lunedì 27 maggio 2013

“Da Cuoco a Mussolini”

Lo Stato che nacque dal Risorgimento, il Regno d’Italia proclamato il 17 Marzo 1861, poteva considerarsi davvero lo Stato degli Italiani? In altri termini, potevano tutti, gli Italiani, riconoscersi in esso, nelle sue istituzioni, nelle sue leggi, nel modo di “proporsi” ai suoi cittadini? La risposta, purtroppo, non può essere che in minima parte positiva.
Innanzitutto, va detto che, a causa della sostanziale rottura con la Chiesa, dovuta al laicismo dei liberali ed all’intransigente volontà della Chiesa stessa di mantenere inalterato il potere temporale, lo Stato italiano si imponeva alla maggioranza cattolica della popolazione senza trovare in essa il dovuto consenso. Inoltre, va detto che il nuovo Stato non tentò neppure di attenuare l’inaccettabile divario economico, sociale, culturale, tra plebi rurali e urbane (che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione) e ceti medio-alti (che ne erano la minor parte). Si pensi solo all’elettorato attivo, che spettava allo 0,6% della popolazione, per salire appena al 2% quindici anni dopo l’unificazione; cifre, ambedue, assai più basse di quelle dei maggiori stati europei. La nuova Italia nasceva – e lo si dica senza nulla concedere all’esasperato ideologismo della storiografia marxista – con un’innegabile impronta oligarchica: lo Stato degl’Italiani rimarrà, per molti decenni ancora, più una nobile aspirazione che una realtà.
Solo il governo di Mussolini tenterà di trasferire sul piano sociale oltre che politico tale unità conquistata, per creare – attraverso la politica sociale e la Conciliazione con la Chiesa Cattolica - “l’Italia degli Italiani”. Tutta vissuta nella tensione di realizzare compiutamente il Risorgimento nazionale, portando a soluzione, peraltro in un tempo troppo ristretto per riuscirvi, i problemi lasciati aperti da quell’unificazione affrettata e, per molti versi, improvvisata, l’esperienza fascista verrà travolta dall’irrompere sulla scena internazionale di problemi enormemente più vasti ed intricati rispetto alla “provinciale” dimensione italiana e sarà la guerra e il disastro dell’otto settembre, la “morte della Patria”.

Se il primo obiettivo del Risorgimento fu di realizzare un’Italia indipendente, unificata e costituzionale, uno degli ostacoli da superare, uno dei problemi da risolvere non poteva non essere quello di colmare il divario delle condizioni di vita, dello status sociale, tra i ceti dirigenti e benestanti e quelli subalterni, le masse popolari. Esse, economicamente costrette alla mera sopravvivenza, culturalmente analfabete e politicamente inesistenti, andavano recuperate al nuovo Stato con un’opera di rieducazione che partisse da un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita materiali.

Di questo, ben poco si preoccupò il nuovo Stato unitario. Eppure, in tutto il pensiero politico-sociale dell’Età del Risorgimento non erano mancati certo uomini di pensiero e di azione che agitarono tale problema. Si può dire anzi che esiste, tra Ottocento e Novecento, un consistente novero di personaggi che ebbero ben chiara la connessione tra le aspirazioni politiche – indipendenza dallo straniero, libertà costituzionali e unità della Nazione – e l’esigenza di realizzare, in Italia, una società giusta. Di fronte all’astrattismo degl’intellettuali, non mancò certo chi raccomandò e rivendicò i bisogni e i diritti degli umili e dei deboli. Furono scrittori politici e uomini di Chiesa, agitatori e uomini d’arme, educatori e sindacalisti, a costituire la corrente sociale e nazionale del Patriottismo italiano.

Cercheremo di fermare la nostra attenzione su alcuni di questi personaggi, che potrebbero essere accomunati, malgrado le notevolissime differenze, personali e di schieramento, in quella che Diano Brocchi chiamò “anima popolare della rivoluzione italiana”1, una rivoluzione concepita contro ogni gretto materialismo; rispettosa della persona umana e quindi avversa a un collettivismo massificante; fortemente ancorata e radicata nell’identità nazionale italiana contro vaghi e astratti internazionalismi.
Il primo di questi uomini è Vincenzo Cuoco 2. Egli si avvicinò, pur non aderendovi completamente, agli ideali illuministici, fino a collaborare con i giacobini napoletani a creare la Repubblica, su cui scrisse, nel 1806, il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 17993, che finirà per condannare, perché importata pressoché integralmente dalla rivoluzione francese in modo astratto e generalistico e imposta al popolo napoletano, che la respinse con le armi, poiché “una rivoluzione non si può fare senza e contro il Popolo”. Trasferitosi nella Milano napoleonica, vi fondò un “Giornale italiano, in cui agitò i problemi concernenti la formazione di una coscienza nazionale”. All’astrattezza dell’Illuminismo contrappose, via via, l’esigenza di innestare le leggi sulla Tradizione “morale e politica di cui si nutre la vita del paese”, affinché la rivoluzione, pur necessaria, non sia passiva.

Nel Platone in Italia espose i suoi principi educativi che concreterà, nel 1809, in un Rapporto al Re G. Murat per l’organizzazione della pubblica istruzione, dove viene elaborato un progetto di scuola pubblica, uniforme e gratuita, elementare “per tutti”, superiore “per molti” e universitaria “per pochi”; progetto animato dalla convinzione che il popolo partecipi consapevolmente e attivamente alle vicende della sua storia e divenga veramente il costruttore del suo destino: per ottenere questo, si devono anzitutto, ridestare le sue virtù attraverso l’educazione.

Nell’Introduzione al Saggio, Nino Cortese afferma che, per opera del Cuoco “l’amara esperienza del 1799 diveniva utile all’Italia tutta: perché determinò la precisa impostazione di problemi che, ripresi in seguito e con maggior ampiezza e profondità sviluppati, costituirono il tema delle contese politiche, donde sorse la nuova Italia del sec. XIX: l’unica che potesse creare, con la propria, la felicità dell’antico regno di Napoli, pur distruggendone l’autonomia secolare.”. E ancora5, “da questa rinnovata coscienza scaturì anche la persuasione che l’Italia poteva raggiungere e libertà e benessere soltanto se ridotta a forte e indipendente Stato”.

Maestro di Vincenzo Cuoco fu il Vico, al cui pensiero, tuttavia, egli si accostò utilmente solo dopo aver attraversato con attenzione i politici e gli economisti napoletani del Settecento, come il Tanucci e il Galiani, il Genovesi e il Galanti che avevano “fissato in termini ben precisi i problemi politici ed economici del Mezzogiorno, furono severi critici delle ideologie d’oltralpe e mirarono a non allontanarsi mai dalla realtà quale secoli di storia avevano foggiato”. Degli scrittori stranieri, gli furono cari i prerivoluzionari come Montesquieu o gli antirivoluzionari, come Burke o addirittura i controrivoluzionari, come De Maistre6.
Ai tempi della rivoluzione giacobina, testimonia lo stesso Cuoco, “in Napoli eran repubblicani tutti coloro che avevano beni e fortuna. Si pretese cioè di fare una rivoluzione senza il popolo, che non aveva né beni né fortuna, ma aveva bensì dei sentimenti e questi erano controrivoluzionari.”7.
