Il regime borbonico strinse un’alleanza di fatto con la camorra, almeno a partire da Francesco I (regno 1825-1830). Uno dei principali collaboratori di questo sovrano fu il famigerato Del Carretto, del cui spietato operato è un esempio la repressione del moto del Cilento. I carbonari della città di Bosco tentarono una rivolta armata per ripristinare la Costituzione carbonara napoletana del 1820. L’esercito borbonico, guidato dal Del Carretto, giunse sul posto, circondò il paese e lo spianò con l’artiglieria pesante. I superstiti furono fucilati od uccisi a baionettate. Però il Del Carretto spianò anche i paesi limitrofi di Licata, Camerata, e San Giovanni a Piro.
Il Salvemini in "Ricordanze della mia vita" è durissimo verso Ferdinando II ed i suoi ministri, a cominciare dal Canosa: egli li conosceva bene di persona e conosceva anche i loro amici, parenti, confidenti ecc. Così il Salvemini descriveva il Canosa:
"Francesco Saverio Del Carretto, ministro della polizia e capo della gendarmeria, aveva in mano un immenso potere e lo esercitava con arbitrio spaventevole. Nei giudizi criminali, nei piati civili, nelle contese di famiglia, nel commercio, nell’istruzione, nell’amministrazione, metteva le mani in tutto, e tutto rimescolava con insolenza gendarmesca. Operoso e destro, non aveva alcuna fede, fu carbonaro, poi, ribenedetto, carezzava i liberali per corromperli, lisciava le donne per usarne anche come spie."
Questo Del Carretto fu ministro della polizia, potentissimo, sotto tre diversi sovrani: Ferdinando I, Francesco I, Ferdinando II. Il Del Carretto era membro di una associazione segreta reazionaria e di stampo camorristico, quella cosiddetta dei “Calderari”. Essa era stata formalmente proibita, ma era attiva e ben ramificata ed appunto collusa con la camorra, tanto che alcuni suoi membri erano detenuti nelle carceri borboniche, ove la camorra spadroneggiava.
Sotto il regno di Francesco I tale organizzazione criminale, che già aveva notevole potere politica in precedenza, acquistò quasi funzioni parastatali ed ebbe forti appoggi fra i ministri ed i cortigiani.
La setta dei calderari sarebbe stata istituita nel 1816 dal principe di Canosa, quando era ministro della polizia, col preciso obiettivo d’operare “in difesa della religione e della monarchia legittima".
Secondo un’altra ipotesi, la setta sarebbe stata creata su impulso di Maria Carolina (la regina straniera che aveva di fatto esautorato re Ferdinando I dalle sue mansioni regali, a cui egli non teneva affatto, responsabile delle stragi dei patrioti della repubblica partenopea), tanto che essa prendeva anche il nome di “Caroliniana”. Tale organizzazione segreta aveva come simbolo una caldaia sotto la quale "brucia e si consuma il carbone”.
Gli storici hanno avuto difficoltà a ricostruire la storia dei Calderari, proprio per la sua natura d’associazione segreta. Appare però evidente che essa era costituita in buona misura da criminali comuni. Il Colletta, autore fondamentale per la conoscenza della repressione dei moti del Cilento, parla dei calderari come di delinquenti comuni tolti dalle carceri nel 1799 oppure provenienti dal brigantaggio del decennio successivo. Il Carascosa, nelle sue “Memoires historiques”, concorda sostanzialmente su tale impostazione, sostenendo che i Calderari erano in massima parte persone colpevoli di fatti vergognosi e senza autentici principi. Persino un autore chiaramente borbonico come Ulloa è sprezzante nei loro confronti, definendoli in sostanza quale plebaglia. I vari calderari erano armati e rappresentavano assieme un’associazione segreta ed un gruppo paramilitare, che si è supposto riprendere uomini, idee e pratiche dei vecchi sanfedisti, almeno in parte costituita da criminali e camorristi.
Il professor Barbagallo, ordinario di storia contemporanea all’Università di Napoli “Federico II”, scrive che dopo il 1848 “la polizia borbonica, nella tutela dell’ordine pubblico, non mancò di servirsi dell’organizzazione camorristica […] E spesso fece ricorso ai camorristi incarcerati per avere informazioni sul comportamento dei detenuti politici” (FRANCESCO BARBAGALLO, Storia della camorra, Roma-Bari 2010, p. 12). Inoltre, non vi è dubbio che la camorra “riusciva a far carriera nella «bassa polizia» e a confermare, anche per questa via, il suo ruolo di dominio sulle masse plebee della capitale” (op. cit.). Barbagallo scrive che la mancanza di fonti d’archivio impedisce d’approfondire l’idea dell’esistenza d’una “precisa strategia di collaborazione tra il regime poliziesco borbonico e la camorra”, ma che comunque simili “collusioni erano denunciate da esuli liberali come Antonio Scialoja” (op. cit.). Esistono inoltre “documenti e rapporti dei ministeri borbonici che attestano la profonda corruzione degli organi di polizia ai diversi livelli” (Ibidem, p. 13).
