al XIX per l'incoronazione dei re d'Italia.
Inoltre anche nel periodo compreso fra il 568 (data con cui s'interrompe per secoli l'unità politica dell'Italia) ed il 1861 la consapevolezza d’una medesima appartenenza nazionale e l’idea di un organismo politico che riunificasse l’Italia intera non vennero mai meno. Vi furono infatti diversi tentativi in tale direzione: Liutprando, Astolfo, Desiderio, Arduino d’Ivrea, Federico II di Svevia, Cola di Rienzo, Ladislao di Napoli, la repubblica di Venezia furono tra coloro che cercarono di ricreare uno stato nazionale italiano.
Né il concetto di patria italiana, né quello di stato nazionale sono quindi creazioni storicamente recenti, come talora si sente dire. Non solo la nazione italiana esiste da 2000 anni e più, ma la concezione di uno stato italiano unitario è altrettanto antica ed ha continuato ad esistere come aspirazione ideale anche nell’intermezzo fra l’unificazione di Roma antica e quella del Risorgimento.
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martedì 28 febbraio 2017
La pena di morte secondo le leggi penali borboniche
Carlo di Borbone, con la Prammatica del 14 marzo 1738, aveva proibito la tortura e l’uso di pozzi sotterranei per l’isolamento dei detenuti.
Ma la Lex Julia majestatis, introdotta dal suo successore Ferdinando IV come legge dello Stato con rescritto del 21 luglio del 1771, prevedeva pene severissime e torture per chiunque partecipava ad una congiura, escludendo ogni beneficio o diminuzione della pena, e contro i rei si procedeva ad modum belli.
Era questo un rito eccezionale in cui il termine a difesa era brevissimo: conclusa rapidamente l’istruttoria senza osservarne i normali termini, comunicata la sentenza, venivano concesse poche ore al difensore per prendere visione degli atti e preparare la memoria difensiva.
Stimata regina tormentorum per l’intenso dolore che essa procurava, era la tortura acre con funicelle. Si allacciavano dapprima i polsi rivolti dietro la schiena del reo con una cordella rotonda e la si stringeva fino a lacerarne le carni. Poi se ne allacciava un’altra alle braccia e lo si sollevava.
Il destino dei rei non era mai definitivo e poteva mutare in qualsiasi momento o per intercessione diretta del sovrano, spesso su richiesta di un familiare o di persona influente, o tramite la «Giunta per il destino dei condannati».
Tra i luoghi di detenzione napoletani più noti furono la Vicaria, un carcere situato nei sotterranei del Castel Capuano, e quello di S. Francesco, fuori le mura di Porta Capuana, oltre il distretto di Napoli i penitenziari di Procida e di S. Stefano destinati agli ergastolani.
Il Codice per lo Regno delle due Sicilie, promulgato per editto da Ferdinando I di Borbone nel 1819, pur nel formale ripudio di alcune pene, persisteva in tratti ancora profondamente reazionari adottati nelle prammatiche sanzioni dei precedenti anni di reggenza.
Le pene criminali per il nuovo codice erano soltanto l’ergastolo, i ferri, la reclusione, la relegazione, l’esilio dal regno, la interdizione da’ pubblici uffizii, la interdizione patrimoniale e la morte.
Le norme per le esecuzioni capitali erano stabilite nei seguenti articoli:
- Art.4. La pena di morte si esegue colla decapitazione, col laccio sulle forche e colla fucilazione.
- Art.5. La pena di morte non può che eseguirsi in luogo pubblico. Quando la legge non ordina letteralmente che la pena di morte debba essere espiata col laccio sulle forche, espiar si deve colla decapitazione. La pena di morte si esegue colla fucilazione quando la condanna sia fatta da una Commissione militare, o da Consigli di guerra ne’ casi stabiliti dallo Statuto penale militare.