Le condizioni dell’Italia prima dell’invasione napoleonica ne confermano la debolezza, la disunione, l’inettitudine di sovrani e governanti. Una lettera al Russo, uno dei più famosi “patrioti” impiccati dalla reazione borbonica, riporta il testo della Costituzione della repubblica esemplata su quella francese “dell’anno III” per l’Eforato e le altre proposte di Mario Pagano che il Cuoco condivide. Ma il riscatto politico dell’Italia – conclude Vincenzo Cuoco – seguirà solo al suo risorgimento morale e non potrà avvenire che nel rispetto della sua identità storica e della Tradizione.

Merita qui, poi, uno spazio Giuseppe Mazzini, l’apostolo dell’unità d’Italia.
Secondo Diano Brocchi9, la più originale concezione mazziniana fu il perseguimento dell’unità morale di una gente, come l’italiana, costituzionalmente portata verso l’individualismo, la molteplicità, la divisione, la discordia e inguaribilmente faziosa; e proprio la liquidazione della monarchia era il presupposto della rivoluzione sociale... a cui facevano ostacolo le concrezioni castali, ... le classi privilegiate le cui sorti erano storicamente legate a quelle della monarchia. Da qui, la sua Repubblica ideale, “una democrazia organica, accentrata, autoritaria”.
La sua concezione della Nazione è sinteticamente espressa in una noticina a proposito di nazionalismo britannico, riportata da Achille Ragazzoni10, dove il Mazzini osserva come dal Principio di nazionalità sia facile giungere all’esasperazione nazionalistica ed alla degenerazione imperialistica. Se manca una “controparte spirituale che giustifichi la missione di un popolo nel mondo – considerata come fantasticheria metafisica dal pragmatismo inglese, mentre proprio lì è il nocciolo del pensiero mazziniano – ogni nazionalismo si riduce a mera volontà di potenza”.
É a Dante che Mazzini fa risalire il nascere dell’idea di Nazione, come appare dal suo scritto giovanile sull’ “amor patrio di Dante”. Ma ciò che più stette a cuore a Mazzini, fu la formazione del carattere, del costume morale, dello spirito dell’italiano nuovo11. La sola opera sistematica – tra le molte migliaia di pagine dettate dalle esigenze d’informazione, d’organizzazione e di propaganda, legate alle singole contingenze – che Mazzini scrisse, accanto all’opuscolo Fede e Avvenire, dedicato ai giovani, è il trattatello Dei doveri dell’uomo12. Nell’introduzione, Mazzini spiega il perchè della preferenza da lui data ai Doveri piuttosto che ai Diritti come fondamento morale della società nazionale. Far leva sui diritti, a suo giudizio, vuol dire suscitare e coltivare l’egoismo che solo nel momento della loro rivendicazione è forza costruttiva, mentre una volta che essi siano riconosciuti, diviene subito forza disgregatrice e fomite di divisione, non di solidarietà, nella conclusione egli afferma che “la Tradizione, il Progresso, l’Associazione, … cose sacre” sono le forze spirituali che edificano la società nazionale. E nella dedica “a voi figli e figlie del popolo”, “è un’implicita adesione del Mazzini al movimento per l’emancipazione politica e giuridica della donna”. La parola operaio, spiega Mazzini13, non ha per noi alcuna indicazione di classe nel significato comunemente annesso al vocabolo: non rappresenta inferiorità o superiorità sulla scala sociale: esprime un ramo d’occupazione speciale, un genere di lavoro, un’applicazione determinata della attività umana, una certa funzione nella società; non altro. Diciamo operaio come diciamo avvocato, mercante, chirurgo, ingegnere. Tra codeste occupazioni non corre divario alcuno quanto ai diritti e ai doveri di cittadini. … Le sole differenze che noi ammettiamo tra i membri di uno Stato sono le differenze di educazione morale. Un giorno, l’educazione generale uniforme ci darà una comune morale. Un giorno saremo tutti operai, cioè vivremo tutti sulla retribuzione dell’opera nostra in qualunque direzione s’eserciti.”. Egli si staccò dalla Carboneria, alla quale aveva aderito giovanissimo, per l’assenza d’ideali sociali che sospingono il popolo verso la sua elevazione. Divenuto di fatto dittatore della Repubblica Romana, prende subito provvedimenti di carattere sociale, come la requisizione di palazzi ecclesiastici vuoti per alloggiarvi i senza tetto, o di terreni per darli a contadini; alleggerimento di tasse e imposte indirette; elargizione di sussidi statali per i poveri; ma, soprattutto, la rinuncia al suo stipendio di Triumviro. “La creazione di un’alta coscienza popolare in pochissimi mesi della Repubblica, è il suo miracolo”14. Nell’ultimo anno della sua vita, tra il 1871 e il ‘72, Mazzini ispirò e collaborò ad una “Roma del popolo” fondata da Giuseppe Petroni, già perseguitato dal Governo pontificio, esprimendovi idee irredentiste e, perfino, colonialistiche e auspicandovi “il voto universalizzato... [una] tendenza della legislazione a far salire nella via del progresso intellettuale ed economico le classi che più ne abbisognano e incoraggiamento … alle Associazioni operaie, industriali, agricole volontariamente costituite sotto condizione … di patti generali e di moralità e capacità dimostrate, cure speciali date alle terre incolte d’Italia, alle vaste zone malsane, ai beni comunali negletti e creazione, quindi, d’una nuova classe di piccoli proprietari, unificazione del sistema dei tributi in modo da lasciare libera d’ogni gravame la vita, cioè, il necessario alla vita... libera circolazione dei prodotti … sistema economico fondato sul risparmio d’ogni spesa inutile, sull’aumento progressivo della produzione”15. La Repubblica del “vecchio” Mazzini è configurata come una democrazia, interclassista e solidaristica, in cui i rapporti economici vanno orientati verso la concentrazione del Capitale e del Lavoro nelle stesse mani, la trasformazione del lavoro subordinato in lavoro associato (con la partecipazione agli utili dei lavoratori) e la formazione di una Società di piccoli proprietari.
Val la pena sottolineare, concludendo il nostro breve richiamo al Mazzini, la ferma opposizione del patriota genovese al classismo della società britannica, naturalmente accolto anche dagli strati più bassi di essa, “pur politicamente e socialmente assai più emancipati dai loro omologhi continentali”16.
Il punto estremo di quella linea ideale di “sinistra nazionale” che corre, come filo rosso, lungo tutta la storia dell’Italia moderna, dal Settecento alla metà del Novecento, è occupato da Carlo Pisacane 17.
Le brevi e tumultuose vicende - iniziate con la fuga da Napoli con Enrichetta, che egli cercherà di giustificare, in una lettera al fratello18 appellandosi “a quelle leggi naturali che sono le più perfette e sole legittime, giacchè esse furono create da Dio e dalla natura” - gli consentiranno “di farsi una ricca esperienza militare, grazie a cui maturerà in lui un autentico genio della guerra insurrezionale per bande, mentre la conoscenza personale dei socialisti francesi e, forse, dello stesso Marx, gli faranno conoscere un pensiero sociale e politico assai più avanzato di quello mazziniano. Il contatto, infine, colla misera esistenza del proletariato parigino e londinese e la sua stessa, che lo costringe alla temporanea separazione dalla sua donna, ne fortificano il carattere e radicalizzano le opinioni: Pisacane ha acquisito l’esperienza dell’uomo d’azione che ha saggiato, sia pure per poco tempo, le sue coscienti qualità di capo”19. A Roma, egli rimprovera alla Repubblica il troppo amore per quelle mura che “angustiavano il concetto della emancipazione italiana”, perché, i fatti e non le dottrine manifestano la vita delle nazioni e “l’ordine politico deve adeguarsi alla tradizioni, allo spirito, ai bisogni delle Nazioni”, ecco perché l’Italia, la sua libertà se la deve conquistare da sé, con la guerra20. E qui Pisacane si concede un’affermazione francamente discutibile, per sostenere anche su questo tema un primato italiano: “negare agli Italiani il primato in armi è negare la storia”21.
