Il delegato borbonico Gaetano Lanzara, nel commentare senza nascondere un certo sdegno i momenti gioiosi che animarono i giorni della Repubblica ad Avigliano in Basilicata, nel 1799, tra l'indignato e l'incredulo scrisse: "Santo Iddio! Anche i ragazzi di Avigliano si avevano imparato e andavano pubblicamente cantando gli obbrobri alla Monarchia e alle sacre persone dei sovrani".
Ciò sta ad indicare che all'esperienza repubblicana di Avigliano del 1799 partecipò un’intera comunità infervorata degli ideali della democrazia repubblicana. La cronaca degli avvenimenti dimostra quanto l’illuminato ceto intellettuale riuscì allora a coinvolgere artigiani, contadini, braccianti. Tanti erano i giovani che frequentavano l’Università di Napoli e tanti avevano interiorizzato la grande conquista del pensiero moderno, partecipando in prima persona ai diversi tentativi di rinnovamento dei costumi e delle idee.
I rapporti fra Avigliano e Napoli, alla fine del 1700, erano molto intensi ed estesi.
Il clima illuministico e giusnaturalistico della città era vissuto dai giovani studenti aviglianesi appieno. Tra di essi vi erano Girolamo Gagliardi, Girolamo e Michelangelo Vaccaro, che fecero parte della municipalità repubblicana aviglianese.
Al fine di rimarcare la consistenza della partecipazione degli aviglianesi al grande dibattito di idee rivoluzionarie, mirate all’affermazione degli ideali di libertà, uguaglianza e democrazia repubblicani, bisogna ricordare che ben 248 repubblicani aviglianesi furono considerati dalla controrivoluzione borbonica “rei di stati”.
Di essi facevano parte non solo il ceto intellettuale e i giovani universitari, ma anche artigiani, braccianti e contadini, i quali, parteciparono alle manifestazioni di piazza, guidate da Girolamo Gagliardi e Girolamo Vaccaro già il 19 gennaio 1799, quando le truppe francesi non erano ancora entrate in Napoli.
Pochi giorni dopo, il 23 gennaio il prete aviglianese Nicola Palomba, che sarà uno dei martiri della Repubblica, era a Napoli con i patrioti repubblicani, investito del grado di commissario democratizzatore del dipartimento di Bradano dal Governo Provvisorio della Repubblica Napoletana.
Ad Avigliano l’Albero della Libertà fu eretto il 5 febbraio, prima della stessa Napoli. La municipalità repubblicana aviglianese fu costituita da Girolamo Vaccaro, Girolamo Gagliardi, Giustiniano Gagliardi, Nicola Francesco Maria Corbo, Francesco Corbo, Padre Tommaso Gagliardi, Diodato Sponsa, Canio Stolfi, Giustiniano Palomba, Nicola Cubelli, Gaetano Mancusi e Maria Nicola Samela.
La Repubblica ad Avigliano durò quattro mesi. Il 12 maggio il brigante Sciarpa entrò in paese per abbattere l’Albero della Libertà, mentre invano gli aviglianesi attendevano gli aiuti dei francesi, che ormai avevano lasciato al loro destino le sorti della Repubblica.
Avigliano si conquistò la gloria di essere stata la parte avanzata del movimento rivoluzionario repubblicano in terra di Lucania a tal punto che il borbonico Lanzara, sconcertato ed incredulo, di fronte alle profonde convinzioni repubblicane del popolo aviglianese, scrisse:
“Si rifletti un poco all’ostinazione del popolo aviglianese. Vide realizzato Picerno, uccisi i fratelli Girolamo e Michelangelo Vaccaro con altri del partito, sente la notizia dei paesani spediti in Altamura di essere stata presa quella città dalle truppe del Vicario del Regno, e ciò non ostante si continuano a costruire cartocci di polvere e palle a dispensare da Giustiniano Gagliardi, Nicola Maria e Francesco Corbo generalmente a tutti li paesani, per poter vincere o morire sotto il vessillo rivoluzionario”.
Gaetano Lanzara, delegato ad indagare sui rei di Stato di Avigliano, non poté fare a meno di confessare che l’indagine” non poteva non riuscire difficoltosa, sì perché, essendo tutti di indole rivoluzionaria, non li faceva animo a quei che han deposto di mordere la sua specie”.
