Leggendo le motivazioni della condanna a morte del sacerdote - poeta Luigi Rossi , non si può non provare un senso di orrore per come si poteva morire per le idee espresse in forma di poesia civile.
“Luigi Rossi, per essere stato parimenti Ministro dell’Alta Commissione Militare e per essere intervenuto nelle dette tre decisioni di cause capitali; per aver dato alle stampe alcune scellerate composizioni per lo bruciamento delle bandiere e delle sacre immagini reali e di tutti gli scritti favorevoli al trono, e per il Catechismo Repubblicano, e per essere stato finalmente ascritto nei libro dei giurati della Sala Patriottica, è stato condannato ad essere afforcato nella Piazza del Mercato colla confisca dei beni.”
Come si evince dalla condanna, la colpa più grave del sacerdote Luigi Rossi non fu nelle cariche pubbliche ricoperte, ma nella sua attività pubblicistica e di poeta. D’altronde la poesia era per Luigi Rossi l’interesse principale prima e dopo la Repubblica Napoletana del 1799.
Dal 1799 le sue liriche furono dei veri e propri inni alla Repubblica.
Luigi Rossi, originario di Montepaone in Calabria ove era nato il 20 gennaio 1769 era, come lo descrive Mariano Ayala, dopo aver osservato un suo ritratto ad olio «bellissimo nel viso, occhi scintillanti, ampia fronte, nudo il collo».
Nel seminario di Catanzaro ebbe come insegnante di matematica e filosofia l’abate Gregorio Aracri, che gli infuse il fuoco del libertarismo e al tempo stesso lo iniziò ai misteri della libera muratoria.
Passato in Napoli fu dottore in «utroque iure» e aprì uno studio legale. Ma più che la toga, lo allettarono la passione poetica e l’impegno politico supportato dalle dottrine illuministiche provenienti dalla Francia.
Poco più che ventenne fu membro della Società Patriottica e, quando questa nel 1794 si sciolse, aderì al club giacobino «Libertà o Morte».
Fondò e gestì infine una loggia massonica nel suo paese natio, nel rione Cittadella. Qui, secondo quanto riferirà in seguito l’arciprete sanfedista Gian Vincenzo della Cananea, «questo Luigi Rossi insegnava ai giovani nefande dottrine ultramontane in una misteriosa casa che tra loro chiamavano Sala di Zaleuco».
Luigi Rossi era, però, essenzialmente un poeta che mise la sua ispirazione lirica al servizio della Repubblica Napoletana, dopo un periodo precedente in cui i suoi componimenti erano stati tipicamente arcadici e neoclassici.
Basta ricordare la sua Ode “Il Bacio“ in cui ritroviamo tutto il classicismo della su apoetica. Ben diversi sono i componimenti “repubblicani” per cui fu condannato alla forca.
“Cittadini nel sangue aborrito/ Beh venite a bagnarvi la mano/ E’ ben folle chi mostrasi umano/ Con chi tratta de’ Regi il pugnal/”Quindi un più che deciso invito a lottare contri i Troni le cui ragioni Rossi esplicita non solo nel Catechismo Repubblicano, ma nel canto “I diritti dell’uomo”:Sono dell’uomo i primi diritti Uguaglianza e Libertà/Non v’è servo né signore/ Vincitor non v’è né vinto/ Sol dall’un all’altro è distinto/ Per comune utilità/.
A seguire un riferimento chiaro allo stato di Natura di Rousseau:Dallo stato di Natura/ Venne l’uomo alla Città/ Ma non turba il social nodo/ L’uguaglianza de’mortali /Tutti liberi ed uguali /Sono ancora in società/.
Rossi fu autore anche dell’inno ufficiale della Repubblica Napoletana, musicato da Domenico Cimarosa “l’Inno patriottico per lo bruciamento delle insegne dei tiranni”, che gli attirò maggiormente l’ira vendicativa di Ferdinando IV.
Erano i nobili ideali dell’uguaglianza e della libertà ad animare l’opera poetica del Rossi, convinto che solo il Popolo è sovrano in una democrazia repubblicana , una tesi pericolosa per i Borbone e che avrebbe condotto il sacerdote - poeta alla condanna a morte per impiccagione.
La sentenza di morte fu emessa dalla Giunta di Stato il 10 ottobre ed eseguita il 28 novembre.
Pubblicato sul Monitore Napoletano, l’autorevole foglio diretto da Eleonora Fonseca Pimentel, l’Inno patriottico fu riprodotto in migliaia di fogli volanti e cantato dai rivoluzionari, il 19 maggio in piazza Plebiscito, alla festa dello «bruciamento delle bandiere borboniche» allorché fu piantato l’albero della libertà.
Con quelle note sussurrate a fior di labbra «il fior fiore intellettuale e morale della nazione», come scrisse Benedetto Croce, salì il patibolo per quello che non a torto viene considerato il primo forte, ancorché debole, impulso al processo risorgimentale.
di Angelo Martino