“... indistruttibile cosa è l’unità d’Italia … Nonostante sia rimasta la nostra patria divisa in tanti stati diversi, la storia d’Italia è sempre una. Ogni città ha le sue tradizioni e glorie, ma tutte si assettarono su di un unico ordito”. In una lettera a Francesco Dall’Ongaro22, l’Esule ricostruisce la sua formazione culturale così: “Ho studiato con assiduità … tutti gli economisti e i socialisti e ti assicuro che per ottenere ciò che vuol P. [Pippo, cioè Mazzini] non ci è mezzo termine; gli strumenti del lavoro debbono essere in comune” : la rivoluzione sociale deve, quindi, essere parte integrante della rivoluzione politica nazionale e con essa contestuale. E anche su questa, Pisacane, aveva opinioni, quanto meno, discutibili. “Per mio avviso, la dominazione della Casa di Savoia e la dominazione della Casa d’Austria sono precisamente la stessa cosa”. Pisacane, nel Saggio sulla rivoluzione aveva detto che il popolo avrebbe dovuto prima essere libero e affrancato dalla miseria, poi avrebbe avuto il modo e il tempo d’educarsi. Ed insegnò con l’esempio, nell’eccidio di Sanza che lo aveva tragicamente smentito, che la libertà, prima che con le armi, va conquistata con lo spirito, e prima in sé, per poi indicarla agli altri”23. Ne discende una sorta di socialismo nazionale, dove “insieme all’idea nazionale si era … destata l’idea umanitaria, e soprattutto della nobiltà del lavoro”. Giovanni Lanza, futuro Presidente del Consiglio del Regno d’Italia, scrive alla fidanzata, nel 1847: “La tua rivale è la libertà, l’indipendenza, l’unione dell’Italia, la fraternità di tutti i suoi abitanti, la conquista dei diritti che soli possono rendere prospera la sua sorte futura, riportare una maggiore copia di beni per tutti gli Italiani e far cessare quella disuguaglianza dei diritti che ora mantiene miserabile e ignorante la più parte di loro”, vincendo gli interessi borghesi, gli egoismi di alcune classi sociali che avevano fatto abortire la rivoluzione nazionale.

In conclusione, per Pisacane, “... bisogna abolire la proprietà privata. Solo questa bandiera potrà muovere le masse”24 per la guerra rivoluzionaria e sarà il vero Risorgimento, operato dalla nazione nella sua unità; “un Risorgimento integrale, ordine economico-sociale ed ordine politico inscindibilmente legati insieme” e mossi a guerra di popolo, purché sia guerra libera e per la libertà. Nazionalismo rivoluzionario dalle insanabili antinomie, che solo la morte eroica, scelta con libera volontà, varrà a comporre.
Giuseppe Garibaldi25 è l’ “Eroe dei due Mondi” e non è, ovviamente, il luogo questo per parlarne in generale. Cercheremo solo di ricordarne l’opera in ambito sociale e di chiarire il rapporto in cui egli poneva la società nazionale e lo Stato. Egli conserva ancora, nell’epopea risorgimentale, “il fascino di avventuroso, invincibile e generoso eroe del popolo, leale e buono tra gli intrighi dei ministri, repubblicano nel profondo, anche se alleato della monarchia26.
Sempre animato da ideali di pace e di fratellanza egli si adoperò, facendo leva sul suo prestigio e sull’ascendente di cui godeva presso le masse popolari, per dar vita alle fratellanze operaie e alle Società di mutuo soccorso. Queste società nascono come mezzo di tutela economico-assistenziale dei lavoratori, apparentemente esenti da caratteri e scopi sindacali e, peggio, politici (anche perché spesso illegali...) e volte, invece, a protezione, aiuto e assistenza ai lavoratori; non dipendenti da beneficenza e filantropia esterni, ma autonome e autoorganizzate da parte degli stessi soggetti, destinati a beneficiarne. Essenzialmente volontaristiche sono quasi sempre d’ispirazione mazziniana ma d’iniziativa garibaldina e fioriscono negli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento. Agli stessi criteri rispondono le Società del tiro di segno che, pure, il Nizzardo creò e favorì per restituire l’uso e l’amore delle armi ai giovani italiani, a realizzazione del suo ideale, profondamente popolare e democratico, di Nazione armata.
Nella visione garibaldina era la Società Nazionale che dava vita allo Stato, mero organismo giuridico-politico destinato a servirne e realizzarne i bisogni collettivi, strumento, dunque, e non fine della vita sociale.
Con apparente incoerenza, egli, il Guerriero, è uomo di pace e ordine, perché la pace e la collaborazione tra i popoli aprirebbero la strada all’innalzamento materiale e morale delle classi povere. Egli stesso scrive27 “... non più eserciti, non più flotte; e gli immensi capitali, strappati quasi sempre ai bisogni e alla miseria dei popoli per essere prodigati in servizio di sterminio, sarebbero convertiti invece a vantaggio del popolo in uno sviluppo colossale dell’industria, nel miglioramento delle strade, nella costruzione dei ponti, nello scavamento dei canali, nella fondazione di stabilimenti pubblici, e nell’erezione delle scuole che torrebbero alla miseria ed all’ignoranza tante povere creature, che in tutti i paesi del mondo, qualunque sia il loro grado di civiltà, sono condannate, dall’egoismo del calcolo e dalla cattiva amministrazione delle classi privilegiate e potenti, all’abbrutimento, alla prostituzione dell’anime o della materia.”.
Nel 1867 partecipa, caldamente e insistentemente invitato, ad un congresso pacifista internazionale a Ginevra e vi presenta un programma per la pace e la collaborazione perpetua tra i popoli28. La sua Repubblica era “il sistema della gente onesta, sistema normale voluto dai più, e per conseguenza non imposto colla violenza e coll’impostura29”: per questo egli avversava qualsiasi rivoluzione sociale o guerra civile. La sua adesione all’Internazionale è, in realtà, adesione ad un’Internazionale tutta sua, fondata su quei principi umanitari ai quali si era sempre ispirato. L’apertura di Garibaldi al socialismo si traduce nella sola “comprensione dell’urgenza della questione sociale”30.
Rifiutando l’internazionalismo e l’antiborghesismo rimane semplicemente e … genericamente un democratico repubblicano fortemente legalitario. La massima aspirazione della sua ultima battaglia politica è l’acquisizione del suffragio universale.
