lunedì 13 luglio 2015

Galasso: «Il paradiso borbonico? È solo un’invenzione nostalgica »

Il primo che incontriate per strada o altrove può farvi dotte lezioni sui cento primati del Regno delle Due Sicilie, sulla rapina delle ricchezze meridionali dopo il 1860. Risultato delle clamorose fortune di questa pseudo-letteratura storica (con poche eccezioni)


Che il largo moto di rivalutazione e di fantasiosa nostalgia del Mezzogiorno borbonico portasse a riflessi politici era nella logica di questi fenomeni, ripetuta e verificata in tanti casi in Italia e fuori d’Italia. Per il Mezzogiorno, ciò appariva, anzi, più facile data la rapidissima diffusione di quella rivalutazione e nostalgia, per cui alcuni vi hanno trovato il fortunato appiglio per libri e scritture di scarsissimo o nessun peso storico e culturale, e tuttavia portati dall’onda della moda in materia a tirature e vendite da capogiro. Le clamorose fortune di questa pseudo-letteratura storica, se hanno potenziato il moto di opinione da cui essa è nata, hanno fatto torto, peraltro, alle, invero poche, opere che sulle stesse note di rivalutazione e nostalgia hanno dato (da Zitara a Di Fiore) contributi discutibili o poco accettabili, ma sono state scritte con ben altro scrupolo e serietà. Questa è, però, una legge comune dell’economia, che non risparmia nessun altro campo. Ovunque la moneta cattiva espelle la moneta buona.
Il risultato è che oggi il primo che incontriate per istrada o altrove può farvi dotte lezioni sui cento e cento primati del Regno delle Due Sicilie, sulla rapina delle ricchezze meridionali dopo il 1860. E ancora sul felice stato e sulla lieta vita del Mezzogiorno prima del 1860, sulla deliberata politica di dipendenza coloniale e sfruttamento in cui l’Italia unita tuttora mantiene il Mezzogiorno, e su altre simili presunte «verità», lontane dalla «storia ufficiale».Tutto ciò farebbe pensare a quella quindicina e più di generazioni di meridionali susseguitesi dal 1860 in poi come segregate dalla vita civile e istituzionale dello Stato e della società italiana. Si sa, però, che non è così. Si sa che l’integrazione dei meridionali nell’Italia unita, come per gli altri italiani, è stata profonda, rompendo un isolamento storico che, nel caso di varie parti del Mezzogiorno, durava da secoli. Mezza diplomazia italiana è stata fatta di meridionali. I due migliori capi di Stato Maggiore dell’Esercito – Pollio e Diaz – erano napoletani. Già da dopo la prima guerra mondiale la burocrazia italiana ha cominciato a essere fatta per lo più di meridionali. Quattro presidenti della Repubblica su 12 (De Nicola, Leone, Napolitano, Mattarella), vari capi di governo (da Crispi a D’Alema), innumerevoli ministri, vari e potenti capi di partito sono stati meridionali. Sulle cattedre universitarie e nell’insegnamento la parte dei meridionali si è fatta sempre più ampia.
Si potrebbe continuare, ma conta ben più ricordare che proprio il Mezzogiorno è stato il teatro di maggiore fortuna del nazionalismo italiano: un nazionalismo tanto forte che il partito delle «camicie azzurre» rimase per un bel po’ in piedi accanto al partito fascista prima di confluire in esso; e anche del fascismo rimase a lungo nel Mezzogiorno la traccia. Conta ricordare che il Mezzogiorno è stato la parte d’Italia con maggiore evidenza più legata alla causa monarchica e alla Casa di Savoia anche quando era ormai esclusa ogni possibilità di ritorno monarchico (e non si dica che i meridionali volevano difendere solo l’istituzione monarchica, perché non è vero: l’attaccamento ai Savoia fu manifestato a lungo in modo indubitabile).
Su questo metro, però, non si finirebbe più, e non serve neppure. Il corso delle cose sistema spesso questioni come questa senza quasi darlo a vedere. Ricordate le fiere proclamazioni secessionistiche della Lega Nord? Ora essa parla e si atteggia da forza nazionale, anche se nei confusi termini delle pasticciate velleità da «líder máximo» di Salvini. Il corso delle cose agirà anche sul piano culturale. Come sono passati il nazionalismo delle camicie azzurre e il fascismo, appoggiati dai maggiori e minori nomi della cultura italiana di un secolo fa, e culturalmente ben più forti e provveduti, così passerà anche l’onda della rivendicazione borbonica.