- Art.6. La legge indica i casi ne’ quali la pena di morte si debba espiare con modi speciali di pubblico esempio. I gradi di pubblico esempio sono i seguenti:
- Esecuzione della pena nel luogo del commesso misfatto, o in luogo vicino:
- Trasporto del condannato nel luogo delle esecuzione a piedi nudi, vestito di giallo, con cartello in petto a lettere cubitali indicante il misfatto:
- Trasporto del condannato nel luogo della esecuzione, a piedi nudi, vestito di nero, e con un velo nero che gli ricopra il volto:
- Trasporto del condannato nel luogo della esecuzione, a piedi nudi, vestito di nero, e con velo nero che gli ricopra il volto, e trascinato su una tavola con piccole ruote al di sotto, e con cartello in petto in cui sia scritto a lettere cubitali: l’uomo empio.[1] .
Trascrizione documento
A di 7 di maggio uscì la giustizia da S. Giacomo per eseguirsi come fu eseguita nel largo del Castello in persona di Capitan Santolo Castaldo della Fragola quale fu decapitato e non lascia alcuni. Questo Povero afflitto passò molto travaglio nel morire perché la mannaia le colse sopra le spalle onde fu necessario secargli il collo con un coltello nel che ci volle un pezzo che fu cosa di molta compassione vi intervennero li seguenti fratelli…
giovedì 26 gennaio 2017
Speciale Risorgimento: il presunto saccheggio del sud e il brigantaggio (parte III)
Roma, 26 gen – Terza e ultima puntata di questo speciale dedicato al Risorgimento e alla critica delle teorie anti-italiane. Prima parte: Quando banchieri e inglesi facevano affari con i Borbone. Seconda parte: La spedizione dei Mille e le bufale antitaliane. (IPN)
L’economia e il divario Nord-Sud
Secondo il revisionismo anti-risorgimentale, l’unificazione avrebbe prodotto uno spostamento di ricchezza dal Sud al Nord, che avrebbe generato uno sviluppo economico ottenuto dalle regioni settentrionali a discapito di quelle meridionali. Il punto di partenza è l’ammontare doppio del debito pubblico del Regno di Sardegna rispetto a quello del Regno delle Due Sicilie. Alla formazione del debito pubblico del neonato Regno d’Italia concorsero rispettivamente nella misura del 60% il debito sardo e del 30% il debito duosiciliano, mentre il restante 10% proveniva dagli altri Stati annessi nel 1861. Il tasso d’interesse con cui venivano remunerati i titoli di Stato del Regno di Sardegna, come ricordato dalla studiosa Stéphanie Collet, era conseguentemente più alto[1].
In realtà, come chiarì autorevolmente Luigi Einaudi, il deficit di bilancio delle finanze del Regno di Sardegna si spiega agevolmente alla luce dell’adozione da parte del governo di Torino di una politica che si potrebbe definire keynesiana ante litteram. Cavour intraprese investimenti infrastrutturali pubblici per la modernizzazione del paese e per la sua crescita economica. Il “pareggio di bilancio” borbonico (che tanto somiglia alla sciagurata “austerità” dei nostri giorni) era invece sintomo di una politica immobilista che lasciò il Meridione, fatta eccezione per poche realtà, in uno stato di sostanziale arretratezza:
«La finanza borbonica provvedeva alle opere pubbliche atte a dare un incremento all’economia del paese entro i limiti dell’andamento spontaneo delle entrate al di sopra delle esigenze delle spese ordinarie, sì da far credere che l’opera fosse dovuta a generosità del sovrano; la finanza cavourriana non temeva di anticipare con prestiti l’incremento del gettito tributario o lo provocava con opere di ferrovie, di canali, di navigazione atte ad accrescere la produttività del lavoro nazionale»[2].
I “revisionisti” portano a supporto della loro tesi l’esistenza nel Regno delle Due Sicilie di alcune realtà industriali, tutto sommato isolate all’interno di un contesto economico arretrato e semi-feudale e rette unicamente sulle commesse statali. Esse erano il Cantiere navale di Castellammare di Stabia, il Polo siderurgico e la fabbrica d’armi di Mongiana in Calabria, l’industria tessile di San Leucio presso Caserta, la Reale Fabbrica d’armi di Torre Annunziata, le Ferriere Fieramosca e la Fonderia Ferdinandea in Calabria, la fabbrica metalmeccanica e le Officine ferroviarie di Pietrarsa a Napoli, il Cantiere navale di Castellammare di Stabia, le Fonderie Pisano a Salerno, la Fonderia Oretea e le Flotte Riunite Florio a Palermo. Tuttavia gli addetti dell’industria metalmeccanica nell’Italia del 1861 erano 11.177, concentrati per il 38% nel Regno di Sardegna, per il 24% nel Lombardo-Veneto e solo per il 21% nel Regno delle Due Sicilie. La produzione di cotone si concentrava per il 43% nel Regno di Sardegna, per il 34% nel Lombardo-Veneto e solo per il 15% nel Regno delle Due Sicilie. La lavorazione della seta si concentrava per l’88% nell’Italia settentrionale e solo per il 3,3% nel Regno delle Due Sicilie[3]. Gli studi di Angelo Massafra e Domenico Demarco confermano in ultima analisi che il Mezzogiorno era meno sviluppato rispetto al resto d’Italia[4].
