giovedì 12 dicembre 2013

Il sacerdote – poeta Luigi Rossi martire della Repubblica Napoletana del 1799


Leggendo le motivazioni della condanna a morte del sacerdote - poeta Luigi Rossi , non si può non provare un senso di orrore per come si poteva morire per le idee espresse in forma di poesia civile.








“Luigi Rossi, per essere stato parimenti Ministro dell’Alta Commissione Militare e per essere intervenuto nelle dette tre decisioni di cause capitali; per aver dato alle stampe alcune scellerate composizioni per lo bruciamento delle bandiere e delle sacre immagini reali e di tutti gli scritti favorevoli al trono, e per il Catechismo Repubblicano, e per essere stato finalmente ascritto nei libro dei giurati della Sala Patriottica, è stato condannato ad essere afforcato nella Piazza del Mercato colla confisca dei beni.”
Come si evince dalla condanna, la colpa più grave del sacerdote Luigi Rossi non fu nelle cariche pubbliche ricoperte, ma nella sua attività pubblicistica e di poeta. D’altronde la poesia era per Luigi Rossi l’interesse principale prima e dopo la Repubblica Napoletana del 1799.

Dal 1799 le sue liriche furono dei veri e propri inni alla Repubblica.
 Luigi Rossi, originario di Montepaone in Calabria ove era nato il 20 gennaio 1769 era, come lo descrive Mariano Ayala, dopo aver osservato un suo ritratto ad olio «bellissimo nel viso, occhi scintillanti, ampia fronte, nudo il collo».
Nel seminario di Catanzaro ebbe come insegnante di matematica e filosofia l’abate Gregorio Aracri, che gli infuse il fuoco del libertarismo e al tempo stesso lo iniziò ai misteri della libera muratoria.
Passato in Napoli fu dottore in «utroque iure» e aprì uno studio legale. Ma più che la toga, lo allettarono la passione poetica e l’impegno politico supportato dalle dottrine illuministiche provenienti dalla Francia.
Poco più che ventenne fu membro della Società Patriottica e, quando questa nel 1794 si sciolse, aderì al club giacobino «Libertà o Morte».
Fondò e gestì infine una loggia massonica nel suo paese natio, nel rione Cittadella. Qui, secondo quanto riferirà in seguito l’arciprete sanfedista Gian Vincenzo della Cananea, «questo Luigi Rossi insegnava ai giovani nefande dottrine ultramontane in una misteriosa casa che tra loro chiamavano Sala di Zaleuco».
Luigi Rossi era, però, essenzialmente un poeta che mise la sua ispirazione lirica al servizio della Repubblica Napoletana, dopo un periodo precedente in cui i suoi componimenti erano stati tipicamente arcadici e neoclassici.
Basta ricordare la sua Ode “Il Bacio“ in cui ritroviamo tutto il classicismo della su apoetica. Ben diversi sono i componimenti  “repubblicani” per cui fu condannato alla forca.
“Cittadini nel sangue aborrito/ Beh venite a bagnarvi la mano/ E’ ben folle chi mostrasi umano/ Con chi tratta de’ Regi il pugnal/”Quindi un più che deciso invito a lottare contri i Troni le cui ragioni Rossi esplicita non solo nel Catechismo Repubblicano, ma nel canto “I diritti dell’uomo”:Sono dell’uomo i primi diritti Uguaglianza e Libertà/Non v’è servo né signore/ Vincitor non v’è né vinto/ Sol dall’un all’altro è distinto/ Per comune utilità/.
A seguire un riferimento chiaro allo stato di Natura di Rousseau:
Dallo stato di Natura/ Venne l’uomo alla Città/ Ma non turba il social nodo/ L’uguaglianza de’mortali /Tutti liberi ed uguali /Sono ancora in società/.
Rossi fu autore anche dell’inno ufficiale della Repubblica Napoletana, musicato da Domenico Cimarosa “l’Inno patriottico per lo bruciamento delle insegne dei tiranni”,  che gli attirò maggiormente l’ira vendicativa di Ferdinando IV.

Erano i nobili ideali dell’uguaglianza e della libertà ad animare l’opera poetica del Rossi, convinto che solo il Popolo è sovrano in una democrazia repubblicana , una tesi pericolosa per i Borbone e che avrebbe condotto il sacerdote - poeta alla condanna a morte per impiccagione.
La sentenza di morte fu emessa dalla Giunta di Stato il 10 ottobre ed eseguita  il 28 novembre.
Pubblicato sul Monitore Napoletano, l’autorevole foglio diretto da Eleonora Fonseca Pimentel, l’Inno patriottico fu riprodotto in migliaia di fogli volanti e cantato dai rivoluzionari, il 19 maggio in piazza Plebiscito, alla festa dello «bruciamento delle bandiere borboniche» allorché fu piantato l’albero della libertà.
Con quelle note sussurrate a fior di labbra «il fior fiore intellettuale e morale della nazione», come scrisse Benedetto Croce, salì il patibolo per quello che non a torto viene considerato il primo forte, ancorché debole, impulso al processo risorgimentale.
di Angelo Martino

martedì 10 dicembre 2013

La poesia di Ignazio Ciaia, patriota e martire della Repubblica Napoletana del 1799 Stampa