L’’azione sociale dell’italiano moderno e, conseguentemente, l’opera dei popoli e delle nazioni sostanziano il tema costante delle lunghe e solitarie meditazioni di Alfredo Oriani31. Nei saggi di Fino a Dogali, egli tratta della crisi religiosa e del mancato sviluppo dell’Italia “risorta”, con i connessi rapporti tra fede cattolica e sentimento patriottico per finire con l’esaltare la proiezione africana della politica crispina, giustificandola col richiamo all’idea imperiale di Roma. Motivo, questo, peraltro già presente, ben prima del Fascismo, nel pensiero politico del nascente nazionalismo italiano. Nella Lotta politica in Italia sono spiegate le ragioni storiche della formazione unitaria italiana, alla luce di “una fede incrollabile nei destini della patria, creatrice di verità”32. In assai diverso contesto culturale, Giovanni Spadolini, che ne fa un rapido e non del tutto convincente ritratto33, avverte che l’Oriani va studiato “come il rappresentante più onesto e appassionato per la grandezza nazionale-popolare italiana fra gli intellettuali italiani della vecchia generazione” e avvalora la sua affermazione riportando un’icastica definizione di Gramsci, che coglie la sostanza profondamente e fortemente mazziniana e garibaldina del solitario scrittore romagnolo, che “aveva rivissuto gli ideali del Risorgimento con lo spirito della Repubblica romana … con l’eroica contrapposizione dell’iniziativa popolare all’iniziativa regia … [senza] accettare nell’intimo il compromesso della soluzione diplomatica e monarchica del processo unitario … con lo stesso empito di passione nazionale e di inquietudine popolare”34. Ma altrettanto presente nello spirito e nel pensiero dell’Oriani è, ammette lo Spadolini, il forte senso dello stato proprio della Destra storica, della Destra hegeliana, dei De Meis e dei De Sanctis, a cui vanno fatte risalire le sue tendenze conservatrici e imperialistiche. L’anima rivoluzionaria, progressista e perfino utopica del Risorgimento, che lamentava l’assenza del popolo dalla vita dello Stato e quella autoritaria e statalista che si richiamava al mito della classicità convivevano antinomicamente nell’Oriani, a conferirgli quella vitalità che si “ricollega tutta a quella capacità di vivere le lacerazioni insolute del Rosorgimento, di riunire in sé le istanze vive della tradizione mazziniana e dello spirito della Destra”35.
Nell’ultima sua opera, la Rivolta ideale … l’urto fra la sua coscienza e le forme sociali del tempo appare evidente: di fronte alla democrazia che dilaga, egli afferma la necessità dello stato forte, supremo regolatore dell’attività sociale; alle concezioni tumultuose oppone il ritmo fatale della storia; alla libertà senza freni, il principio di autorità; all’egoismo e all’edonismo, la morale di Cristo. É antisocialista, antidivorzista, nazionalista, espansionista e imperialista nel senso più nobile; e sa che dall’anima della stirpe sta per sorgere una nuova visione ideale”36. A buon diritto, crediamo, invece, che il Duce abbia visto, in Alfredo Oriani, il suo maestro e precursore. Il Redattore della stessa voce Alfredo Oriani nel più recente Dizionario Enciclopedico Italiano, edito dallo stesso Istituto nel 197037, si limita a stemperare tale interpretazione ideologica dello scrittore romagnolo e a rilevarne il nazionalismo e l’ispirazione imperialistica, che lo fanno noverare tra i progenitori del Fascismo.
Sulla scia della critica al Risorgimento condotta da Alfredo Oriani, il Sindacalismo rivoluzionario38 vede, nella mancata partecipazione al movimento nazionale e al processo di formazione dello stato unitario, l’origine dell’emarginazione e della subalternità dei lavoratori, ossia della maggioranza della popolazione, dalla vita nazionale; e sulla scia del distacco dal materialismo marxista, operato da George Sorel, opta per una concezione spiritualistica della realtà e per una spinta volontaristica al rinnovamento della società italiana per via rivoluzionaria. La partecipazione attiva all’Impresa di Fiume e la sua formulazione della Carta del Carnaro di Alceste De Ambris39 costituiscono il modello più concreto dello Stato sindacale sognato dai sindacalisti rivoluzionari40.
Si dice comunemente che il Sindacalismo rivoluzionario italiano si ispiri all’opera del Sorel e direttamente ne dipenda41. Più che di dipendenza, crediamo sia il caso di parlare di forte analogia42. Le radici più lontane del Sindacalismo rivoluzionario italiano sono, infatti, in Mazzini, Pisacane, Garibaldi, Oriani, ossia nel pensiero sociale e politico della sinistra nazionale italiana dell’Ottocento, a cui attingerà, nello stesso primo decennio del Novecento, il giovane Mussolini, dubbioso e comunque “eretico” lettore di Marx in quegli stessi anni in cui sarà parte viva del Partito Socialista. Come scrisse Tullio MASOTTI43, “il movimento sindacalista rivoluzionario (…) non fu un movimento strettamente e piattamente sindacale ed economico; fu, soprattutto, un movimento profondamente ed essenzialmente spirituale e politico”. Nessuna meraviglia, pertanto, se, attraverso la riscoperta della Patria, mediante l’Interventismo, vediamo De Ambris e i suoi compagni sindacalrivoluzionari passare ad un Sindacalismo nazionale. “La Guerra come grande occasione rivoluzionaria, certo, ma in particolare, per il proletariato italiano, per porsi a protagonista, finalmente, della storia nazionale. Il punto d’incontro tra Nazione e Lavoro è qui, nella scoperta che, per l’Italia, la “questione sociale” coincide con la “questione nazionale”, s’identifica con essa; in una conferenza del 18 Agosto 1919 De Ambris vedrà, nella guerra, il “primo passo per svecchiare le istituzioni borghesi e Corridoni, dal carcere, concorderà con lui”44. Si operò, in tal modo, secondo la ricostruzione del Furiozzi45, “il distacco del Comitato per l’azione diretta sindacalrivoluzionaria dalla Confederazione Generale del Lavoro per creare un nuovo sindacato, di tutte le organizzazioni operaie estranee alla C.G.dL.
Per “iniziare seriamente la realizzazione dell’Unità Proletaria italiana sulle […] basi dell’aconfessionalismo, dell’apoliticismo di partito e dell’autonomismo sindacale” e fu l’U.S.I. (Unione Sindacale Italiana), con cui “il sindacalismo rivoluzionario tendeva a diventare movimento alternativo al Sistema”.
Il processo di distacco del Sindacalismo rivoluzionario italiano dall’eredità ideologica marxiana e dal pacifismo internazionalista è, tuttavia, lungo, complesso e non privo di ripensamenti. Ancora al 2° congresso dell’Unione Sindacale Italiana, vengono costituiti, nel 1913, Sindacati Nazionali d’industria, previsti nello Statuto dell’USI, fin dal 1911; l’intesa con le altre forze rivoluzionarie del Paese è ancora operante e nell’imminenza della “Settimana rossa” di Ancona (7-14 Giugno 1914), l’ “unità d’intenti” tra Alceste De Ambris, Filippo Corridoni e Benito Mussolini ne conferma il carattere nettamente eversivo. La Patria verrà scoperta, da questi generosi combattenti della causa proletaria, solo nell’ardente clima del dibattito per l’Intervento, nella primavera del 1915, quando essi comprenderanno che “La Patria non si nega ma si conquista”. È Filippo Corridoni, l’Arcangelo del Sindacalismo46, il primo ad affermarlo. È lui che opererà il recupero alla Nazione del suo popolo lavoratore, recupero che doveva passare attraverso altre esperienze; è lui il personaggio che simbolicamente era destinato a rappresentare fisicamente il ricongiungimento della Questione Sociale a quella Nazionale, vivendolo e soffrendolo nella propria carne.
“La storia di Corridoni è la “storia di sentimenti, di ideologie, di atteggiamenti morali e culturali di una generazione inquieta ed ansiosa di trovare uno sbocco al suo tormento”(CURCIO, 1943), la storia del sindacalismo rivoluzionario appunto”47.