Abbastanza risibile è il presunto e decantato primato ferroviario del Regno delle Due Sicilie, costituito dal fatto che la prima ferrovia in Italia fu la Napoli-Portici del 1839. Si trattò a dire il vero di un’infrastruttura isolata e destinata essenzialmente non al servizio pubblico ma alle esigenze della corte borbonica («giocattolo del Re» l’ha definita Ernesto Galli della Loggia). Pochi anni dopo (1844) il Regno di Sardegna intraprese un ben più serio e organico piano ferroviario. Alla vigilia dell’unificazione (1860) il Regno di Sardegna aveva 850 km di strade ferrate, contro 607 del Lombardo-Veneto, 323 del Granducato di Toscana, 132 dello Stato Pontificio e solo 99 del Regno delle Due Sicilie, alla pari con il piccolo ducato di Parma e Piacenza. La rete ferroviaria borbonica si limitava ai soli centri di Napoli, Capua, Caserta, Castellammare di Stabia, Mercato San Severino e Vietri sul Mare. Dopo soli nove anni di unità nazionale, nel 1870, il governo unitario aveva decuplicato la rete ferroviaria meridionale, estendendola al Sannio (Benevento) e attraverso esso al Molise (Termoli), a sua volta collegato con la costa adriatica settentrionale, alla Puglia (Foggia, Candela, Barletta, Taranto, Bari, Brindisi, Lecce, Maglie) e alla Calabria (Rossano, Cariati). Furono inoltre costruite le linee Reggio-Bianconovo in Calabria e Palermo-Lercara, Leonforte-Catania-Messina e Lentini-Catania. Per quanto riguarda la rete stradale, alla vigilia dell’Unità quella del Centro-Nord era stimata approssimativamente in 75.500 km rispetto ai 14.700 km del Regno delle Due Sicilie.
Gli economisti Vittorio Daniele (Università di Catanzaro) e Paolo Malanima (Consiglio Nazionale delle Ricerche) sono giunti alla conclusione che le economie del Nord e del Sud, per oltre trent’anni dopo l’unificazione, hanno avuto un divario costante stimato in cinque punti percentuali a favore del Nord[5]. Nessun fantomatico “trasferimento di ricchezze” dal Sud al Nord e nessuna “sperequazione” avvennero all’indomani dell’unificazione nazionale, che lasciò le cose come stavano. Solo negli anni ’90 del secolo XIX le due economie del Nord e del Sud cominciarono a divergere a vantaggio del Nord a causa della rivoluzione industriale che interessò in particolare il triangolo Torino-Milano-Genova, favorito dalla vicinanza dei mercati e dei rifornimenti di materie prime dell’Europa settentrionale e centrale. La teoria secondo cui il triangolo industriale Torino-Milano-Genova si sarebbe sviluppato economicamente sottraendo risorse al Sud negli anni successivi all’unificazione, oltre a essere confutato dalle ricerche degli economisti sopra nominati, non spiega peraltro come altre regioni come il Veneto o le Marche siano riuscite a svilupparsi economicamente, come testimoniano i dati ISTAT, fino a raggiungere e anche a superare le città del triangolo industriale.