La quale onda rivela, intanto, sempre più la sua macroscopica e inattesa incapacità di dar luogo a un qualsiasi serio movimento politico di qualche, sia pur minima, consistenza. E già questo dice quanto sia debole la sua spinta culturale, benché agiti temi tra i più orecchiabili e utilizzabili in chiave demagogica e tra i più ascoltati e utilizzati a sostegno dei movimenti di tipo «leghista» in Italia e altrove («conquista piemontese» e sue violenze, rapina e sfruttamento dello Stato unitario a danno del Sud, e così via). Da ultimo, poi, si è aggiunto il tema della «nazione napoletana», senza, peraltro, mostrare una sufficiente informazione sulla sua antica e complessa storia, e come se fosse una postuma scoperta di oggi, mentre è il tema di tutta la maggiore e migliore storiografia meridionale, da Angelo di Costanzo nel ‘500 a Giannone nel ‘700, e poi a Cuoco e a Croce, nonché ai continuatori della stessa tradizione.
Tutto a posto, dunque? Tutto si spiega e si vanifica? Evidentemente no. Se nel breve giro di un paio di decenni si diffonde a tal punto una certa moda culturale, sia pure senza capacità di riflessi politici, allora vuol dire che qualcosa non va sotto il nostro cielo. Vuol dire che ci dev’essere un perché più profondo dell’atteggiamento di moda. Le risposte possono essere molte: la sprezzante sfida nordista della Lega, che non poteva non provocare una reazione meridionale; o la progressiva scomparsa del Mezzogiorno dalla più immediata e importante agenda politica italiana; o la conseguente sensazione di un’estrema, definitiva difficoltà a trovare nello Stato italiano, come si era sperato soprattutto dal 1945 al 1990, un modo di compensare e superare le gravi negatività della politica italiana verso il Mezzogiorno dopo il 1860, da subito denunciate dal pensiero meridionalistico; o, ancora, le difficoltà dovute alla non ancora superata crisi di questo Stato, che sul Mezzogiorno per forza di cose si sono ripercosse in peggiore maniera e misura.
La ragione eminente pare, però, sempre più la crisi dello Stato e dell’idea nazionale, in corso dalla metà del ‘900 in tutta Europa, che l’Unione Europea non ha saputo finora superare e compensare in un nuovo quadro etico e politico di uguale forza ideale. Si è verificato così il paradosso di una realtà europea in cui la forza di un persistente nazionalismo degli Stati e delle opinioni pubbliche europee si accompagna a una crisi sempre più diffusa, politica e ideale, dello Stato e dei valori nazionali, che in alcuni paesi (Spagna, Gran Bretagna, Belgio, Italia) è particolarmente forte.
È su questo fronte che appare preoccupante il problema posto dall’antitalianismo borbonizzante. Sul piano culturale lo si può ritenere ben poco vitale e, comunque, destinato a essere superato (e anche omologato in quel tanto di fondato che può essere in esso). Sul piano politico, invece, alla sua incapacità di alimentare un filone politico specifico e consistente, corrisponde la sua forza erosiva e corrosiva dell’idea nazionale italiana, della quale il Mezzogiorno ha tanto partecipato e della quale, nonostante le apparenze, tuttora profondamente partecipa. E da ciò derivano un danno sicuro all’organismo nazionale italiano e un suo indebolimento in Europa, senza che si riesca in alcun modo a vedere che cosa ne venga di buono al Mezzogiorno.
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sabato 21 febbraio 2015

L’accusa di Engels ai Borbone: era sangue italiano sparso nel 1848 a Napoli

Scriveva Friedrich Engels nella lettera inviata a Karl Kautsky, datata 7 febbraio 1882:

"Fino a quando manca l'indipendenza nazionale, un grande popolo non è in grado sul piano storico nemmeno di discutere in modo più o meno serio queste o quelle questioni interne. Fino al 1859 di socialismo in Italia non se ne parlava nemmeno, persino i repubblicani erano pochi, anche se erano l'elemento più energico. I repubblicani sono cominciati a diffondersi solo dal 1861 e solo in seguito hanno dato le loro migliori energie ai socialisti."