Personaggio oggi, purtroppo, quasi scomparso dalla memoria popolare, il Tribuno è, tuttavia, sul piano storiografico ancora controverso e conteso: la Sinistra, sulla base di tutta la sua breve vita di sindacalista rivoluzionario e di agitatore politico, sovversivo e pacifista, lo rivendica – pur con scarsa convinzione – a sé, come difensore degli umili. La Destra “sociale”, dal Fascismo al MSI, lo ha sempre considerato – a dir vero, con qualche ragione in più – uno dei Suoi Migliori. Amico e collaboratore del giovane Mussolini, sposò l’ideale social-nazionale proprio dei sindacalisti rivoluzionari soreliani, a cui direttamente si era ispirato il primo Mussolini. Numerose biografie gli furono dedicate nel Ventennio, fino a farne un vero e proprio mito e “non certo per arruolare formalisticamente e strumentalmente post-mortem un anticipatore nelle proprie schiere, ma piuttosto perché le radici sindacal-rivoluzionarie furono, nel fascismo, vaste e profonde”48.
A quasi un secolo dall’eroica morte sul campo di Corridoni, è tempo di “collocare” la sua affascinante figura – al di là di ciò che se n’è scritto e detto, da Destra e da Sinistra – nella storia del pensiero repubblicano italiano degli ultimi due secoli, ricostruendone la più profonda coerenza e unità spirituale, che risiede, innanzitutto, nella sua scelta per la Repubblica: non a caso, il suo scritto più organico è Sindacalismo e Repubblica, pubblicato a Parma, nel 1921, ma scritto in carcere, a San Vittore, nel 1915. “Ho nutrito idealità repubblicane fin dalla prima fanciullezza”, scrive a Luisa Pepi, “la donna amata”. Repubblica, Democrazia diretta, Nazione armata, sono questi i fondamenti del suo pensiero politico. Corridoni va collocato nella linea di Socialismo Nazionale, che nasce con Carlo Pisacane e sfocia nell’Interventismo rivoluzionario. Egli stesso lo spiega ampiamente in un articolo della Avanguardia del 5 Dicembre 1914, di cui ci limitiamo a citare questo breve passaggio: “... l’attuale guerra può spianare la via della rivoluzione sociale, eliminando gli ultimi rimasugli della preponderanza feudale, colpendo in pieno il principio monarchico, infrangendo le necessità storiche che resero possibili gli eserciti permanenti”. La guerra, grande occasione rivoluzionaria per il Proletariato italiano, costituirà altresì l’opportunità per proporsi, finalmente, protagonista della storia nazionale. Il punto d’incontro tra Nazione e Lavoro è qui, nella scoperta che, per l’Italia, la “questione sociale” coincide con la “questione nazionale”, s’identifica con essa. Nella biografia intellettuale del tribuno marchigiano, il punto d’incontro tra il primo Corridoni, pacifista, socialista, internazionalista, e il secondo, interventista, sta nella riscoperta della Patria.
La sua biografia – vera e propria avventura spirituale – potrebbe costituire, infatti, un valido esempio, un terreno d’incontro per una storia italiana, finalmente davvero condivisa, né celebratoria “storia dei vincitori”, né revisionistica “storia dei vinti”. Crediamo, infatti, che non si possa non ammirare profondamente una personalità così pura e generosa, una coscienza tanto adamantina, una coerenza di vita e di pensiero di tale rigore, che l’eroica fine, alla Trincea delle Frasche, il 23 Ottobre 1915, suggellerà nell’estremo gesto in cui lo raffigura il monumento parmense, “come per andare più avanti ancora”. Tutti, in realtà, hanno sempre amato l’ “Arcangelo del Sindacalismo”, che è divenuto in tal modo un vero e proprio Mito nazionale.
Nessuno degli uomini che abbiamo conosciuto fin qui - fatta eccezione per Giuseppe Mazzini, dittatore di fatto nei pochi mesi della Repubblica Romana del 1849 – ebbe modo di tentare la realizzazione concreta del suo pensiero politico esercitando il governo. Il solo che ebbe la ventura di farlo per un lungo arco di anni e in maniera praticamente assoluta è Benito Mussolini49. Sarebbe del tutto fuori luogo – di fronte all’imponenza della bibliografia mussoliniana – cimentarsi in questa sede, anche solo limitandosi al tema che ci siamo proposti, in una relazione esaustiva, per ampiezza e profondità. Preferiamo affidarci alla rilettura di una biografia, purtroppo poco nota ma estremamente illuminante, sulla formazione del Personaggio, che tenta di sottrarlo alla perdurante damnatio memoriae, per ridargli i suoi reali contorni umani e storici e ricollocarlo nella sua epoca50. Si può rintracciare in essa51 “un filo interpretativo utile a disegnare il ritratto politico e culturale di Mussolini ma anche a legare l’azione mussoliniana alla tradizione del Risorgimento, alla lezione storica dello Stato liberale postunitario, dello Stato di Crispi prima ancora che di Giolitti, alla ribalta internazionale in cui deve recitare la sua parte l’Italia-Nazione”.
Citando lo storico antifascista Nello Rosselli52, il Nostro afferma che “la presenza e il punto di partenza per il singolare cammino di Mussolini” sta “nella storia delle masse operaie e contadine che finalmente entrano, sia pure da ribelli nella vita della nazione”, mantenendosi, comunque [attraverso Mazzini e Garibaldi], nel solco della tradizione del Risorgimento”53. Il socialismo nasce nel giovane Mussolini dalla ribellione54 contro la dieta del contadino romagnolo fatta di “una minestra di verdura a mezzogiorno … un piatto di radicchi di campo alla sera … e solo la domenica un mezzo chilo di carne di pecora per il brodo … e un pugno di granturco bollito55. Ma si sostanzia delle idee trasmessegli dal padre, il fabbro Alessandro, che “lascerà al figlio un’eredità morale e politica fondamentale per la comprensione del suo futuro itinerario””. Fin dall’adolescenza, Mussolini appare “come preso dalla perenne evoluzione e rimeditazione dei propri pensieri, una personalità dinamica e inquieta, impegnata in un incessante, insoddisfatto sviluppo”. Non si tratta di esasperato pragmatismo né di attivismo privo di principi: è, invece, “il tratto saliente e genuino di una personalità che muta nelle sue manifestazioni e non nella sua essenza, e cerca di risolvere il problema del suo tempo, stretto nella morsa di formule e dogmi tanto forti da paralizzare le anime e condizionarne l’azione”56. Ci troviamo di fronte ad un’anima aurorale: la natura, il paesaggio, gli orizzonti dell’infinito che nel suo sangue romagnolo sviluppano il sentimento della solitudine: nasce – in un misto di ribellione e di violenza – l’ “eretico” impastato di giacobinismo, positivismo, carduccianesimo, orianesimo.
