sabato 21 febbraio 2015

L’accusa di Engels ai Borbone: era sangue italiano sparso nel 1848 a Napoli

Scriveva Friedrich Engels nella lettera inviata a Karl Kautsky, datata 7 febbraio 1882:

"Fino a quando manca l'indipendenza nazionale, un grande popolo non è in grado sul piano storico nemmeno di discutere in modo più o meno serio queste o quelle questioni interne. Fino al 1859 di socialismo in Italia non se ne parlava nemmeno, persino i repubblicani erano pochi, anche se erano l'elemento più energico. I repubblicani sono cominciati a diffondersi solo dal 1861 e solo in seguito hanno dato le loro migliori energie ai socialisti."


L'interessamento di Marx ed Engels per le vicende del Risorgimento italiano fu notevole, soprattutto in relazione agli eventi rivoluzionari del 1848, anno di pubblicazione del loro Manifesto del Partito Comunista.
Riguardo alla vicenda della sollevazione di Napoli, fu Engels a fornirci una cronaca minuziosa di tali eventi in uno scritto del 31 maggio 1848, pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung n. 1, del 1° giugno 1848:
"Le Camere vengono convocate a Napoli. Il giorno dell'apertura deve servire alla battaglia decisiva contro la rivoluzione. Campobasso, uno dei capi della polizia del famigerato Del Carretto, viene richiamato di nascosto da Malta; gli sbirri, con i loro vecchi capì alla testa, ripercorrono per la prima volta dopo parecchio tempo via Toledo, armati e a gruppi, disarmano i cittadini, strappano loro gli abiti di dosso, li costringono a radersi i baffi.
Arriva il 14 maggio, giorno di apertura delle Camere. Il re pretende che le Camere s'impegnino sotto giuramento a non modificare la Costituzione da lui concessa. Le Camere rifiutano. La Guardia nazionale si dichiara solidale coi deputati. Si scende a tratte, il re cede, i ministri si dimettono. I deputati chiedono che il re renda pubbliche, con un suo proclama, le concessioni accordate. Il re promette il proclama per il giorno seguente.
Ma durante la notte tutte le truppe dei presidi vicini entrano a Napoli. La Guardia nazionale si accorge di essere stata tradita; innalza delle barricate, dietro le quali si schierano 5-6.000 uomini. Ma di fronte ad essi vi sono 20.000 soldati, in parte napoletani, in parte svizzeri, con 18 cannoni: fra gli uni e gli altri, per il momento neutrali, stanno i 20.000 lazzaroni di Napoli. Il 15 mattina gli svizzeri dichiarano ancora che essi non avrebbero attaccato il popolo.
Ma in via Toledo un agente di polizia, che si è mescolato al popolo, spara sui soldati; quasi contemporaneamente il Forte di Sant'Elmo inalbera la bandiera rossa e, a questo segnale, i soldati attaccano le barricate.
Ha inizio un'orribile carneficina; le Guardie nazionali sì difendono eroicamente contro forze quattro volte superiori e contro i cannoni dei soldati. Si combatte dalle 10 del mattino fino a mezzanotte; nonostante la grande preponderanza della soldatesca il popolo avrebbe vinto, se la condotta vergognosa dell'ammiraglio francese Baudin non avesse deciso i lazzaroni a unirsi al partito del re.
L'ammiraglio Baudin si trovava di fronte a Napoli con una squadra francese abbastanza forte. La semplice ma tempestiva minaccia di bombardare il Castello ed i forti avrebbe costretto Ferdinando a cedere.
Ma Baudin, vecchio servitore di Luigi Filippo, abituato ai tempi dell'entente cordiale in cui l'esistenza della flotta francese era appena tollerata, se ne restò tranquillo, e così decise i lazzaroni, che già stavano per abbracciare la causa popolare, a schierarsi a fianco delle truppe.
Con questo atto del Lumpenproletariat napoletano, la disfatta della rivoluzione era decisa. Guardie svizzere, soldati di linea napoletani e lazzaroni si gettarono tutti insieme sui combattenti delle barricate.