L'interessamento di Marx ed Engels per le vicende del Risorgimento italiano fu notevole, soprattutto in relazione agli eventi rivoluzionari del 1848, anno di pubblicazione del loro Manifesto del Partito Comunista.
Riguardo alla vicenda della sollevazione di Napoli, fu Engels a fornirci una cronaca minuziosa di tali eventi in uno scritto del 31 maggio 1848, pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung n. 1, del 1° giugno 1848:
"Le Camere vengono convocate a Napoli. Il giorno dell'apertura deve servire alla battaglia decisiva contro la rivoluzione. Campobasso, uno dei capi della polizia del famigerato Del Carretto, viene richiamato di nascosto da Malta; gli sbirri, con i loro vecchi capì alla testa, ripercorrono per la prima volta dopo parecchio tempo via Toledo, armati e a gruppi, disarmano i cittadini, strappano loro gli abiti di dosso, li costringono a radersi i baffi.
Arriva il 14 maggio, giorno di apertura delle Camere. Il re pretende che le Camere s'impegnino sotto giuramento a non modificare la Costituzione da lui concessa. Le Camere rifiutano. La Guardia nazionale si dichiara solidale coi deputati. Si scende a tratte, il re cede, i ministri si dimettono. I deputati chiedono che il re renda pubbliche, con un suo proclama, le concessioni accordate. Il re promette il proclama per il giorno seguente.
Ma durante la notte tutte le truppe dei presidi vicini entrano a Napoli. La Guardia nazionale si accorge di essere stata tradita; innalza delle barricate, dietro le quali si schierano 5-6.000 uomini. Ma di fronte ad essi vi sono 20.000 soldati, in parte napoletani, in parte svizzeri, con 18 cannoni: fra gli uni e gli altri, per il momento neutrali, stanno i 20.000 lazzaroni di Napoli. Il 15 mattina gli svizzeri dichiarano ancora che essi non avrebbero attaccato il popolo.
Ma in via Toledo un agente di polizia, che si è mescolato al popolo, spara sui soldati; quasi contemporaneamente il Forte di Sant'Elmo inalbera la bandiera rossa e, a questo segnale, i soldati attaccano le barricate.
Ha inizio un'orribile carneficina; le Guardie nazionali sì difendono eroicamente contro forze quattro volte superiori e contro i cannoni dei soldati. Si combatte dalle 10 del mattino fino a mezzanotte; nonostante la grande preponderanza della soldatesca il popolo avrebbe vinto, se la condotta vergognosa dell'ammiraglio francese Baudin non avesse deciso i lazzaroni a unirsi al partito del re.
L'ammiraglio Baudin si trovava di fronte a Napoli con una squadra francese abbastanza forte. La semplice ma tempestiva minaccia di bombardare il Castello ed i forti avrebbe costretto Ferdinando a cedere.
Ma Baudin, vecchio servitore di Luigi Filippo, abituato ai tempi dell'entente cordiale in cui l'esistenza della flotta francese era appena tollerata, se ne restò tranquillo, e così decise i lazzaroni, che già stavano per abbracciare la causa popolare, a schierarsi a fianco delle truppe.
Con questo atto del Lumpenproletariat napoletano, la disfatta della rivoluzione era decisa. Guardie svizzere, soldati di linea napoletani e lazzaroni si gettarono tutti insieme sui combattenti delle barricate.
I palazzi della via Toledo, spazzata dalla mitraglia, rovinavano sotto le cannonate dei soldati; la banda furibonda dei vincitori si riversa per le case, trafigge gli uomini, infilza i bambini, violenta ed assassina le donne, saccheggia tutto ed abbandona alle fiamme le abitazioni devastate. I lazzaroni si dimostrarono qui i più rapaci, gli svizzeri i più brutali.