L’idea già presente nel pensiero mussoliniano “è certamente da individuare nel socialismo, ma esso non sarà inteso come ideologia, appunto come formula, quanto come aspirazione ad una elevazione del popolo, alla creazione di una società più giusta, alla giustizia sociale: il filo rosso di una prassi, cioè, non legata appunto a dogmi, ma al movimento reale della storia, secondo l’insegnamento vichiano”. Il pensiero di Marx è, per Mussolini, “un momento verso il perseguimento di una vita rivoluzionaria da praticare e raggiungere nel fiume della storia, non nello schema dell’ideologia”57. Ma giustamente osserva Enzo Erra58, che Mussolini trae “dalle più diverse correnti di pensiero ciò che gli occorre per nutrire e sviluppare una sua propria linea originale e personale: una linea che non è un compromesso tra tendenze diverse, ma una tendenza autonoma, che deve soltanto a lui il suo disegno e il suo contenuto … il pensiero pensante gentiliano sembra attuarsi nella mente e nell’azione di Mussolini, e prefigurare il futuro incontro tra il politico che fonda il Fascismo e il filosofo che lo interpreta. É nel raccoglimento operoso di Oneglia, dove – dopo la breve esperienza di maestro elementare a Gualtieri e quella dolorosa ma feconda di manovale emigrato in Svizzera – aveva ottenuto un incarico per l’insegnamento del Francese, che maturerà – attraverso la prima lettura di Sorel – il distacco dal socialismo “scientifico” marx-engelsiano, col suo determinismo economico, e la formazione di “un socialitarismo capace di liberare da vincoli letterari il libertarismo da isolati dei suoi protagonisti”. E il mito di Sorel “gli si configura legittimamente quale riprova di come una rivoluzione debba prodursi per fornire un supplemento d’animo nell’ingigantito corpo del proletariato”: è l’esaltazione della violenza come irrinunciabile forza rivoluzionaria . “La nuova società non potrà uscire dall’involucro della vecchia se non spezzandolo”59. Né è da sottovalutare l’importanza “dello sciopero agricolo parmense del 1908, che gli mostrerà la realtà del suo mondo contadino: manca, per lui, e in Giolitti e nel partito socialista, una vera “politica nazionale”.
“Non si può comprendere il futuro itinerario ideologico e politico di Mussolini … se non si ha, come punto fermo d’interpretazione, la chiarezza intellettuale e la ferma convinzione che egli ha già maturato nel suo animo e nel suo intelletto circa i termini e il significato della rivoluzione nel XX secolo”60. Assai più determinante sarà, tuttavia, l’incontro con Cesare Battisti, nel periodo trentino, che gli consente di conoscere l’irredentismo antiasburgico, aperto a una visione europea, a svecchiare e animare il tardo socialismo asburgico e ad incrementare – anche attraverso l’incontro/scontro con De Gasperi – il suo anticlericalismo. Il contatto con l’idealismo crociano e la collaborazione alle riviste fiorentine (La Voce, soprattutto) gli permettono di meglio conoscere l’Italia e, quindi, meglio partecipare alla formazione della coscienza nazionale. Infine, la riscoperta di A. Oriani, con la lettura della “magnifica” Rivolta ideale, che gli fa riconfermare l’appartenenza al sindacalismo rivoluzionario piuttosto che al burocratico socialismo ufficiale. “Dalla dura scorza dell’eversore esce … lo spirito potente del costruttore, per il quale il suo ideale incomincia a raffigurarsi come realtà”61.
Direttore della Lotta di classe e capo della sezione forlivese del PSI, già nel 1910, Mussolini guarda “con simpatia ad un nazionalismo all’interno, un movimento democratico, culturale di rinnovamento, di raccoglimento e di rinnovazione del popolo italiano”62: l’influenza della Voce è evidente. Ma, nel pensiero del giovane responsabile del socialismo forlivese, si affaccia anche l’antiparlamentarismo, sotto la forma della denuncia della crisi politica e morale della “Camera dei malfattori”, per il gran numero di deputati coinvolti in reati comuni. Neppure il sindacalismo rivoluzionario è risparmiato dal sarcasmo mussoliniano, che considera giunta alla fine la sua stagione, “con la vecchiaia di Sorel”63. Ma bersaglio principale della polemica di Mussolini è il suo stesso partito: “La crisi del socialismo è tutta in una nozione diversa del divenire socialista che ci divide. V’è chi crede nello Stato, noi crediamo nella Lega di resistenza”. Così cita il Tricoli64 e prosegue “... la rivoluzione politica e sociale in Italia rimane per lui una meta irrinunciabile, rispetto alla sfocata e insulsa politica frenetica del Partito socialista destinato a confermare il blo di potere esistente e a non sciogliere i nodi istituzionali, politici, economici e sociali dell’Italia nata dal Risorgimento”. In carcere, per la condanna comminatagli, nel 1911, in seguito al sabotaggio della Campagna di Libia, Mussolini legge e medita su tutto il pensiero socialista dell’Ottocento e afferma come esso non si identifichi né esaurisca in Marx: “... Carlo Marx non è necessario al socialismo. Anche quando si … riuscisse a polverizzare le sue dottrine, il socialismo continuerebbe egualmente la sua marcia trionfale nel mondo dei lavoratori. Noi non siamo né teologi né sacerdoti, né bigotti del verbo marxista”65. “Accanto alla crisi dottrinale c’è una crisi d’azione”, scrive Mussolini il 10/XII/1910 a Cesena66. “L’avvenire le risolverà entrambe. L’avvenire sarà socialista”. Di fronte o parallelamente alla crisi del Partito Socialista, negli anni che precedono la prima guerra mondiale, Benito Mussolini vive una sua forte crisi personale: egli è ben più avanti del partito, la cui crisi – a suo giudizio – si esaurirà nella conservazione, mentre la sua eresia porterà alla rivoluzione sociale67. Il suo intervento al congresso del P.S. a Reggio Emilia, nel 1912, determinante per l’espulsione della Destra riformista di Bonomi e Bissolati, sarà tanto lucido, coerente e risolutivo da far dire al Giornale Nuovo di Firenze che, con lui, “il barbaro e subalterno mondo proletario, ancora nel sottosuolo della storia, ha trovato il suo duce”68 . di questi anni è anche – attraverso gli scritti di G. Salvemini – la scoperta del Mezzogiorno d’Italia e del Meridionalismo, che “gli imporrà la conoscenza dal vivo dell’intera realtà italiana”69. Con tali acquisizioni Benito Mussolini assumerà, il 1° Dicembre del 1912 la Direzione dell’Avanti!.
Enzo Erra vede nella concezione politica di Mussolini i caratteri del pensiero pensante gentiliano70, con questi passaggi: “Oltre Marx e Nietzsche, dalla classe alla Nazione e dal neutralismo all’interventismo e alla fondazione del Popolo d’Italia. L’esperienza della guerra farà nascere in Mussolini l’ “Homo novus” e il primo fascismo: “la Patria ai combattenti”. La vittoria mutilata e i Fasci di combattimento, i tre anni di guerra civile tra Fascismo e Bolscevismo; tra Giolitti e D’Annunzio: lo squadrismo e la Marcia su Roma, fino all’ascesa al potere, il 28 Ottobre del 1922.”. Bruno GATTA sintetizza così la ratio del potere che il Duce d’Italia concepisce e tenta di attuare nei primi anni del Regime: “Il Fascismo vuole un governo forte per la Nazione”. Così si spiegano “il discorso del 3 Gennaio, la svolta autoritaria e “totalitaria” del governo fascista. Le pagine della vicenda politica e umana di Mussolini corrono veloci verso il 1929, l’anno della Conciliazione, quell’ 11 Febbraio quando l’evento, tanto atteso e da molti ritenuto impossibile, finalmente realizza e completa l’unità nazionale del Risorgimento”71. Il progetto – peraltro, solo in parte realizzato, coll’imponente complesso di leggi a tutela del lavoro, tanto vaste ed importanti da far riconoscere, all’Organizzazione Internazionale del lavoro, in un Congresso del 1938, che l’Italia possedeva ormai una legislazione sociale che la poneva in una posizione di sicura avanguardia nel mondo – dello Stato Nazionale del Lavoro e la riconciliazione con l’anima cattolica del popolo italiano sono i punti culminanti dell’ “Italia degli Italiani” , obiettivo mancato del Risorgimento e tenacemente perseguito da Mussolini. Poi il destino volle diversamente, ma bene, anche se amaramente , conclude Bruno Gatta72, attorno a Mussolini ruotò “la storia di un sogno, di una Italia che si affacciava all’Oceano e che sedeva tra le grandi potenze del mondo. Anche i sogni a volte fanno la storia”.
