sabato 2 febbraio 2013

Lo strano revisionismo all'italiana


E’ difficile capire per quali ragioni in quella vasta e composita area politica e culturale che si riconosce nel centro-destra, ogni tanto qualcuno ritenga di dover rimettere in questione i momenti più alti della storia nazionale: l’atto fondativo della ‘comunità politica’ italiana—v. i simboli del Risorgimento e di Casa Savoia—e la nascita della nuova forma di Stato seguita alla caduta del fascismo e alla sconfitta militare—v. i simboli della Resistenza e della Repubblica. Un tempo si squalificava l’uno per esaltare l’altro. La saggistica di destra, ad esempio, minimizzava la lotta partigiana, contestava il referendum istituzionale, mostrava le lacerazioni dell’Italia ‘liberata’, contrapponeva alle miserie del presente l’eroica epopea del passato, evocava gli spiriti sdegnosi di Cavour, Garibaldi, Mazzini che mai si sarebbero riconosciuti nei loro lontani eredi e nella patria tornata ad essere.

 A sinistra il quadro era diverso: il Secondo Risorgimento, la Resistenza, aveva finalmente restituito al popolo lo scettro della sovranità sicché ora gli italiani non più sudditi passivi di una storia scritta da altri-- dalle élite del potere, dai loro notabili e dai loro intellettuali—avrebbero potuto partecipare, in virtù della democrazia non solo formale ma ‘sostanziale’scolpita a caratteri indelebili negli articoli della Costituzione Italiana, alla costruzione del loro avvenire. E’ vero che non tutta la destra, specie al Sud, sentiva il ‘mito risorgimentale e che non tutta la sinistra era disposta a credere nel ‘salto di qualità’ che per alcuni, seppur c’era stato, in poco volger d’anni, aveva visto esaurire la sua dinamica innovativa (v. la ‘Resistenza tradita’), ma in ogni caso quei due ‘miti di fondazione’ rimanevano estranei, se non ostili, l’uno all’altro. Solo i piccoli partiti ‘laici’—a cominciare dal Partito d’Azione—riuscivano a tenere assieme il 1861 e il 1946. Per gli altri, se una data era veneranda, l’altra era da dimenticare: chi cantava ‘Fratelli d’Italia’ non poteva che provare disagio e fastidio nel sentire ‘Bella ciao’ e viceversa.

Da quando un grande maestro della ricerca storica, Renzo De Felice, ha lanciato sul mercato delle idee il ‘revisionismo’, si sono registrati, nei fronti ideologici, significativi slittamenti di senso e di valore che,come in una quadriglia, hanno fatto scambiare le posizioni. La giustizia resa ai vinti del 1945 (i fascisti) ,a poco a poco, è stata rivendicata per tutti gli altri vinti della storia, almeno di quella moderna.