Ignazio Ciaia (Fasano 1776 - Napoli 1799), martire della Repubblica Napoletana del 1799, era un giovane borghese di buona famiglia che sacrificò ogni ricchezza per la libertà e la causa rivoluzionaria.
Rinchiuso a Sant’Elmo per le sue idee repubblicane nel 1794, superò quei momenti terribili , ritrovando nella poesia una forte  ispirazione al punto che, non avendo strumenti  per scrivere, memorizzava le sue liriche e le ripeteva al compatriota Mario Pagano.
Era una strenua difesa del suo essere, propria di quegli uomini liberi che sapevano ricorrere al sublime nella sofferenza dell’oppressione.
Durante i gloriosi mesi della Repubblica Napoletana Ciaia rivestì la carica di Presidente, dopo Carlo Lauberg.
Dimostrò le sue alte qualità di statista con competenza nell’organizzazione dello Stato repubblicano democratico con l’affermazione dei princìpi egualitari, come testimonia in particolare un proclama del 23 febbraio che contiene le linee generali della costituzione della Repubblica, in un ambizioso progetto di alfabetizzazione degli adulti per “dissipare le tenebre dell’ignoranza”e consentire al popolo di affrancarsi dallo stato di servitù.
Erano le idee di Montesqieu, di Voltaire, ma soprattutto dei grandi illuministi napoletani, da Ferdinando Galiani a Pietro Giannone, da Gaetano Filangieri ad Antonio Genovesi.
La passione per la poesia rappresentava per Ciaia,  un ideale di affrancamento dalla schiavitù sulle orme di Dante, Petrarca e Vittorio Alfieri. Dalla sua produzione poetica si evince il pensiero politico mirato all’instaurazione di un modello di società fondato sulla libertà, l’uguaglianza repubblicana e la giustizia.
La poetica di Ciaia consta di due “momenti”, un primo caratterizzato da toni intimistici, didascalici, e un secondo in cui prevalgono  i temi civili, politici con toni decisamente più riflessivi e sentimenti più autentici.
Una ricorrente malinconia preromantica legata al pensiero della morte pervade le opere scritte durante la prigionia.
Al primo “momento” di poesie appartengono quelle dedicate alla donna amata, Celeste Coltellini:  “Partendo da Napoli per Vienna” ed “Alla luna”,  in cui si ritrova una poetica legata alla tradizione preromantica, dove la natura costituisce una presenza costante nel suo aspetto idilliaco, arcadico.
Il passaggio tra il primo ed il secondo “momento” avviene con la lirica “Al P.D, Emanuele Caputo villeggiante in Portici” dedicata al suo maestro di filosofia, storia e letteratura, dove inizia ad emergere l’impegno prettamente civile, e la natura poetica sentimentale lascia il posto ad argomenti di trattazione propria della poesia illuministica, considerata di carattere più elevata:
“Non fia giovan Vate unica cura /Invocare l’astro condottier del canto, / Sol quando Amor l’alta possanza adopra”
Rivolgendosi al suo maestro, padre benedettino, il poeta mostra tutta la sua riconoscenza per una libertà di pensiero inculcatogli:
“Io da te l’ebbi: tu prima m’apristi Del vero i fonti, e l’avid’alma allora Vide se stessa, e a contemplarsi apprese… Leggiera e snella Vedasi mai dalla prigion dischiusa/ Sulle rinate varianti piume Uscir farfalla e con inastabil giro/ Di siepe in siepe ir visitando i campi? /Ah! Tale io fui, poiché dal lungo assorto Meditar di me stesso, al chiuso spirto/ Concessi alfin la libertà delle ali .”
La si può definire la “lirica della transizione” e  che costituirà l’incipit del secondo “momento” di componimenti degli anni 1794 - 1798, anni di impegno ideale, civile e politico del poeta al servizio della Repubblica- Ignazio Ciaia diventa “il primo poeta civile del Risorgimento”.
Tra questi ultimi componimenti ricordiamo “A Carlo Lauberg”, in cui si rivivono i momenti drammatici della repressione borbonica e della fuga di Lauberg a Parigi ,” Alla Francia” con i successi di Napoleone Bonaparte che riaccedono le speranze di libertà repubblicana. Molto marcato, in questi versi , è l’odio del poeta verso la tirannia, il profondo desiderio di una giustizia sociale, l’amore per la  libertà:
No, non fia ch’io veggia/ Con iniqui intervalli ognor distinte/ La capanna e la reggia/ Né che trapassi ancor la gloria e il merto/ Delle vetuste immagini dipinte/ Non fia che un dritto incerto/Sempre il reo ch’è forte/ assolver deggia/ Alle futuri genti Passi l’esempio di ardir la nostra etade/
“A Vincenzo Notarangelo” e l’ode “ E’ notte alfine” sono poesie intrise di sofferenza per lo stato di prigionia. Il pensiero dell’autore è rivolto alla caducità delle cose umane, la sofferenza dei patrioti, la loro dura sorte. Erano quei sentimenti che aveva avuto modo di esternare nella lettera a suo fratello il 6 marzo 1799, negli anni fulgidi della Repubblica, ma in cui si ravvisava quanta sofferenza, lotta e dolore costasse l’amore per la libertà:
 “Io sto bene ancora, ma ipocondriaco. L’anima mia avrebbe voluto ad un istante tutti felici, ma trovo che sogno sì caro non è facile a realizzarsi. Non mi perdo però di coraggio e tiro al meglio innanzi la gran soma. Dammi di te ottime nuove. Rammentando quanto ti amo, ti sarà facile intendere quanto le aspetti.”
Con la caduta della Repubblica e la restaurazione borbonica Ignazio Ciaia fu dapprima incarcerato, e nonostante una falsa promessa di espatrio in Francia, ascese al patibolo in piazza Mercato  il 29 ottobre 1799. Con lui  Domenico Cirillo, Mario Pagano e Giorgio Pagliacelli, compagni di vita e di morte.
di Angelo Martino