di Corrado Camizzi


NOTE
1 Mazzini e Pisacane. Cappelli editore, BOLOGNA, 1960.
2 Civita Camporano, nel Molise, 1770 – Napoli, 1823. storico, pedagogista e uomo politico, si dedicò agli studi letterari, filosofici ed economici, collaborò attivamente alla Repubblica “partenopea” del 1799, poi col Vicerè d’Italia Eugenio Beauharnais, a Milano e, infine, a Napoli col Re Gioacchino Murat (dal Dizionario Enciclopedico Italiano, Ist. dell’E.I., 1970, vol. III, pp.694-695)
3 Ripubblicato, con Introduzione, Note ed Appendici di Nino CORTESE, Vallecchi, FIRENZE, 1926.
4 N. CORTESE, Introduzione al Saggio cit., p.X.
5 Ibidem, p. IX.
6 M.F. SCIACCA, Il pensiero italiano nell’Età del Risorgimento, Marzorati, MILANO, 1973, pp. 231-236
7 Dal Saggio, p.10.
8 Genova, 1805 – Pisa, 1872. fieramente repubblicano, tanto da non saper rinunciare, a differenza di Garibaldi, al pregiudizio antimonarchico in nome dell’Unità, fu l’educatore di intere generazioni di Italiani e l’anima di tutto il movimento nazionale. I patrioti protagonisti del Risorgimento vissero tutti l’esperienza mazziniana.
9 Pisacane e Mazzini. L’anima popolare della rivoluzione italiana, BO, Cappelli, 1960, p. 75.
10 A. RAGAZZONI, Noterelle mazziniane, Comitato di Bolzano dell’I.S.R.I, 2004, p.4.
11 D. BROCCHI, cit. p.60.
12 Dedicato “agli operai d’italia”, del 1860 e riedito, a c. di P. ROSSI, dall’Editore Mursia, di MI, nel 1984.
13 Dei doveri..., cit, p.15, n.1.
14 D. BROCCHI, o.c., pp. 75-76.
15 A. RAGAZZONI, Noterelle..., cit., p. 8.
16 Ibi, p. 4.
17 Napoli, 1818 – Sanza, 1857. Patriota e scrittore, di nobile famiglia. Ufficiale nell’esercito borbonico, disertò per fuggire con l’amante nel 1847. Dopo varie peregrinazioni, si arruolò nella Legione straniera ad Algeri da dove fuggì per tornare in Italia e per partecipare all’ultima fase della guerra quarantottesca. Nella Repubblica romana, capeggiò la Commissione di guerra e fu capo di stato maggiore, ma in insanabile contrasto con Garibaldi. Caduta la repubblica, andò di nuovo in esilio per poi stabilirsi a Genova, dove pubblicò, nel 1851, la Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49, polemicissimo saggio, dove critica tutto e tutti, da posizioni mazziniane. Ma il contatto con Cattaneo e la conoscenza dei socialisti francesi lo staccò da Mazzini e gli fece maturare una sorta di comunismo nazionale, facente leva su ipotetiche insurrezioni contadine, con un programma di radicale riforma agraria (“la terra ai contadini”). In questo clima di esaltazione rivoluzionaria progettò – ancora una volta in disaccordo col Mazzini - la sfortunata spedizione di Sapri, nella quale, assalito coi suoi “trecento” dalla guarnigione militare e da gruppi di quei contadini, di cui sognava il riscatto e che li videro come briganti, si uccise in combattimento, per non lasciarne ad essi la responsabilità morale. (Diz. Enc. Italiano, Ist.E.I. Treccani, 1970, vol. IX, pp.468-469).
18 Citata in G. VOLPE, Pagine risorgimentali, Volpe Editore, ROMA, 1967, vol.II, p. 18.
19 D. BROCCHI, Pisacane e Mazzini... cit, p. 25.
20 Ibi, p. 21.
21 G. VOLPE, Pagine..., cit., p. 46.
22 Citata in D: BROCCHI, Pisacane... cit, p.28.
23 Ibi, p.32.
24 G. VOLPE, Pagine... cit, p. 37.
25 Nizza, 1807 – Caprera, 1882.
26 Dizionario Enciclopedico Italiano, Ist. E.I. Treccani, 1970, Vol. V, p.223.
27 A. SCIROCCO, Garibaldi. Battaglie, amori, ideali di un cittadino del mondo, 2001; qui cit. nell’edizione del SOLE24ORE, 2010, pp. 358-359.
28 Al p. 6 della mozione conclusiva di questo congresso, si dichiara “decaduto il papato, essendo la più nociva delle sette” così citato in SCIROCCO, o.c., p. 361 !
29 A. SCIROCCO, o.c., p. 363.
30 Ibi, p.370.
31 Romanziere, storico e saggista romagnolo (Faenza , 1852 – Casola Valsenio, 1909) che polemizzò duramente contro il carattere elitario ed oligarchico del Risorgimento. (dalla voce dedicatagli dall’Enciclopedia Italiana Treccani, 1935, Vol XXV, pp. 534-536)
32 Ibi, p. 34.
33 G. SPADOLINI, Gli uomini che fecero l’Italia, Biblioteca storica del GIORNALE, 1993, pp. 470-473.
34 Ibidem, p. 470.
35 Ibi, p. 471, per concludere, con una certa ambiguità, che questo era “l’unico strumento per simulare le insufficienze fondamentali della composizione unitaria” (ibidem, p. 472).
36 Voce Oriani, cit., p.536.
37 Vol. VIII, p. 629.
38 Il Sindacalismo rivoluzionario, teorizzato dallo scrittore francese George Sorel, propugnava l’azione sindacale come “la più efficace forma di educazione allo spirito rivoluzionario e la forza centrale su cui esclusivamente deve poggiare l’attività rivoluzionaria per il rinnovamento radicale della società”.
39 Licciana Nardi, 1874 – Brive, Francia, 1934. Autore, con D’Annunzio, della Carta del Carnaro, è il maggior esponente del Sindacalismo rivoluzionario.
40 Ma l’esperienza fiumana, col suo carattere avventuroso se non avventuristico, così ben descritta da Claudia SALARIS, non poteva certo costituire la risoluzione concreta della grave situazione dell’Italia nel primo dopoguerra.
41 G.B. FURIOZZI, Alceste De Ambris e il Sindacalismo rivoluzionario, Franco ANGELI Editore, MI, 2002
42 Visto che il Sindacalismo rivoluzionario italiano nasce col Manifesto del 25 Agosto 1906, mentre Sorel pubblica la sua Degenerazione del Marxismo nel 1908 e il suo distacco definitivo dal Marxismo si realizza solo nel 1910.
43 Continuità ideale, in Filippo Corridoni. Mito e storia dell’Arcangelo Sindacalista, a.c. Di M. BOZZI SENTIERI, Ed. Settimo Sigillo, ROMA, 1980.
44 G.B. FURIOZZI, Alceste De Ambris..., cit., p. 74.
45 Ibidem, p. 61.
46 Nato a Pausola, oggi Corridonia, nel 1888, perito industriale, si occupò nell’azienda del gas milanese come disegnatore tecnico; abbracciò subito la causa della difesa dei diritti dei lavoratori; nel 1906 aderì al sindacalismo rivoluzionario; convinto antimilitarista, fondò, nel 1907, il giornale Rompete le file, con l’agitatrice femminista Maria Rygier. Durante lunghi anni di lotte sindacali, esilii e detenzioni, maturò un pensiero politico-sociale ricco e complesso e non privo di contraddizioni, anche se sempre nel solco del repubblicanesimo, del democraticismo e del sindacalismo soreliano.