Se il ventennio non fu quello descritto dalla ‘vulgata antifascista’—come De Felice, giustamente, definiva le opere dei Guido Quazza, dei Nicola Tranfaglia ecc—perché lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie dovevano continuare ad essere considerati i prototipi del malgoverno di Satana? Quegli esecrati monarchi non avevano costruito strade e persino qualche ferrovia, non avevano favorito industrie e commerci, non avevano fondato orti botanici e teatri, chiese ed enti di beneficenza? Il riconoscimento di quel tanto o poco di buono che avevano lasciato le odiate dinastie nemiche dei patrioti e dell’Italia, come capita in una cultura fragile, priva di ‘nerbo concettuale’, per dirla col vecchio Croce, doveva convertirsi nella demistificazione, non priva di compiacimento, dei presunti ‘buoni’. Si vedano i libri (già ricordati in questa sede) di Angela Pellicciari—prefati da Rocco Buttiglione e apprezzati da un ‘antimoderno’ come Franco Cardini—o gli articoli sul ‘Giornale’ di Ruggero Guarini. Quest’ultimo di recente ha condensato, sul periodico on line ‘Il Velino’, tutti i luoghi comuni del revisionismo ‘allargato’ e in una lettera a Dell’Utri così ha fatto parlare la Signora Italietta: < La rivoluzione napoletana del 1799, con cui si pretende che sia incominciato il mio Risorgimento, non avvenne mai. Quel che avvenne fu una vittoria dei conquistatori francesi che dopo aver sbaragliato l’esercito borbonico, messi in fuga il re e la regina e soffocato nel sangue la resistenza dei Lazzaroni, permisero ai giacobini locali, che non avevano mosso un dito, di fondare una repubblica fantoccio.
Il Risorgimento non fu, come il termine lascia credere, un movimento di popolo, ma una lunga serie di cospirazioni e sommosse ordite da movimenti elitari e sfociate in una serie di guerre di conquista combattute e vinte dal Piemonte (col sostegno di un’esigua minoranza di “patrioti” e di alcuni Stati europei) per annettersi tutti gli altri staterelli preunitari.
Quale Italietta liberale? – Le molte migliaia di fucilazioni con cui nell’ex Regno delle due Sicilie furono represse, durante i miei primissimi anni di vita, le ultime resistenze filoborboniche (briganti o partigiani?), nonché l’inizio della grande fuga degli emigrandi verso le Americhe (in pochi decenni circa venti milioni di disperatissimi miei figli onorarono la mia nascita scappandosene altrove) dicono che gli inizi della mia storia dopo l’unità, dipinti come sereni e operosi dai suoi apologeti, furono segnati dal terrorismo di stato e dell’accresciuta miseria delle sue popolazioni più derelitte>. Come si vede, rispuntano a destra gli slogan di una storiografia—anche letteraria, teatrale e cinematografica--che imperversò nel ’68 e che affondava le sue radici in una cultura che, da Alfredo Oriani a Piero Gobetti, da Antonio Gramsci al primo Salvemini, aveva alimentato il non-conformismo degli anni dieci, l’antigiolittismo eversivo e, da ultimo, l’interventismo del radioso maggio inteso a‘rigenerare’ la flaccida provincia italiana con una vera.

Alla base di questo anticonformismo déjà vu—ripreso da Marcello Dell’Utri che, dopo Francesco Storace, ripropone la Commissione ministeriale per la revisione dei libri di testo e da Raffaele Lombardo, che ripete vecchie litanie sul ‘male che ci ha fatto Garibaldi’:-possono esserci varie motivazioni.

Innanzitutto, una volontà di provocazione, di épater les bourgeois, ma sempre più ripetitiva e inefficace; la notizia del bambino che ha morso il cane, infatti, colpisce la prima volta ma, a forza di sbatterla in prima pagina, diventa più stucchevole di quella del cane che ha morso il bambino, sicché se oggi uno storico pubblicasse una impegnativa Apologia del Risorgimento farebbe più scalpore di mille Pellicciari, Cardini e Guarini messi insieme.
In secondo luogo, la difficoltà di pensare per et et piuttosto che per aut aut. Nel teatro culturale italiano sembra esserci posto solo per un protagonista alla volta. Se si riabilita Ferdinando I (non si sa come ma tutto è possibile) si sottraggono allo sguardo degli spettatori i ‘martiri napoletani’ del 1799, si cancella il ricordo di uno dei più fulgidi centri dell’Illuminismo europeo (illustrato dai Galiani, dai Filangieri, dai Genovesi, dai Pagano), si relega in soffitta il primo grande capolavoro dello storicismo liberale italiano, il Saggio storico di Vincenzo Cuoco.