E’ impossibile descrivere le infamie e gli atti di barbarie che hanno accompagnato la vittoria dei mercenari borbonici, quattro volte più numerosi e meglio armati, e dei lazzaroni, che sono stati sempre sanfedisti, sulla Guardia nazionale di Napoli, che è stata quasi sterminata.
Alla fine, è stato troppo perfino per l'ammiraglio Baudin. Sempre nuovi fuggiaschi giungevano sulle sue navi, e raccontavano quel che accadeva in città. Il sangue francese dei suoi marinai ribolliva. E finalmente, quando la vittoria del re era già decisa, egli pensò al bombardamento.
A poco a poco il macello cessò: non si assassinava più nelle strade, ci si accontentava di rapine e di stupri; ma i prigionieri venivano condotti nei forti e senz'altro fucilati. A mezzanotte tutto era finito, il potere assoluto di Ferdinando era, di fatto, ristabilito, e l'onore della casa di Borbone lavato nel sangue italiano".
E' da rimarcare che Engels, se all'inizio del suo scritto attribuiva all'errore dell'ammiraglio francese Baudin il non intervento dei lazzaroni a fianco dei rivoluzionari napoletani nel corso degli eventi rivoluzionari del 1848, alla fine ha scritto che gli stessi lazzaroni furono di tradizione sanfedista, vittime di un sistema di potere, succubi di una vecchia egemonia conservatrice e reazionaria, senza una minima coscienza di classe tutta da conquistare negli anni a venire, per usare un linguaggio caro ad Engels. Lo stato di ignoranza e superstizione in cui erano stati tenuti da tanti anni aveva fatto sì che i lazzaroni, pur essendo scossi dalla forza dei rivoluzionari napoletani, avevano comunque un background di sudditanza "sanfedista", in cui erano stati inquadrati dal potere da tantissimi anni.
Ci si potrebbe meravigliare dell'espressione "lavato nel sangue italiano" che Engels usa senza esitazione. Chi conosce gli scritti di Engels sul Risorgimento Italiano, invece, è consapevole della valenza che Friedrich Engels attribuiva a quell'espressione. Possiamo dire che, se Metternich considerava l'Italia solo un'espressione geografica, Friedrich Engels era entusiasta della tradizione culturale che l'Italia, pur non essendo ancora Nazione, aveva espresso dal Medioevo.
Basta citare la prefazione al Manifesto del Partito Comunista nell'edizione italiana. In effetti si tratta di un proemio appositamente scritto da Friedrich Engels su richiesta di Filippo Turati, in occasione della prima edizione italiana del Manifesto di Marx e Engels del 1893.
Il “Manifesto”- scriveva Engels- riconosce appieno il ruolo rivoluzionario giocato nel passato dal capitalismo. La prima nazione capitalistica è stata l'Italia.
La conclusione del Medioevo feudale e l'inizio dell'era moderna capitalistica sono segnate da una figura grandiosa: è un italiano, Dante, l'ultimo poeta medievale e insieme il primo poeta della modernità. Come nel 1300, una nuova era è oggi in marcia. Sarà l'Italia a darci un nuovo Dante, che annuncerà la nascita di questa nuova era, l'era proletaria?
Con quell'espressione "sangue italiano" in relazione al sangue versato dai patrioti rivoluzionari napoletani nel 1848 Friedrich Engels intendeva comunicare ed esplicitare un concetto che lui riteneva scontato ed ovvio.