Un ambito nel quale il divario Nord-Sud era particolarmente marcato fu quello dell’istruzione. Nel 1861, il tasso di alfabetizzazione era del 14% nel Regno delle Due Sicilie a fronte del 37% nell’Italia centro-settentrionale. Sempre nel 1861 il tasso di scolarità dei bambini tra 6 e 10 anni era del 17% nel Regno delle Due Sicilie a fronte del 67% nell’Italia centro-settentrionale. A testimonianza dei forti investimenti nella scuola pubblica effettuati nel Meridione dal Regno d’Italia, dopo 10 anni di unità (1871) il tasso di scolarità dei bambini tra 6 e 10 anni era raddoppiato nell’ex Regno delle Due Sicilie, salendo al 35%[6]. Un’altra dimostrazione di come l’unificazione, pur non riuscendo a risolvere tutti gli atavici problemi del Sud, segnò comunque un progresso per le popolazioni meridionali.
Il brigantaggio
Nell’Italia meridionale dei secoli XVIII e XIX il brigantaggio era un fenomeno endemico, come ricordò Francesco Saverio Nitti: «Ogni parte d’Europa ha avuto banditi e delinquenti, che in periodi di guerra e di sventura hanno dominato la campagna e si sono messi fuori della legge […] ma vi è stato un solo paese in Europa in cui il brigantaggio è esistito si può dire da sempre […] un paese dove il brigantaggio per molti secoli si può rassomigliare a un immenso fiume di sangue e di odi […] un paese in cui per secoli la monarchia si è basata sul brigantaggio, che è diventato come un agente storico: questo paese è l’Italia del Mezzodì»[7]. Al brigantaggio «si dedicavano alacremente migliaia di individui, padri e figli, che nell’assalto ai viaggiatori, alle diligenze e al procaccio trovavano la fonte primaria del proprio sostentamento»[8]. Il governo del Regno delle Due Sicilie fu costretto ad adottare leggi speciali durissime per la repressione del brigantaggio. Il Decreto di Re Ferdinando I n. 110 del 30 agosto 1821 prevedeva, per la «punizione ed esterminio dei briganti» l’istituzione di quattro corti marziali, la pubblicazione degli elenchi dei banditi che potevano essere uccisi da chiunque dietro pagamento di un premio in denaro e pene draconiane e sommarie per varie fattispecie di reato. Il Decreto di Re Francesco II n. 424 del 24 ottobre 1859 conferiva ai tribunali di guerra delle guarnigioni di Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria il potere di processare e condannare secondo le leggi di guerra coloro che si macchiavano dei reati di comitiva armata, resistenza alla forza pubblica, brigantaggio e favoreggiamento al brigantaggio.
I briganti del periodo post-unitario erano dunque in massima parte delinquenti comuni già attivi come tali sotto il precedente governo borbonico, oltre che ex soldati dell’esercito delle Due Sicilie, renitenti alla leva e persino ex appartenenti all’esercito garibaldino. Le cause politiche e sociali del brigantaggio furono numerose, ma certamente la rivolta fu promossa e finanziata dal governo borbonico in esilio, con il sostegno economico dello Stato Pontificio, delle potenze cattoliche straniere e del banchiere Adolf von Rothschild. Non mancarono le trame di un ambiguo agente di Napoleone III di nome Augustin De Langlois, miranti a destabilizzare il Regno d’Italia appena costituito per collocare sul trono di Napoli un esponente della famiglia Murat. Il brigante più famoso fu senz’altro il lucano Carmine Crocco di Rionero in Vulture, delinquente abituale già condannato dalla giustizia borbonica a 19 anni di detenzione e protagonista di vari voltafaccia tra causa garibaldina e causa borbonica.
Una ricostruzione fuorviante e falsificata del fenomeno del brigantaggio lo ha dipinto quasi come un moto di popolo ferocemente represso dai “piemontesi”, intendendo con questo termine le autorità del neo-costituito Regno d’Italia. In realtà, i briganti vessarono e saccheggiarono le popolazioni civili per sostentarsi e si resero responsabili di numerosi eccidi nei centri abitati del Mezzogiorno che ebbero la sventura di subire le loro scorrerie. Come ha ben evidenziato Alessandro Barbero, i funzionari civili, i militari, le Guardie Nazionali e soprattutto i normali cittadini che si contrapposero al brigantaggio non erano certo “piemontesi”, ma salvo rare eccezioni meridionali fedeli al nuovo Stato unitario. La durezza della lotta al brigantaggio non deve tuttavia far dimenticare che i presunti “eccidi” sono riferibili a un numero molto limitato di episodi (quattro per l’esattezza quelli degni di nota: Pontelandolfo e Casalduni, Auletta, Montefalcione, Ruvo del Monte), peraltro sempre consistiti in legittime – e talvolta necessariamente cruente – attività repressive di orrendi crimini, caratterizzati da efferate atrocità e sevizie, commessi dai briganti ai danni di militari o civili.