Ancora agli inizi dell’Ottocento, vi furono segnali che riconfermavano la presenza ad Avigliano di un’anima repubblicana che non intendeva arrendersi alla reazione borbonica, dalle “ strane” lettere piene di fiducia nel futuro che i repubblicani aviglianesi rinchiusi nelle carceri di Napoli, di Potenza e di Matera, facevano pervenire ai loro congiunti ed amici.
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giovedì 23 ottobre 2014
Avigliano 1799. Un’intera comunità infervorata dalla democrazia repubblicana
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martedì 7 ottobre 2014
Montefusco, il lager dei Borbone
«Le sue prigioni sono cadenti e squallide.» – scrisse Angelo Ruggi(er)o, nell'anno 1738 e così riporta una lapide sita in Via Seggio.
“Quello era l'elevato ed alpestre patibolo dei Normanni, già definito Spielberg–Borbonico dell'Irpinia. Al romito luogo, soventemente si giungeva in ginocchio e in catene, oppure strisciando e con le carni lacerate e sanguinanti; tutto questo avveniva, perché si era legati ai possenti cavalli dei gendarmi del Re. E persino quei muscolosi destrieri, nonostante fossero abituati a tale travaglio, assai spesso erano provati per le fatiche dovute a quelle impervie mulattiere che, per tutta l'epoca dell'ancien régime, mai videro rotolar su di esse il legno tondo e raggiato d'una qualsiasi “ruota”.
Le strade per Montefusco (AV) in realtà non c'erano, e quei pochi sentieri che fin sopra vi giungevano, erano così stretti che, i cavalli dovevano viaggiare in fila indiana. Erano mulattiere, adatte più ai buoi e alle capre che a questi agili destrieri campestri”.
Così dunque, in un passato mai tropo lontano, si vedevano queste torbide scene di carne, sangue, sudore e dolore. E allora, strette file di guardiani, cavalli di grossa stazza e, poveri uomini striscianti e tenuti in catene, rumoreggiavano zigzagando con affanni, nitriti, colpi di frusta e imprecazioni.
Questi erano i suoni che contraddistinsero l'epoca Borbonica a Montefusco; tali suoni riecheggiavano e creavano sgomento in tutta la valle felice.
Oggi quella valle si chiama, Santa Paolina.
“Soventemente i cavalli scuotendo la testa, manifestavano l'intento di fermare quella marcia tortuosa che, gli procurava sudori e affanni; e allora il gendarme borbonico senza provare pietà, né per gli uomini e nemmeno per le bestie di cui si serviva, con possenti colpi vibrati, sferrati con la normale crudeltà di cui vivevano nel loro quotidiano, costringevano anche i cavalli doppiamente sofferenti, (sia per le fatiche e, sia per l'esser indotti) di salire, lungo tali ripidi strapiombi che circondavano il fosco Monte della Forca Borbonica.
[Dalle scritture dell'Abate Pasquale Ciampi, poi riprese da Palmerino Savoia nel XX° secolo]
Le prigioni Borboniche erano un “carnaio"
[...]. Le carceri del Napoletano erano e sono da considerare come la più nefanda creazione della ingiustizia e della malvagità umana, la negazione d’ogni bene, l’affermazione d’ogni male, bolge d’espiazioni crudeli, affatto prive dello scopo di migliorare i traviati, che anzi servivano viemmaggiormente a pervertirli; fosse a serragli di belve e di efferati tormenti, tali che fantasia di romanziere non giunge a inventar più nefandi, cloache di sozzura e di tristizie, scuole di vizi, d’immoralità, di viltà e prepotenza ad un tempo, dove l’umana carne si gettava ad imbrutire e a marcire, e non per altro che per imbrutire e marcire. Noi stessi, i politici, secondo che la reazione per le sue continue vittorie addiveniva più audace e più avida di vendetta, noi stessi, ripeto, di quella brutta creazione dovemmo assaporare l’immanità sino alla feccia. [...]. «Le carceri del Napoletano non erano, né dovevano esser altro che il “carnaio” dove si perde anima, sentimento, ossa e vita» [Sigismondo Castromediano, Carceri e galere politiche , Lecce, 1895 Tomo I°, pagg. 39, 45]
Tuttavia dei lager del Borbone si parla veramente poco o nulla. Così tuttora, nessuno ci parla mai delle memorie degli altri compagni di cella del Castromediano, e per fare qualche esempio, tace ancora nel buio la monografia intitolata: Raffinamento della tirannide borbonica ossia I carcerati in Montefusco. [Reggio Calabria, Tipografia Adamo D’Andrea, edizione del 1863]
Montefusco negli anni 50 del XX° secolo
L'autore, il calabrese Nicola Palermo, si sofferma parecchio sulla crudeltà borbonica esercitata in particolar modo in Irpinia e proprio in quella Montefusco. La stessa che, è stata recentemente descritta nei libri di P. Antonio Salvatore e da Eduardo Spagnuolo come un’isola felice, beata e tranquilla, devota alla Madonna del Carmelo e fedele alla corona del Borbone. Così si sentono, persino i sospiri nostalgici di certi autori, affiancati dalle chiacchiere fuori luogo del romanzetto “filo-borbonico” di tale dottor Gerardo Figliolino intitolato: Da qua a Dio. [ediz. Albatros 2012]
“Ma il regno del Borbone fu proprio la negazione di Dio!”