I palazzi della via Toledo, spazzata dalla mitraglia, rovinavano sotto le cannonate dei soldati; la banda furibonda dei vincitori si riversa per le case, trafigge gli uomini, infilza i bambini, violenta ed assassina le donne, saccheggia tutto ed abbandona alle fiamme le abitazioni devastate. I lazzaroni si dimostrarono qui i più rapaci, gli svizzeri i più brutali.
E’ impossibile descrivere le infamie e gli atti di barbarie che hanno accompagnato la vittoria dei mercenari borbonici, quattro volte più numerosi e meglio armati, e dei lazzaroni, che sono stati sempre sanfedisti, sulla Guardia nazionale di Napoli, che è stata quasi sterminata.
Alla fine, è stato troppo perfino per l'ammiraglio Baudin. Sempre nuovi fuggiaschi giungevano sulle sue navi, e raccontavano quel che accadeva in città. Il sangue francese dei suoi marinai ribolliva. E finalmente, quando la vittoria del re era già decisa, egli pensò al bombardamento.
A poco a poco il macello cessò: non si assassinava più nelle strade, ci si accontentava di rapine e di stupri; ma i prigionieri venivano condotti nei forti e senz'altro fucilati. A mezzanotte tutto era finito, il potere assoluto di Ferdinando era, di fatto, ristabilito, e l'onore della casa di Borbone lavato nel sangue italiano".
E' da rimarcare che Engels, se all'inizio del suo scritto attribuiva all'errore dell'ammiraglio francese Baudin il non intervento dei lazzaroni a fianco dei rivoluzionari napoletani nel corso degli eventi rivoluzionari del 1848, alla fine ha scritto che gli stessi lazzaroni furono di tradizione sanfedista, vittime di un sistema di potere, succubi di una vecchia egemonia conservatrice e reazionaria, senza una minima coscienza di classe tutta da conquistare negli anni a venire, per usare un linguaggio caro ad Engels. Lo stato di ignoranza e superstizione in cui erano stati tenuti da tanti anni aveva fatto sì che i lazzaroni, pur essendo scossi dalla forza dei rivoluzionari napoletani, avevano comunque un background di sudditanza "sanfedista", in cui erano stati inquadrati dal potere da tantissimi anni.
Ci si potrebbe meravigliare dell'espressione "lavato nel sangue italiano" che Engels usa senza esitazione. Chi conosce gli scritti di Engels sul Risorgimento Italiano, invece, è consapevole della valenza che Friedrich Engels attribuiva a quell'espressione. Possiamo dire che, se Metternich considerava l'Italia solo un'espressione geografica, Friedrich Engels era entusiasta della tradizione culturale che l'Italia, pur non essendo ancora Nazione, aveva espresso dal Medioevo.
Basta citare la prefazione al Manifesto del Partito Comunista nell'edizione italiana. In effetti si tratta di un proemio appositamente scritto da Friedrich Engels su richiesta di Filippo Turati, in occasione della prima edizione italiana del Manifesto di Marx e Engels del 1893.
Il “Manifesto”- scriveva Engels- riconosce appieno il ruolo rivoluzionario giocato nel passato dal capitalismo. La prima nazione capitalistica è stata l'Italia.
La conclusione del Medioevo feudale e l'inizio dell'era moderna capitalistica sono segnate da una figura grandiosa: è un italiano, Dante, l'ultimo poeta medievale e insieme il primo poeta della modernità. Come nel 1300, una nuova era è oggi in marcia. Sarà l'Italia a darci un nuovo Dante, che annuncerà la nascita di questa nuova era, l'era proletaria?
Con quell'espressione "sangue italiano" in relazione al sangue versato dai patrioti rivoluzionari napoletani nel 1848 Friedrich Engels intendeva comunicare ed esplicitare un concetto che lui riteneva scontato ed ovvio.