Il 7 agosto 1861 furono catturate e uccise dai briganti alcune Guardie Nazionali a Pontelandolfo (Benevento). A Casalduni (Benevento) il tenente dell’Esercito Italiano Bracci fu torturato per otto ore, ucciso a colpi di pietra e decapitato. I soldati del suo reparto furono dilaniati a colpi di scure o di mazza, immobilizzati e calpestati vivi da briganti a cavallo e le loro membra appese come trofei per tutto il paese. Il 14 agosto 1861 seguì l’inevitabile repressione da parte dell’Esercito Italiano, che però consistette, contrariamente a fantasiose e non documentate esagerazioni che parlano di centinaia di morti, a soli tredici morti, di cui due in modo accidentale a seguito di incendi sviluppatisi durante la repressione. Il numero di tredici morti, sulla base di documentazione archivistica, è stato stabilito dal ricercatore Davide Fernando Panella e confermato dalla rivista Frammenti del Centro culturale per lo studio della civiltà contadina nel Sannio con sede in Campolattaro (Benevento). Si registra l’esecuzione di quarantacinque tra banditi e fiancheggiatori dopo la riconquista da parte del Regio Esercito di Auletta (Salerno) il 30 luglio 1861. In Irpinia, nel settembre 1860, ad Ariano Irpino e Montemiletto, alcuni criminali avevano ucciso e seviziato alcune decine di cittadini delle due località. I responsabili dell’eccidio si diedero alla macchia e dopo alcuni mesi di clandestinità, occuparono il 5 luglio 1861 Montefalcione e l’8 luglio 1861 Montemiletto, dove sterminarono numerose famiglie di cittadini liberali, tra cui numerose donne e bambini. Il 9 luglio 1861 l’Esercito riconquistò Montefalcione, dove persero la vita un centinaio di banditi e fiancheggiatori tra uccisi in combattimento e fucilati. Anche a Ruvo del Monte (Potenza) la repressione da parte del Regio Esercito scaturì dai crimini commessi dai briganti di Carmine Crocco, che il 10 agosto 1861 massacrarono e decapitarono tredici cittadini e stuprarono numerose donne. Anche in questo caso, trenta tra banditi e fiancheggiatori furono giustiziati.
Il 15 agosto 1863 fu approvata la legge n. 1409 (Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette), chiamata legge Pica dal nome del deputato abruzzese che ne fu il promotore. Il suo campo d’applicazione era l’intero Meridione continentale d’Italia (senza quindi la Sicilia), con l’eccezione delle province di Napoli, Reggio Calabria, Bari e “Terra d’Otranto” (comprendente le odierne province di Lecce e Taranto). Secondo lo storico Salvatore Lupo, la pur severa legge Pica del 1863 ebbe il merito di impedire le fucilazioni sommarie dei briganti e offrì a questi ultimi alcune garanzie di diritto penale sostanziale e processuale seppur nel quadro dell’eccezionalità della situazione, prevedendo peraltro l’esecuzione capitale soltanto nei confronti di coloro che opponevano resistenza armata all’arresto. La legge rimase in vigore fino al 31 dicembre 1865, raggiungendo con efficacia e rapidità gli obiettivi prefissi.
Un episodio poco noto del brigantaggio anti-unitario fu la spedizione legittimista e filo-borbonica guidata dal generale catalano José Borjes nel Meridione d’Italia, sbarcata a Brancaleone in Calabria il 13 settembre 1861 al fine di suscitare una sollevazione contro il Regno d’Italia. La spedizione partì da Malta con la scoperta tolleranza delle autorità britanniche, nonostante le rimostranze delle autorità diplomatiche italiane e con l’incidente diplomatico dell’arresto di due ufficiali della Regia Marina italiana a seguito di un alterco con i redattori di un giornale filo-borbonico pubblicato a Malta. Questo episodio fa giustizia del luogo comune secondo cui la conquista del Regno delle Due Sicilie sarebbe stata favorita dal Regno Unito.