In terzo luogo, il preconcetto delle ‘anime belle’ che non concepiscono nascita di stato nazionale senza il ; come se in altri paesi europei—ivi compresa l’Inghilterra—il processo unitario non sia stato opera di un’ e il prodotto dell’ambizione di dinasti scaltri e intraprendenti.
E infine, forse decisivo, il tipico delle nostre scuole che non riusciranno mai a capire che ogni interpretazione di un evento è una costruzione intellettuale quanto mai ardua e complessa. La ‘storia’, con la sua miriade sterminata di fatti, non è il supermarket della memoria in cui ciascuno preleva ciò che fa più comodo alla sua ‘tesi’, ritenendosi esonerato, nel nostro caso, dal fare i conti con la grande storiografia italiana del passato-- da Volpe a Croce, da Omodeo a Chabod, da Venturi a Romeo, per limitarci a questi sommi che non avevano nulla, proprio nulla, da invidiare ai maestri d’oltralpe—e con la sua esemplare riflessione sulla ‘questione risorgimentale’.
A ben guardare, questo dilettantismo è il peggiore lascito di un antico condannato a precludersi la consapevolezza che qualsiasi spiegazione si possa avanzare sulle vicende umane—fosse pure la più eccentrica—troverà sempre, nei fatti, qualche pezza d’appoggio; sennonché ,nelle scuole frequentate dai neo-revisionisti, Max Weber, come il caffè nella tazzina di Luca Cupiello, .
Non è questo, tuttavia, l’ aspetto più preoccupante della polemica sul revisionismo e sui libri di testo. In tutti i paesi occidentali, la storia nazionale è oggetto di ‘revisione’. Si pensi, nell’Europa dell’Ottocento, all’imponente dibattito sulla Rivoluzione francese, sulla sua genesi, sulla sua natura, sui suoi protagonisti cui partecipano le più robuste menti filosofiche della Germania del tempo, da Kant a Hegel! O, negli Stati Uniti, alla guerra d’indipendenza interpretata in modi differenti--per gli uni,i democratici ovvero i republicans-, è l’inizio di un novus ordo seculorum, per gli altri, i liberalconservatori ovvero i federalists, è la riappropriazione, da parte degli inglesi d’oltreoceano di diritti storici e di libertà (al plurale) che Londra aveva conculcato. In seguito, l’altro evento traumatico—la guerra civile—attiva un ancor più lacerante‘conflitto di interpretazioni’ e porta a scovare ‘fatti’ – arbitri, violenze, genocidi—destinati a pesare come macigni nell’immaginario collettivo e, puntualmente, portati da Hollywood sugli schermi.

In tutti questi casi, però, la ricostruzione storica rappresenta un’arma brandita dai partiti-- e dalle loro retrostanti aree culturali-- in una lotta politica che si svolge all’interno del regime ma che lascia fuori la ‘comunità politica’, due dimensioni che vanno accuratamente distinte. La comunità politica, infatti, è l’edificio, il territorio, il contenitore istituzionale, in cui si svolge la competizione per il potere e si confrontano i ‘partiti’ con le loro diverse, talora irriducibili, ‘visioni del mondo’. Il regime politico, al contrario, si riferisce all’assetto interno dell’edificio, alla suddivisione e all’assegnazione degli spazi, ai ruoli di autorità, alle regole che debbono presiedere all’elezione degli amministratori. La prima, se si vuole, si trova in prossimità dello Stato, il secondo, in prossimità del governo.

Orbene ciò che colpisce nelle battaglie storiografiche combattute in Italia è che le tesi contrapposte non si propongono solo di fornire agli avversari risorse culturali per l’andata al ‘governo’ ma rimettono sistematicamente in discussione la stessa ‘comunità politica’. Non si tratta, in altre parole, di decidere se nella tormentata fabbricazione del bene collettivo ‘Francia’ siano state più importanti le dinastie esaltate da Charles Maurras o i soldati dell’anno II celebrati da Michelet e dalla’ Terza Repubblica—il prevalere dell’una o dell’altra tesi, evidentemente, decide quale subcultura politica ha più titoli per governare l’hexagone. Da noi, dietro le controversie ideali, ci sono spesso l’arrière pensée del , la rottura di una continuità ,l’orgogliosa rivendicazione di una diversità irriducibile. Di qui il rifiuto--ostentato e provocatorio--dei ‘simboli comuni’:
Nei dollari americani ci sono tutti: Washington, Hamilton Madison; nel Pantheon francese, stanno fianco a fianco Giovanna d’Arco e Luigi IX, il ‘Roi Soleil’ e Napoleone, il Louvre e la Bastiglia. In Italia, invece, i simboli convivono nei monumenti, nelle facciate di enti, scuole, ospedali, nella toponomastica dei comuni ma non nei cuori di quelle che Barrès chiamava le ‘familles spirituelles’ di una nazione. Un repubblicano che passa davanti alla statua equestre di Vittorio Emanuele II o un monarchico che guarda l’esile figura di Mazzini scolpita nel marmo provano entrambi una sensazione di disagio Non è vero che la modalità retorica nazionale sia quella dell’embrassons-nous—le immagini dei padri della patria a braccetto nell’iconografia risorgimentale hanno sempre attivato le ironie di chi --: il nostro famedio ha un numero limitato di posti. Quella italica, invece, è la, così bene espressa nel . Che se ne lasci sedurre qualche componente del centro-destra non è un buon segno.