lunedì 9 febbraio 2015

Il "vietato pensare" negli anni dell'antico regime borbonico

Un errore rilevante che fecero i Borbone nel corso degli anni fu quello di estromettere dalla vita pubblica tutte le menti migliori che il Regno delle Due Sicilie esprimeva, e per molto di loro non si trattò di semplice estromissione, ma anni duri di detenzione in varie carceri del Regno, da quelle più noti di Montefusco, Procida, Santo Stefano, Ponza, Avellino, Foggia, Bari a quelle meno note di Marigliano, Baiano, Bovino, Cerignola, Barletta, Molfetta e Andria.
Intendiamo far riferimento ai due brevi momenti costituzionali, a partire dagli anni del 1820-1821 in cui fu data e poi revocata la Costituzione, che aveva espresso, quali rappresentanti, uomini quali Giuseppe Poerio, Galdi, Nicolai, Dragonetti, Arcovito, Netti, Matteo Imbriani, Berni, De Conciliis e tanti altri.
Nel 1848, la momentanea costituzione aveva espresso, quali rappresentanti, le menti brillanti di Carlo Poerio, di Scialoja, Spaventa, Paolo Imbriani, Mancini, Pisanelli, Conforti, Lanza, Blanch, Capitelli, Bonchi, Tupputi, Tarantini, Salvagnoli, Avossa, De Blasiis, Massari, Savarese, Del Re, Baldacchini, Pica, Saliceti, Dragoni e tanti altri, tra cui quelli più rivoluzionari di Zuppetta, Petruccelli, Musolino, Ricciardi, Barbarisi.
Un patrimonio di idee espresse dai tanti eletti dopo la concessione della Costituzione prima in seguito ai moti rivoluzionari del 1820-21 e soprattutto in seguito alla rivoluzione del 1848. Tali uomini furono tenuti lontani dalla vita politica, costretti all'esilio e la maggior parte di loro in stato di detenzione per tanti anni.
Di questa verità da rilanciare in anni in cui si tenta di dimenticare o meglio far finta di non ricordare che il Mezzogiorno fece parte a pieno titolo della graduale e lunga storia del Risorgimento, che dal Sud partirono le radici e gli ideali del Risorgimento, facciamo riferimento a quanto ha scritto al riguardo proprio uno storico borbonico, Giacinto De Sivo.
Scrivendo di Ferdinando II e del suo errore di non far tesoro dei grandi uomini che il Regno esprimeva, invece di costringerli all'esilio o incarcerarli, il De Sivo afferma:
“Temuti gli uomini di testa, s'andò cercando la mediocrità, perché più mogia; non si volle o non si seppe cercare i migliori e porli ai primi seggi. Per non fidarsi in nessuno e per non aver bisogno di intelletto, fu ridotta a macchina di amministrazione il governo. Si credeva così non s'avrebbe mestieri di pensare.”
Insomma durante il passato regime borbonico, secondo lo stesso storico borbonico De Sivo, si temevano le teste pensanti, non si gradiva avere a che fare con gente che pensava con la propria mente, e i nomi citati erano esempi di grandi pensatori, di uomini con la schiena dritta.
Era possibile che patrioti come i tenenti Morelli e Silvati, come Cesare Rosaroll, come i fratelli Poerio non pensassero con la propria testa? Si poteva chiedere a un Luigi Settembrini, ad un Francesco De Sanctis, per citare altri esempi di rinomati patrioti di non pensare con la loro mente?
Il “vietato pensare” dei Borbone provocò l'esilio nel migliore dei casi, e tanti anni di detenzione di uomini abituati a pensare e a sacrificarsi per le proprie idee, perché gli ideali liberali, rivoluzionari avevano scosso l'Europa, e la Costituzione garantiva la libertà di pensiero, la libertà di parola, la libertà di stampa e quanto siamo, noi uomini contemporanei, talmente abituati, assuefatti e a volte ci sembrano parole inutili solo perché nel tempo le abbiamo svuotate della loro essenza. Questo fu l'errore rilevante dei Borbone.
Tale fu la "protesta" di Luigi Settembrini, che uscì provato dal carcere di Santo Stefano solo agli inizi del 1859 per essere inizialmente imbarcato su una nave per New York, dopo otto anni nella prigione di Santo Stefano.