E queste durissime parole le troviamo in una lettera di nota memoria storica, scritta dal liberale William Gladstone, che, fu spedita al ministro degli esteri Britannico Lord Aberdeen; quella frase era una sintesi lampante ed efficace, che descriveva l'esito della sua ispezione nelle Regie Galere Napoletane.
I fatti risalgono al 1851, in quella missiva si ravvisavano ogni sorta di violazione, e la mancanza d'ogni diritto, nonché le disumane condizioni in cui erano tenuti i prigionieri del regime Borbonico del Sud Italia.
E così, mentre tacciono nel silenzio le carte di Nicola Palermo, vediamo alcuni «scellerati negazionisti, neo-restauratori del passato e sanguinario regime» riempire di vuoto orgoglio terrone gli ignavi lettori delle loro opere, e poi si vedono produrre, recenti mistificazioni che non si curano affatto della serietà richiesta dall'argomento trattato. Anche perché, queste torture, venivano inflitte assai spesso, proprio agli stessi sudditi Montefuscani, unitamente agli altri dissidenti di altri luoghi che venivano lì forzosamente condotti.
La Regia Udienza fu spostata definitivamente ad Avellino nell'anno 1806, e pure il Borbone che tornò al potere dopo il Congresso di Vienna del 1815, non riportò la centralità giuridica a Montefusco, e così il carcere divenne “mandamentale” ovverosia fatto per trattenere soggetti locali e rei di piccoli reati. E questa linea fu mantenuta dal regime sabaudo, fino alle soglie del Fascismo, durante tale periodo il carcere e il Tribunale lasciarono definitivamente Montefusco, e nel 1928, quel luogo di tortura non risorgimentale, bensì pre-risorgimentale ed “esclusivamente Borbonico” divenne Monumento Nazionale, e poi sede dell'Amministrazione Comunale, che nel massimo della stranezza, preferisce tuttora dirigere il paese da dietro le sbarre del Carcere Borbonico di Montefusco.
Una storia di spiriti e di fantasmi aleggia come leggenda, intorno alla costruzione della Chiesa di S. Maria di Mezzo Mondo nel territorio di Montemiletto. La stessa è tratta dal libro Montefusco dell'Abate Palmerino Savoia. [ediz. di settembre 1972; pagg. 155, 156]
In questo luogo venivano seppelliti i condannati a morte dal R. Tribunale di Montefusco.
Un misterioso avvenimento aveva indotto l'arcivescovo di Benevento G. Battista Foppa a dare alla chiesa quella pietosa destinazione.
Prima i cadaveri degli impiccati magari dopo essere stati squartati e affissi nei trivi delle pubbliche strade, venivano gettati in una fossa comune, detta la carnaia, scavata sulla Serra vicino alle forche.
Intorno all'anno 1665 l'arcivescovo Foppa si recava un giorno da Montemiletto al convento di S. Egidio. Arrivato sulla Serra gli si fecero incontro due signori vestiti alla sgargiante foggia spagnuola, seguiti da molti altri più dimessamente vestiti, dalla apparenza di servi. I due senza qualificarsi, fecero un profondo inchino al Presule e quindi lo pregarono di interporre la sua autorità presso i Magistrati secolari affinché permettessero che i resti degli impiccati avessero cristiana sepoltura nella vicina chiesetta della Pietà (o S. Maria in Piano o di Mezzo Mondo) e non si trascurassero le opere della cristiana pietà verso quelle povere anime.