lunedì 9 febbraio 2015

Il "vietato pensare" negli anni dell'antico regime borbonico

Un errore rilevante che fecero i Borbone nel corso degli anni fu quello di estromettere dalla vita pubblica tutte le menti migliori che il Regno delle Due Sicilie esprimeva, e per molto di loro non si trattò di semplice estromissione, ma anni duri di detenzione in varie carceri del Regno, da quelle più noti di Montefusco, Procida, Santo Stefano, Ponza, Avellino, Foggia, Bari a quelle meno note di Marigliano, Baiano, Bovino, Cerignola, Barletta, Molfetta e Andria.
Intendiamo far riferimento ai due brevi momenti costituzionali, a partire dagli anni del 1820-1821 in cui fu data e poi revocata la Costituzione, che aveva espresso, quali rappresentanti, uomini quali Giuseppe Poerio, Galdi, Nicolai, Dragonetti, Arcovito, Netti, Matteo Imbriani, Berni, De Conciliis e tanti altri.
Nel 1848, la momentanea costituzione aveva espresso, quali rappresentanti, le menti brillanti di Carlo Poerio, di Scialoja, Spaventa, Paolo Imbriani, Mancini, Pisanelli, Conforti, Lanza, Blanch, Capitelli, Bonchi, Tupputi, Tarantini, Salvagnoli, Avossa, De Blasiis, Massari, Savarese, Del Re, Baldacchini, Pica, Saliceti, Dragoni e tanti altri, tra cui quelli più rivoluzionari di Zuppetta, Petruccelli, Musolino, Ricciardi, Barbarisi.
Un patrimonio di idee espresse dai tanti eletti dopo la concessione della Costituzione prima in seguito ai moti rivoluzionari del 1820-21 e soprattutto in seguito alla rivoluzione del 1848. Tali uomini furono tenuti lontani dalla vita politica, costretti all'esilio e la maggior parte di loro in stato di detenzione per tanti anni.
Di questa verità da rilanciare in anni in cui si tenta di dimenticare o meglio far finta di non ricordare che il Mezzogiorno fece parte a pieno titolo della graduale e lunga storia del Risorgimento, che dal Sud partirono le radici e gli ideali del Risorgimento, facciamo riferimento a quanto ha scritto al riguardo proprio uno storico borbonico, Giacinto De Sivo.
Scrivendo di Ferdinando II e del suo errore di non far tesoro dei grandi uomini che il Regno esprimeva, invece di costringerli all'esilio o incarcerarli, il De Sivo afferma:
“Temuti gli uomini di testa, s'andò cercando la mediocrità, perché più mogia; non si volle o non si seppe cercare i migliori e porli ai primi seggi. Per non fidarsi in nessuno e per non aver bisogno di intelletto, fu ridotta a macchina di amministrazione il governo. Si credeva così non s'avrebbe mestieri di pensare.”
Insomma durante il passato regime borbonico, secondo lo stesso storico borbonico De Sivo, si temevano le teste pensanti, non si gradiva avere a che fare con gente che pensava con la propria mente, e i nomi citati erano esempi di grandi pensatori, di uomini con la schiena dritta.
Era possibile che patrioti come i tenenti Morelli e Silvati, come Cesare Rosaroll, come i fratelli Poerio non pensassero con la propria testa? Si poteva chiedere a un Luigi Settembrini, ad un Francesco De Sanctis, per citare altri esempi di rinomati patrioti di non pensare con la loro mente?
Il “vietato pensare” dei Borbone provocò l'esilio nel migliore dei casi, e tanti anni di detenzione di uomini abituati a pensare e a sacrificarsi per le proprie idee, perché gli ideali liberali, rivoluzionari avevano scosso l'Europa, e la Costituzione garantiva la libertà di pensiero, la libertà di parola, la libertà di stampa e quanto siamo, noi uomini contemporanei, talmente abituati, assuefatti e a volte ci sembrano parole inutili solo perché nel tempo le abbiamo svuotate della loro essenza. Questo fu l'errore rilevante dei Borbone.
Tale fu la "protesta" di Luigi Settembrini, che uscì provato dal carcere di Santo Stefano solo agli inizi del 1859 per essere inizialmente imbarcato su una nave per New York, dopo otto anni nella prigione di Santo Stefano.