L’isola di Santo Stefano, di fronte a quella di Ventotene e nell’arcipelago delle isole Pontine, fu adibita a carcere per volontà di Ferdinando IV di Borbone. Questi aveva deciso di deportare gli ergastolani in colonie penali nettamente separate anche a livello geografico dal resto della popolazione. L’incarico di realizzarlo fu dato all’ufficiale del genio Antonio Winspeare ed all’architetto Francesco Carpi.
Il carcere fu ufficialmente inaugurato nel 1795 quando vi furono rinchiusi circa 200 ergastolani. Le dimensioni della colonia carceraria crebbero rapidamente, poiché già nel 1797 a santo Stefano si trovavano 600 detenuti, saliti quasi a mille nel secolo XIX.
Una minuziosa descrizione della vita nella prigione si ritrova nell’autobiografia “Ricordanze della mia vita” dell’intellettuale e politico Luigi Settembrini, che era stato incarcerato per motivi politici sotto Ferdinando II. A Santo Stefano i detenuti politici erano mescolati ai moltissimi comuni, fra cui si trovavano numerosi briganti, attivi sotto la dinastia borbonica. Settembrini ne riporta vividi ritratti.
«C'è un vecchio di 89 anni, nato in Itri, seguace de’ briganti Pronio e fra Diavolo, condannato alla galera sin dal 1800, sta da trentadue anni nell'ergastolo: c'è un altro calabrese di 75 anni, stupratore ed omicida il 1797, brigante col cardinal Ruffo, dannato alla galera in vita il 1802, poi uscito per le vicende politiche, poi capo di scherani, infine gettato nell'ergastolo nel 1825; si vanta di avere uccisi trentacinque uomini. Ci sono molti altri antichi briganti, che ebbero parte ne' terribili fatti narrati dalla nostra storia; ed alcuni di essi portano ancora sui fieri volti e sui corpi le cicatrici avute nei combattimenti, i quali essi narrano a modo loro. Qui dove tutti hanno delitti, nessuno vergogna o teme di confessare i suoi, anzi li dice con orgoglio per mostrarsi maggiore degli altri.»
Costoro, racconta il Settembrini, «s'irritano e s'inviperiscono per la più lieve cagione, per uno sguardo, per una parola, per nulla: e decidono loro contese con le armi. Tutti hanno loro coltelli, che chiamano tagliapane, spesso lunghi quanto una spada».
Non vi erano però coraggio o lealtà: «I loro combattimenti non sono forti, e direi generosamente scellerati, ma traditori e vigliacchi: molti s'avventano su di uno che siede o che dorme, e lo feriscon di dietro; o mentre passa innanzi una porta gli cacciano un pugnale nel fianco.»
Questi briganti e criminali comuni si odiavano ferocemente fra di loro anche per pure rivalità regionali: «le continue risse che nascono per stolte e turpi cagioni, e pel sempre funesto amore di parti; dappoiché questi sciagurati, che una pena tremenda dovrebbe unire, sono divisi tra loro secondo le province: e siciliani, calabresi, pugliesi, abruzzesi, napolitani, si odiano fieramente fra loro, spesso senza cagione e senza offese; e se per caso si scontrano si lacerano come belve e si uccidono. Non si cerca di spegnere questi odi di parte, perché per essi si hanno le spie, si vendono favori, si fanno eseguir vendette, si fa paura a tutti: una è l'arte di opprimere, ed ogni malvagio la conosce.»
La vendetta cadeva anche su uomini incolpevoli: «se un uomo della tua provincia, che tu neppure conosci, si rissa con un altro; costui ed i suoi paesani se per caso t'incontrano su la loggia, nel loro cieco furore, ti corrono addosso perché sei paesano del loro nemico, e ti uccidono.»
Fra questi delinquenti compariva anche tale Moscariello: «Questo brigante detto Moscariello, narra i suoi casi ridendo e schiettamente nel suo nasale ed ispido dialetto. Fu soldato, disertò, prese moglie, e lasciata la zappa si diede con altri a rubare».
La sua attività brigantesca non aveva naturalmente nessun carattere politico od ideale, consistendo unicamente in furti, rapine, sequestri di persona: «narra ad uno ad uno i furti che fece, le persone che egli spogliò, i denari e le robe che prese, e ritenne per sé o diede ai suoi protettori; come una volta essendo nascosto con altri in un macchione per attendere uno che dovevano svaligiare, un povero contadino per caso li vide e conobbe alcuni, i quali tosto lo presero, lo legarono, e condottolo sul monte, egli lo uccise per non essere scoperto; come altra volta uccise quelli che rubò»
Infatti Moscariello ricordava «come è bella la vita del brigante, padrone di tutto, temuto da tutti».
La professione di brigante aveva però i suoi inconvenienti, non ultimo la slealtà che si ritrovava fra i banditi. Moscariello fu infatti tradito da suoi compagni: «come un dì egli dormiva in una grotta, e due compagni, sperando impunità, gli tirarono un colpo di fucile, che gli spezzò l'osso dell'omero sinistro e gli fece larga ferita su la mammella; come egli inseguì i traditori che fuggirono e non osarono finirlo; come stette sei giorni senza curar la ferita che lo ardeva; come ricoverato da un romito invece di vedere un chirurgo, vide i gendarmi che legatelo su di un asino, e messogli sul berretto un cartello dove era scritto “II famoso Moscariello”, lo menarono prigione in Cosenza.»
Anche se incarcerato, Moscariello conservava il suo carattere feroce: «Una mattina svegliandosi sa che la notte è stato ucciso un ergastolano, che gli aveva rubate alcune salsicce: egli si leva, e con feroce sorriso dice: “Ora manderò l'acquavite a chi lo ha ucciso; ed oggi io mi voglio ubbriacare”.»
Articolo scritto da Marco Vigna per il Nuovo Monitore Napoletano.
Articolo scritto da Marco Vigna per il Nuovo Monitore Napoletano.