Il Monnier, nel suo pioneristico studio sulla camorra, ricorda che Ferdinando II si alleò di fatto con la camorra. Mentre in passato essa era stata lasciata indisturbata e semplicemente non repressa, ora invece se ne cercò l’amicizia in funzione antiliberale. Scrive il Monnier che il sovrano borbonico “organò una polizia formidabile contro tutti coloro che gli facevan paura. Né erano i ladri o i briganti, che non aveano opinioni politiche; usava riguardi ai primi, concedeva pensioni ai secondi (a Talarico per esempio), li relegava in un'amena isoletta, o li lasciava in libertà. Ma i liberali erano inseguiti e perseguitati con infaticabile ardore. Tale fu l'opera moralizzatrice impresa e compiuta da re Ferdinando. Non tratta vasi di sradicare gli abusi, ma piuttosto di preservare quelli che potevano tornar utili alla conservazione del trono. Non si pensava in guisa alcuna a trarre la plebe dal suo avvilimento; anzi si desiderava di mantenervela fino alla fine dei secoli, ben sapendo che la monarchia assoluta non è possibile, nei tempi in cui viviamo, se non in un popolo snervato e degradato. La camorra non potea quindi esser trattata da Ferdinando come nemica. Prima del 1818 essa non si era occupata del governo: non lo avea combattuto, e neppure molestato. A che muoverle contro? Fu lasciata tranquilla, tanto più volentieri perché non si amava averla nemica. I camorristi, lo notai, erano plebei energici. Quindi meritavano riguardi dal governo sempre dominato dalla paura. D'altra parte essi rendevano servigi alla polizia: si vuole anche che ne facessero parte. Ho nelle mie mani appunti molto curiosi, scritti da un camorrista pentito, il quale forniva ragguagli singolari intorno alle relazioni della setta coll'antica prefettura di Napoli. Secondo questi appunti divisi in articoli, e colla forma di un codice segreto della camorra, la setta era posta, a' tempi dei Borboni, sotto la sorveglianza della polizia. All'indomani della sua elezione, il nuovo affiliato presentavasi al commissario del suo quartiere, e chiedevagli un’udienza particolare: «Voi vedete» gli diceva «un nuovo operaio che ha ricevuto la proprietà». E dopo ciò gli dava dieci piastre. Il commissario trasmetteva la notizia al prefetto di polizia, il quale in capo ad un mese riceveva una mancia di cento ducati. Né basta. Il prefetto non limitavasi a prender la sua parte di barattolo, ma presiedeva anche all’organamento della società segreta e nominava egli stesso i capi dei dodici quartieri, ciascuno de'quali avea una provvisione di cento ducati (425 lire italiane) al mese, pagata sui fondi segreti della polizia In ricambio i funzionari governativi incaricati di vegliare alla pubblica sicurezza non sdegnavano di riempire le loro tasche con il denaro estorto ai poveri da questi malandrini a ciò autorizzati. Quando si divideva il Carusiello, un terzo dei benefizi era religiosamente portato al commissario, che a sua volta lo divideva coll'ispettor di servizio e col caposquadra. E ciò avveniva nei dodici quartieri e durante tutto il felicissimo regno di Ferdinando II. Questo affermano gli appunti del camorrista.” (M. MONNIER, La camorra. Notizie storiche raccolte e documentate, Firenze 1862, pp. 82-83). A prescindere dalla veridicità di questa alleanza così stretta e formalizzata, il Monnier può comunque asserire che la camorra era rispettata dai Borboni ed impiegata quale una sorta di corpo di polizia: “Comunque siasi, la camorra fu rispettata, usata spesso sotto i Borboni fino al 1848. Essa formava una specie di polizia scismatica, meglio istruita sui delitti comuni della polizia ortodossa, che occupavasi soltanto dei delitti politici. Quando un furto importante avveniva in un quartiere, il commissario chiamava a sé il capo dei camorristi e lo incaricava di trovare il ladro. Il ladro era sempre trovato, salvo il caso che fosse il capo dei camorristi. ... o il commissario. Inoltre la camorra, come ho già notato, era incaricata della polizia delle prigioni, dei mercati, delle bische, dei lupanari e di tutti i luoghi mal famati della città.” (Ibidem, p. 84). È per questa ragione che, osserva sempre il Monnier, “è costume preso sotto i Borboni di non tener in conto la polizia legale” e ricorrere piuttosto al camorrista (p. 84). Il professor Barbagallo scrive che la camorra nel periodo borbonico esercitava un dominio sulle carceri, sui mercati, sulle bische di fatto autorizzate dalla polizia, e sulle attività daziarie, talvolta spesso in vera e propria sostituzione dei funzionari (BARBAGALLO, cit., pp. 7-11). “La camorra costituiva quindi una specie di potere parallelo rispetto a una debole struttura statale”, può concludere Barbagallo (Ibidem, p. 11). Le sue attività erano in parte ispirate dalle azioni estorsive e dalla corruzione comunissime nella polizia borbonica, i cui membri praticavano estorsioni (ovvero la richiesta del “pizzo”) ai negozi ed esercizi: “In tal modo la pessima amministrazione di questo settore basilare del regime forniva un preciso paradigma operativo per la già esperta e attiva organizzazione camorristica; che si occupava di sovrintendere all’ordine delle prigioni, nei mercati, nei bordelli, nelle bische” (Ibidem, p. 13).
scritto da Marco Vigna
scritto da Marco Vigna