La natura delinquenziale del brigantaggio meridionale è peraltro confermata da Cesare Carletti nel suo libro L’esercito pontificio dal 1860 al 1870 (1904), dove si dà conto dei furti, delle rapine e degli stupri commessi nel Lazio meridionale dalle bande di briganti provenienti dall’ex Regno delle Due Sicilie che, per sfuggire alla repressione dell’Esercito Italiano, varcavano il confine con lo Stato Pontificio, che dovette istituire il corpo speciale degli “Squadriglieri” per reprimerle.
Conclusione
La mistificazione anti-risorgimentale e anti-unitaria, oltre a essere una costruzione piuttosto recente, si dissolve come neve al sole di fronte a una corretta e documentata analisi storica. La denigrazione del periodo più importante della nostra storia nazionale, peraltro, non costituisce certamente un fatto innocente o casuale in un periodo in cui il grande capitale finanziario apolide ha puntato sul superamento degli Stati nazionali e sovrani a favore di organismi sovranazionali controllati dalle élites finanziarie. Non è un caso che, nei venticinque anni successivi al famigerato Trattato di Maastricht, una bassa informazione politico-giornalistica, assolutamente priva di pregio scientifico, abbia tentato di denigrare il processo storico attraverso il quale l’Italia conquistò la sua unità e la sua indipendenza. Gli Italiani del Mezzogiorno devono riscoprire la gloriosa storia del Risorgimento, che tra mille sacrifici ed eroismi ricongiunse i loro avi ai fratelli del Settentrione in una Patria comune. Il modo migliore per riscoprire la sola, autentica e spendibile tradizione politica nazionale, che è quella risorgimentale, consiste nel coltivare la memoria dei grandi patrioti meridionali che con il pensiero e con l’azione parteciparono alla costruzione dello Stato nazionale unitario. Tra loro ricordiamo qui i siciliani Ruggero Settimo, Francesco Bentivegna, Francesco Crispi, Rosolino Pilo e Michele Amari; i calabresi Michele Morelli, Domenico Romeo e Giovanni Nicotera; i lucani Domenico Corrado, Francesco e Giuseppe Venita e Francesco Petruccelli della Gattina; i pugliesi Nicolò Mignogna, Giuseppe Massari, Giuseppe Libertini e Giuseppe Fanelli; i campani Florestano e Guglielmo Pepe, Giuseppe Silvati, Luigi Settembrini, Carlo Pisacane, Carlo Poerio, Giacinto Albini, Francesco De Sanctis, Pasquale Stanislao Mancini, Carlo e Luigi Mezzacapo; gli abruzzesi Gabriele Rossetti, Cesare De Horatiis, Bertrando e Silvio Spaventa; i molisani Leopoldo Pilla e Francesco De Feo. Al loro fianco stanno i 30.000 anonimi e gloriosi volontari meridionali che nel 1860 marciarono vittoriosi dalla Sicilia al Volturno e tutti coloro che prima di loro credettero nell’Italia una e indipendente.
Luca Cancelliere
________________________
Note
[1] Cfr. S. Collet, A Unified Italy? The Investor Scepticism, 2012.
[2] L. Einaudi, Miti e paradossi della giustizia tributaria, Torino 19592, p. 274.
[3] Cfr. A. Caprarica, C’era una volta in Italia, Milano 2010.
[4] Cfr. A. Massafra (a cura di), Il Mezzogiorno preunitario: economia, società e istituzioni, Bari 1988; D. Demarco, Il crollo delle Regno delle Due Sicilie. La struttura sociale (1960), Napoli 2000.
[5] Cfr. V. Daniele – P. Malanima, Il divario Nord-Sud in Italia (1861-2011), Soveria Mannelli 2011.
[6] Cfr. E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, Bologna 2013.
[7] F. S. Nitti, Eroi e briganti (1899), Venosa 1987, p. 9.
[8] A. Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Bologna 2008, p. 222.
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