Fatta la supplica e ripetuto l'inchino si allontanarono. Nonostante le più accurate ricerche eseguite in tutta la zona non fu possibile per l’arcivescovo scoprire chi erano quei due signori e donde erano venuti. Si pensò allora che fossero Anime del Purgatorio apparse sotto forma umana per sollecitare, con la cristiana sepoltura, preghiere e suffragi per le anime dei condannati a morte.
Il fatto, (con la persuasione che si trattasse di Anime del Purgatorio) produsse in tutti una impressione enorme. Anche i Magistrati preposti alla Giustizia umana si convinsero che era poco cristiano il loro modo di comportarsi verso i poveri resti
degli impiccati. Fu allora che la chiesetta con le spontanee offerte delle popolazioni venne adattata alla pietosa destinazione.
Il Card. Orsini ebbe cure particolari per la chiesa di S. Maria di Mezzo Mondo. Rovinata nel terremoto del 1688 la fece riedificare e ampliare e il 20 luglio 1723 la consacrò in onore della Beata Vergine e del Beato (ora santo) Alberto Magno, concedendo 100 giorni d'indulgenza a coloro che avrebbero pregato per i condannati ivi sepolti e 100 giorni a quelli che avrebbero partecipato alle esequie quando i corpi degli impiccati venivano portati alla sepoltura nella chiesa.
L'ergastolo montefuscano divenne presto tristemente famoso e fu addirittura soprannominato lo Spielberg dell'Irpinia, perché rappresentò per i patrioti del Regno di Napoli quello che fu la prigione austriaca, immortalata da Silvio Pellico, a simbolo del tributo di sofferenze che gli Italiani dovettero pagare alla storia per avere una patria unita.
Il presente articolo non è bastevole a dare testimonianza, con esaustiva completezza di particolari, in merito a quello che realmente fu per il Sud Italia, il malgoverno borbonico. Né si può rappresentare in così poche pagine, il significato dell'oppressione esercitata dalla monarchia sulle classi popolari, con tasse gabelle e balzelli vari.
All'epoca esistevano “i privilegi” e i privilegiati; mentre oggi siamo titolari di diritti già dalla nascita. Una volta c'era il popolo dei supplicanti, oggi il popolo manifesta liberamente la sua opinione, e il suo pensiero verbalmente e per iscritto. E chiaramente oggi nessuno si sognerebbe di denunciare l'autore del presente articolo per “Læsa Majestate”, perché la libertà di critica è sancita nella costituzione, perché rappresentare la propria opinione non è reato. E la libertà, è sacra e inviolabile, così come sta scritto nell'articolo n. 13 della Costituzione della Repubblica Italiana.
E poi, se il lettore, è contrario alla pena di morte, e sensibile al tema dei DIRITTI UMANI, non può essere “negazionista” di un olocausto meridionale che vide proprio il Borbone quale maggiore colpevole e maggior responsabile. Se poi pensiamo che, tale ecatombe si svolse in un paese come Montefusco (tra il 1799 ed il 1855), oggi così tranquillo e riservato; allora il lettore rifletta su quale aberrante sistema di governo sia stato il Borbone, proprio per noi, proprio per il Buon Popolo del Meridione d'Italia.
E per concludere, le persecuzioni o le atroci torture perpetrate quotidianamente, durante tale lungo periodo buio della nostra storia nazionale, sono un marchio indelebile di cui s'è macchiata la dinastia Borbonica, e per quest'ecatombe d'Italiani, grandi e piccoli, donne e uomini torturati, trucidati per ordine Regio; il Borbone non ha ancora chiesto perdono, né a Dio, né al Popolo Sovrano dell'Italia risorta.
E se qualcuno dopo aver letto, ancora auspica il suo ritorno, e di spaccare l'Italia, allora concludo con le parole di San Paolo, L'Apostolo de' Gentili:
“Ma poiché essi gli si opponevano e bestemmiavano, scuotendosi le vesti, disse: «Il vostro sangue ricada sul vostro capo: io sono innocente; da ora in poi io andrò dai pagani». [Atti degli Apostoli. 18,6]
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