Alla vigilia della Guerra, in carcere, in nome del principio per cui “la Patria non si nega ma si conquista”, vide in essa la grande occasione rivoluzionaria e si fece attivo interventista. Uscito dal carcere, chiese subito – malgrado le cattive condizioni di salute – l’arruolamento volontario. Cadde eroicamente sul Carso, alla “Trincea delle frasche” il 23 Ottobre del 1915. (dalla Voce Filippo Corridoni, in Dizionario Enciclopedico Italiano, Istituto della E. I. Treccani, 1970, vol.III, p. 559).
47 C: CURCIO, Le origini del sindacalismo in Italia, 1943, così cit. in M.BOZZI SENTIERI, Filippo Corridoni. Mito e storia dell’Arcangelo Sindacalista, Ed. Il Settimo Sigillo, ROMA, 1988, Nota introduttiva, p. 10.
48 Val la pena, in questa sede, almeno abbozzare una traccia di una storia della storiografia corridoniana. Ricca, anche se di non eccelsa qualità a causa della errata convinzione che Corridoni avesse scritto e lasciato poco, essa si può scandire in tre fasi: - dalla fine della grande guerra alla Dittatura (1919-1925, A. De Ambris, A.O. Olivetti), è a carattere più apologetico-rievocatorio che scientifico; - il Fascismo (1929-1943) ne fa un proprio precursore, sulla base, anche, del fatto che Corridoni è il primo a chiamare Duce, Mussolini. L’intento strumentale (Berni, Masotti, Rastelli) è senz’altro presente fino, talvolta, ad inquinare l’attendibilità dei lavori, a cui tuttavia non mancano coerenza e plausibilità; - la terza fase, dopo il 1945, che doveva finalmente fornire una revisione critica della figura e dell’opera di Filippo Corridoni, ha, invece, un aspetto più complesso. Per lungo tempo il personaggio pare quasi volutamente dimenticato dalla storiografia ufficiale. Solo nel 1975, M. ANTONIOLI, in un articolo su Ricerche storiche lo riconosce “ideatore del modello sindacale industriale”, il sindacato “di mestiere”; ma, nel 1977, in un’operetta di G.B. Furiozzi sul S.R.I., a Corridoni viene rimproverato l’errore contro il principio fondamentale della lotta di classe, abbandonato il quale l’intero movimento sarà travolto dalle vicende postbelliche; ancora nella stessa rivista, però, nel 1983, Alceo RIOSA relega l’Eroe della Trincea delle Frasche “tra i miti del Fascismo”. Frattanto, qualche timido tentativo di ricordarlo nasce tra l’emarginata letteratura di Destra (Rauti, 1976, Malgieri, 1987, Bozzi Sentieri, 1988), che tuttavia non abbandona il cliché del sovversivo folgorato sulla via di Damasco. Più recentemente, A. RIOSA gli ha dedicato un’ampia voce sul Dizionario Biografico degl’ Italiani, dell’Ist.E.I. e L. SALCICCIA un pregevole sebbene un tantino unilaterale, biografia. Ma una vera storiografia scientifica corridoniana non potrà non presupporre una attenta rilettura degli scritti del Tribuno, che Andrea Benzi ha curato quasi per intero nei tre volumi editi dall’Editrice Barbarossa, tra il 2001 e il 2006, articolati in “Scritti politico-sociali”, “Articoli di giornale” e “Lettere” (compresi frammenti epistolari e cartoline dal fronte)..
49 Nato a Dovia di Predappio il 29/VII/1883, assassinato a Giulino di Mezzegra il 28/IV/1945, è il vero creatore dell’Italia degli Italiani. Quell’Italia che neppure la terribile esperienza della guerra (e della guerra civile!) valse ad annientare.
Ci riusciranno, invece, la venefica propaganda antinazionale della cultura di Sinistra, tuttora egemone, checché se ne dica, le ruberie di una politica corrotta a tutti i livelli e il malgoverno generalizzato di questo eterno dopoguerra che distruggeranno la Nazione che lui era riuscito a costruire, nell’ambito dello Stato nato dal Risorgimento, negli anni migliori del suo governo.
50 É quella scritta (purtroppo interrotta dalla morte dell’Autore e proseguita sulle sue carte da un gruppo di storici, amici e collaboratori, coordinati da Vincenzo PACIFICI) da Giuseppe TRICOLI e intitolata Benito Mussolini. L’Uomo, il rivoluzionario, lo statista e la sua formazione ideologica, pubblicata da La Navicella, ROMA, nel 1996.
Si tratta di una biografia intellettuale, volta a ricostruire la sostanza culturale e spirituale dello statista romagnolo, divenuto il Duce d’Italia e articolata in tre parti.
La prima narra la giovinezza, agitata ma ricca di meditate letture di tutta la letteratura socialista dell’Ottocento, da Mazzini a Oriani, da Blanqui a Marx e a Sorel, con spirito eminentemente romantico e volta a maturare un socialismo umanitario, che scopre e abbraccia la Nazione e lo accompagnerà fino alla morte. Non dimenticando i profili dei genitori: il fabbro Alessandro, agitatore socialista e la madre, la maestra carducciana Rosa Maltoni,, essa si estende, in questa prima parte, fino all’assunzione della direzione dell’AVANTI!, il 1° dicembre 1912.
Il nuovo compito si accompagna ad una nuova fase di pensiero politico (affiancato dal sodalizio culturale con le tre donne “ispiratrici”: Angelica Balabanoff, Leda Rafanelli e Margherita Sarfatti) che gli farà concepire la rivista metapolitica Utopia e darà alla sua concezione politica i caatteri del “pensiero pensante”.
51 Dalla recensione di Bruno GATTA, pubblicata dal Secolo d’Italia del 23/XI/1996.
52 G. TRICOLI, o.c., p.23.
53 B. GATTA, recensione cit.
54 “Ribellione aperta, violenta e morale contro l’inumano ordine di cose attualmente costituito”. L’opera socialista per “rendere più grande, più ricca, più civile l’Italia che noi socialisti adoriamo più della borghesia gretta e retrograda”. (da un articolo di Alessandro Mussolini, sul Pensiero romagnolo, del 1891, cit. in TRICOLI, o.c., pp. 39-41).
55 Ibi, pp. 17-18.
56 E. ERRA, in una recensione alla biografia del Tricoli di cui non ci è stato possibile individuare il locus di pubblicazione.
57 G. TRICOLI, o.c., p. 79 e poi 94.
58 Nella recensione praticata.
59 G. TRICOLI, o.c., pp. 111-112.
60 Ibi, p.116.
61 Ibi, p. 129. Dal soggiorno a Trento nascerà Il Trentino visto da un socialista, un profilo socialnazionale del territorio, universalmente considerato tra i migliori scritti di Mussolini.
62 G. TRICOLI, o.c., p. 151.
63 Ibidem.
64 o.c., p. 154.
65 o.c., p. 164.
66 Così cita il Tricoli, in o.c., p. 166.
67 o.c., p. 170.
68 Così cit. dal Tricoli, o.c., p. 179.
69 o.c., p. 194.
70 Nella recensione citata.
71 Nella recensione citata.
72 Recensione citata.



 (22 Maggio 2013)